Titolo: Ciò che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso. (Ma l'amore ci è venuto incontro liberandoci da ogni altro peso.)
Fandom: RPF - Inter F.C./F.C. Barcellona.
Personaggi/Pairing: José Mourinho, Zlatan Ibrahimović. (Jobra)
Rating: VM16, così, a naso.
Warning: Slash, Angst, solita roba randomica.
Word Count: 2054.
Disclaimer: Ma per piacere, io nemmeno ce l'avrei il tempo per star dietro a 'sti due dementi.
Note: Dunque. Questa storia è nata nel giro di boh, due ore e poco più, per mericolpa - merito + colpa, affibbiare pure le percentuali che più vi sembrerà opportuno affibbiare - di una Jobra di
lisachanoando, una delle sue storie che io ho più amato in assoluto, ovvero "Love will come through" -
prima e
seconda parte. È, dunque, una spin-off. In particolare, diciamo che ho voluto approfondire le sensazioni di Zlatan nell'ultima parte del tutto, motivo per cui è praticamente indispensabile leggere LWCT prima di tutto il resto - nel caso remoto non l'abbiate ancora fatto pentitevi e muovetevi, almeno quella dovete leggerla.
Ho ribaltato la situazione, quindi, focalizzando la mia attenzione appunto su Zlatan. E ne è uscito quel che ne è uscito, non lo so, è un po' un casino. Ma spero convinca, prima di tutto la Liz, e poi anche chiunque altro voglia addentrarsi nella lettura.
Ultima cosa: il titolo è tratto da “Ballata degli impiccati”, di Fabrizio De André. Il sottotitolo è per metà la ripresa del titolo “Love will come trough”, per altra metà mia aggiunta - con tanto di rima, cioè, stima su di me.
Ciò che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso.
(Ma l'amore ci è venuto incontro liberandoci da ogni altro peso.)
In progressione: sangue catene libellule - ti perdi nelle loro ali che non si vedono e forse non ci sono, non c'erano (quali ali?) - fame carezze nomi calendari stagioni pranzi cene equilibrio caffè (gelido) forbici cassetti baci dita unghie bocca lingua carne saliva ancora baci e poi notti rumori orologi (fermi) chiavi voce balconi sonno (da morire, da morirci).
Hai nodi su nodi su nodi fatti di pelle, è un corpo solo che è tutto un nodo e puoi sentirteli addosso nitidamente, li senti uno a uno come fossero fratelli da proteggere da qualcosa che in realtà spaventa anche te. Non capisci perché la tua mente stia lavorando in questo modo febbricitante, furioso, cercando parole su parole per poter descrivere questo momento e queste sensazioni - hai perso fiato, hai perso voglia, hai perso la sanità che ti restava in questi ultimi tre minuti.
Non hai mai pensato a così tanto così velocemente e ti senti esausto, vorresti urlare talmente forte da spaccare vetri terra e muri ma non ti riesce, riesci solo a mischiare quei termini come carte di un mazzo che presenta infiniti semi e infiniti numeri, così... tanti da nausearti. Ma è la tua mente e non puoi scappare, puoi solo sfogliarla a quel modo nevrotico per cercare la cosa precisa da dire, l'esatto concetto da esprimere.
Hai qualcuno davanti che ti guarda come se fosse in grado di amarti ma tu lo guardi e non capisci chi stia amando. Ci sono così tanti Te che non sapresti dirlo. Ti affatichi solo a pensarlo - ma devi risalire, devi risalire da quel pozzo che sei tu e che non vuole farti uscire. Devi liberarti, devi respirare, devi parlare. Tu (tu) devi farti vedere.
(Sangue.
Ovunque, su ogni superficie e brandello di carne, è peggio dell'aria ed è orribile, orribile, orribile, perché l'aria non si vede ma tutto quel sangue tu l'ha lì davanti tutto in un momento, ed è un sangue che conosci, è quel sangue su cui hai applicato un cerotto dopo aver baciato una ferita, è quel sangue uscito dal naso da sminuire con qualche risata leggera, è quel sangue che altera Helena almeno una volta al mese e su cui invece puoi ridere ben poco. Ma ora è così tanto ed è tutto in una volta, non puoi farcela a curarlo, non puoi, non puoi, non puoi.
Catene.
Sei legato dalla stessa aria che non tu lascia respirare, respiri ferro che ti appesantisce i polmoni e così ansimi, tremi, soffochi, come un animale ferito a morte.
Libellule.
Prima di baciarla per la prima volta noti questo muto battere d'ali appena accanto al suo bacino; osservi quel timido movimento come rapito, prima di distogliere lo sguardo e sorridere, sereno.
Fame.
Vorresti mangiare qualcosa, qualsiasi cosa, stai aspettando Zay da un'ora in quel cazzo di ristorante e ti sei rotto le palle di aspettare, aspettare, aspettare. Sempre. Ordini un piatto di pasta più per fastidio che per altro, e poi, ancora, aspetti.
Carezze.
Non sapresti contarle, prescindono dai numeri e dal volere di entrambi, talmente ruvide e belle da sembrare baci e sospiri. - Zay. - Lo dici pianissimo e lui lo ripete subito dopo, ancora più piano, ti addormenti prima di capire il perché.
Nomi.
Non riusciresti più a chiamare Zay “José” nemmeno volendo. È qualcosa di fisico. È il movimento della tua lingua, automatico, che non chiede conferme e pronuncia quelle tre lettere come fossero quanto di più semplice al mondo; sono lì, sono tue, e allora perché non usarle.
Calendari.
Passano giorni come medicine da prendere e basta, a orari ben definiti: i tramonti sono sempre uguali e arrivano sempre alla stessa ora, l'alba arriva sempre allo stesso modo e tu la fissi con quel nulla negli occhi che ormai ti si è perso dentro del tutto. Non sai cosa aspetti, se aspetti, o se qualcuno aspetti te. Il tempo è così lento e vorace, a volte ti sembra che di giorno in giorno ti stia mangiando vivo.
Stagioni.
Freddo caldo umido freddo pioggia freddo caldo caldo afa caldo freddo fresco secco pioggia neve umido fresco caldo.
Pranzi.
Oh, stai mangiando? Non te n'eri accorto.
Cene.
Nero fuori e nero quello che mangi, non ha colore o sapore o senso, mandi giù come fossero momenti da dimenticare, da soffocare in gola assieme a urla e sofferenza, e basta.
Equilibrio.
La verità è che senza Zay si sta bene. Non senti più quella sensazione assurda di dipendenza, non aspetti per ore e ore il suo arrivo, non aspetti e basta, non c'è niente da aspettare e non c'è niente per cui sacrificarsi, non c'è... niente. La verità è che senza Zay si sta talmente bene che alle volte vorresti morire.
Caffè.
Hai smesso di bere il caffè caldo. Non che lì tu possa richiedere chissà che cosa, in fin dei conti è una clinica privata ma non certo un ristorante. Uno di quei ristoranti in cui Zay-- ma non ha importanza, il punto è che hai smesso di bere il caffè caldo, ecco tutto. Ora lo prendi freddo, gelido.
Forbici.
Hai scoperto di non saperle più usare. Ricordi vagamente di aver insegnato a qualcuno, anni fa, come tagliare un cartoncino o un pezzo di giornale, ma la verità è che non ti ricordi chi fosse quel bambino e nemmeno hai voglia di ricordatelo.
Cassetti.
Zay ha questa strana abitudine di non mettere mai niente nei cassetti. I cassetti di casa sua - ma anche quelli negli alberghi in cui alloggiate, in trasferta - sono sempre costantemente vuoti. Un giorno gli hai chiesto il perché, distrattamente, più per curiosità che altro. Non che t'interessi sul serio. Lui ti ha risposto che un cassetto è troppo piccolo per riporci le cose importanti e troppo grande per lasciarci dentro quelle che non contano nulla. Non si è mai fidato dei cassetti, li ha sempre trovati troppo ambigui. A te è sembrata una risposta talmente stupida che sul momento nemmeno gli hai risposto, alzando gli occhi al cielo.
Baci.
Ti togli le coperte di dosso e urli, urli, urli, urli finché non arriva qualcuno per calmarti, per piantarti nella carne una siringa e osservarti mentre t'indebolisci, socchiudendo gli occhi. Rivolgi lo sguardo fuori dalla finestra e pensi che ti basterebbe un suo bacio per calmarti davvero, per sentirti guarito dentro e fuori. Poi li chiudi, gli occhi, e capisci che non è vero, che non ne basterebbero nemmeno mille, che sarebbero la tua droga.
Dita.
A volte capita di sentirtele addosso, di sentirle muoversi sulla sua pelle, decise, assieme al vento che fa sbattere la finestra. E ti arrabbi quando capisci di starti per addormentare, perché sono illusioni che durano poco e durano ancora meno se perdi la lotta contro il sonno e cedi alle sue, di carezze.
Unghie. Bocca. Lingua. Carne. Saliva e ancora baci.
Vaffanculo Zay, vattene. Vattene, vattene, vattene.
E poi notti.
La verità è che senza Zay è un'eterna notte insonne.
Rumori.
Vorrebbe poter dire che ogni cosa che tocca o muove o vede gli ricorda Zay, come succede nei film, nei libri, in qualsiasi fottutissime serie televisiva. Il punto è che no, niente è in grado di ricordargli Zay, nemmeno volendolo. Vivi di momenti insipidi, di rumori che rimangono rumori e ti disilludono all'istante senza nemmeno più stupirti.
Orologi.
Non chiedi più che ore sono. Non hai idea di che ore siano, mai. C'è il sole, c'è la luna, non fa differenza. Non ha importanza.
Chiavi.
Questa è forse la cosa che ti manca di più di tutte. Poterti chiudere a chiave nel tuo fottuto cesso. E invece no, non puoi, perché se succedesse qualcosa le mille persone che ti hanno in cura devono poter accorrere senza aver di mezzo una porta da abbattere - come se fosse chissà quale ostacolo, dopotutto. Più di casa tua, più dei tuoi spazi, più del tuo Zay, ti manca poterti chiudere a chiave in quello stramaledettissimo cesso. Per non uscirne più, magari.
Voce.
Non puoi dire che non ti manchi il suo corpo, la sua erezione premere contro la tua e quel suo fregarsi sulla tua pelle come al volersi rinvigorire con quel solo ruvido contatto. Non puoi dire che non ti manchino le sue mani, la sua bocca un po' umida percorrere la tua schiena, i tuoi fianchi, il tuo petto con una devozione quasi imbarazzante. Non puoi dire che quella devozione non ti manchi. Tuttavia, più di tutto il resto, senti la concreta mancanza della sua voce, dei suoi borbottii, delle sue imprecazioni trattenute a metà quando voleva scoparti ma non poteva per chissà quale motivo e tu guardavi quella sua rabbia repressa con un ghigno trionfante e compiaciuto. Ti mancano i respiri violenti sulla tua pelle e la tua pelle contro la prepotenza delle sue parole.
Balconi.
Ti prende verso le cinque del mattino, di solito. Ti svegli e ti affacci alla finestra, passo dopo passo, con estrema calma. E vorresti che non fosse una finestra bensì un balcone, vorresti poter uscire e affacciarti e inspirare a pieni polmoni. Ti manca il balcone di casa di-- ti manca avere un balcone.
Sonno.
Non hai mai sonno, da quando sei - da quando vivi - lì. Se ti addormenti è perché in un modo o nell'altro decidi che è il caso di dormire un po', ma hai totalmente rimosso l'idea di sonno. Passi gran parte delle tue notti a fissare il vuoto, a memorizzare parti di una stanza di cui non ti frega nulla, per nessun motivo preciso. Lo fai e basta. Come ogni cosa, quando perde il proprio senso, si può scegliere di farla lo stesso o di non farla. E i rari sogni che fai ti ricordano quei pensieri sui cassetti: troppo insignificanti per pretendere di essere ricordati, oppure troppo invadenti, prepotenti, per poter essere contenuti in una sola mente. Allora forse Zay non diceva solo cazzate. Forse.)
Respiri dalla bocca aggrappandoti al suo colletto e fissandolo disperato, mentre lo riconosci e lo vedi, lo vedi, lo vedi.
Zay.
- Adesso piantala di fare la primadonna. C’è troppo poco spazio, qui, per contenere il tuo ego. Quindi ridimensionalo. -
Zay.
- Sono qui, adesso. Dimmi quello che mi devi dire, o avrò fatto un viaggio inutile. E non mi piacciono i viaggi inutili, zingaro, lo sai bene. -
- ...Zay. -
Senti quelle parole trascinarti in alto - lo senti fisicamente, è quello che stanno realmente facendo - e farti riemergere, ti riempiono gli occhi di lacrime e si fanno spazio tra tutte quelle altre parole a caso che sono rimaste lì nella tua testa a custodire momenti passati, a rimarcare ogni ora giorno mese senza di lui. Perdono senso tutte in una volta, sono ruscelli che vanno tutti allo stesso mare e tu puoi sentire l'acqua scorrerti ovunque, puoi sentire ogni cosa amplificata, palesata, mentre sputi fuori ogni cosa e Zay ti demolisce pezzo per pezzo, esattamente come tu ti aspettavi che facesse.
- Cos’è, adesso sai solo ripetere il mio nome? Bella storia. La prossima volta, mandami una lettera. -
Come tu ti aspettavi che facesse.
- Zay... - Boccheggi e gesticoli perché ti sei appena ritrovato, riconosci la tua voce e senti tutto il sonno che non ti ha tormentato per mesi caderti addosso tutto in una volta, ma resisti e tieni gli occhi aperti fissi nei suoi, mentre lasci che le lacrime ti righino il volto una dopo l'altra, disperate più di te e lui messi insieme.
Cos’è, adesso sai solo ripetere il mio nome? Bella storia. La prossima volta, mandami una lettera.
Gli dici che hanno ucciso Helena e i bambini e cazzo, hanno ucciso i tuoi bambini, hanno ucciso la tua donna. E più ti senti vomitare addosso risposte acide più ti apri, più parli e più piangi e paradossalmente non riesci e non vuoi urlare, è tutto talmente un sollievo che pensi solo a sussurrare ogni cosa lasciandola andare via come sudore dopo una partita, liberandoti da quell'angoscia, allontanandola, uccidendola. E Zay alla fine è lì quando gli chiedi di abbracciarti, è immediatamente attorno a te con tutte le sue forze e con tutto se stesso, piange su di te e per te, piange e basta.
Note randomiche dell'Autrice:
Ne ho avuta una voglia matta, all'improvviso; ho dovuto buttare all'aria tutto e scriverla o sarei scoppiata.
Ah, appunto randomico: le parole messe alla rinfusa all'inizio sono davvero messe alla rinfusa. Ho buttato giù le prime cose che mi venivano in mente, senza filtrare assolutamente nulla. Ho dovuto toglierne un po', alla fine, perché sennò diventava troppo lunga, ma quelle che ci sono sono esattamente nell'ordine in cui le ho, diciamo, partorire.
Il ricamo di Jobra tutt'intorno è venuto dopo.