Titolo: There is a wound that's always bleeding, there is a road I'm always walking.
Beta: Nisba, nada, se trovate errori cazziatemi. \O/
Fandom: RPF - Inter F.C./F.C. Barcellona.
Pairing/Personaggi: José Mourinho/Zlatan Ibrahimović.
Rating: VM18.
Warning: Slash, Angst, What If.
Conteggio Parole: 2427.
Disclaimer: Non sono palesemente miei bla bla non li ho inventati io bla bla frutto delle mammà loro e del di loro ventre bla bla bla sto sparando caspiate ora la pianto bla bla.
Note: Mi mancavano in maniere in-de-cen-ti. Credits ai miei adorati Opeth - ormai abbandonati da un pezzo ma che amo lo stesso e a cui sono terribilmente affezionata - per il titolo, spezzetto tratto da "Hope leaves".
There is a wound that's always bleeding
there is a road I'm always walking.
Zlatan non si ricorda mai dei sogni: si sveglia sempre con tanti di quei pensieri in testa che, davvero, aggiungerci persino una lettura del tutto azzardata di un fondo di verità in quelli che - l'ha sempre detto, lui - non sono che spezzetti di fantasia e invenzione, proprio non sarebbe il caso.
Gli piace che Max gli parli dei leoni che si mangiano il suo pranzo, dei cammelli volanti e dei compagni di classe che senza un motivo camminano sulle mani, gli piace anche stare a sentire i deliri di Helena riguardo tutte le sue preoccupazioni che puntualmente si riversano nei suoi incubi - armadi che scoppiano, scarpe che la portano in luoghi sconosciuti fregandosene di dove vuole andare lei, sua madre che si dà all'azzardo e Vincent che da un giorno all'altro diventa una bambina.
Lui però, per quanto si sforzi - oh beh, non che si sforzi granché, dopotutto - dei suoi sogni non si ricorda mai assolutamente nulla. Solo nuvolette gialle, a volte, e quella sensazione di caduta progressiva mentre le poche immagini che ancora conserva, appena aperti gli occhi, sfumano in un grigio uniforme che rimane a fargli compagnia, fedelmente, per il resto della giornata.
Dopo tanti anni di vuoto, Zlatan è arrivato alla conclusione che il motivo per cui non si ricorda mai dei propri sogni è che probabilmente non ha nessuna voglia di ricordarseli. Di conseguenza anche loro, col tempo, hanno smesso di impegnarsi a restare, più o meno vividi, nella sua memoria. Non gliene fa mica una colpa - insomma, sono solo sogni.
- Zlatan? -
Tossisce, spalancando gli occhi.
La voce di Helena è disturbante, non sa spiegarsi il perché; è incredibilmente stordito e per un momento nemmeno capisce dove si trova, si prende qualche secondo per realizzare che è a letto e che si è seduto senza nemmeno rendersene conto. Helena lo chiama ancora e lui vorrebbe intimarle di tacere ma non lo fa, è troppo, troppo confuso mentre nella sua mente si affollano nuvolette gialle e si sovrappongono immagini - immagini nitide, violente, che non accennano a sfumare in quel solito grigio con cui ormai ha imparato a convivere e che anzi si allineano, formando un preciso e sensato quadro.
Zlatan respira affannosamente, agitando una mano in direzione di Helena come per darle a intendere che sta bene, mentre con l'altra si massaggia le tempie rimanendo in silenzio. Passano interi minuti prima che si stenda di nuovo, lentamente.
- Ho fatto un sogno strano. -
Sente una leggera pressione sul braccio destro e subito dopo uno sbadiglio unito a parole appena farfugliate. - Ma tu non sogni mai. -
Lui tace per qualche secondo, lo sguardo fisso sul soffitto e gli occhi inquieti. - Lo so. -
***
Uno dei migliori pregi di Zlatan è che sa riconoscere perfettamente una stronzata prima di farne una. Ma non è così per dire, lui davvero sa di stare per fare una stronzata eppure la maggior parte delle volte la fa lo stesso, si ferma qualche istante a pensarci e poi tira dritto, perché palesemente delle conseguenze gli importa fino a un certo punto - punto che, per inciso, si lascia sempre alle spalle assieme a una sana e santa dose si prudenza.
Non si tratta di essere cocciuto piuttosto che ottuso; lui è lucido e sa benissimo di avventarsi su persone, cose, situazioni che fanno sfoggio di una percentuale vertiginosamente alta di pericolo. Solitamente però, dopo aver analizzato a fondo la questione - per qualcosa come cinque o sei secondi, all'incirca - ci si avventa lo stesso, fiero di sé e del proprio istinto.
Ora come ora il suo magico istinto - come lo chiama Helena, neanche tanto ironicamente - lo ha portato ad Appiano, e sia ben chiaro che entrambi ad Appiano ci sono arrivati in macchina, perché il suo magico istinto non sarebbe altrettanto magico se usasse scorciatoie banali e scontate come, ad esempio, un aereo.
Ha parcheggiato la macchina, è uscito e si è incamminato verso l'albergo, inspirando ed espirando profondamente. Le tempie pulsano e quasi si aspetta di sentirle scoppiare da un momento all'altro, ha guidato tutto il giorno e ormai è notte fonda, eppure ha ancora immagini su immagini affollate nella mente come diapositive senza un muro su cui essere proiettate e che quindi rimangono lì, in attesa, imbottigliate nel traffico dei suoi pensieri.
Arrivato davanti a una precisa porta che è stata fissa, radicata nella sua mente durante tutto il tragitto, inspira e comincia a bussare. Comincia, appunto, perché poi si rende conto che la sua mano va per i fatti suoi e non la smette più; ci prova a farla smettere, ma quella sembra avere vita propria e continua a picchiare alla porta con insistenza - e Zlatan, davvero, non sa se mandarsi a cagare da solo o idolatrarsi per tanta perseveranza.
L'uomo che gli apre finalmente la porta, con il viso trasfigurato dalla furia più violenta, di certo non si trova davanti allo stesso dubbio - e nel caso ci si fosse trovato in un primissimo momento, vista la sua faccia si è deciso in fretta.
- Che cazzo. Ci fai. Tu. Qui. A quest'ora. Vai cortesemente a cagare. -
...Appunto.
Zlatan alza gli occhi al cielo e poi lo guarda sbigottito, quasi come se starsene lì in quel momento rappresentasse una specie di favore. - Vacci tu a cagare, imbecille. Sono venuto qua in macchina, da solo, senza mai fermarmi neanche per pisciare e tu mi rispondi così? E comunque buonasera. E fottiti. Ah, e cortesemente fammi entrare, Zay. -
José sbatte le ciglia e lo fissa come se si fosse appena svegliato e si fosse reso conto che sul calendario sono scomparsi tutti i Sabati e le Domeniche dell'anno, più festività e vacanze estive. Non fa nemmeno in tempo a rispondergli a tono che Zlatan è già sgattaiolato dentro, peraltro sbuffando, nemmeno fosse stato lui quello tirato giù dal letto in orari più che discutibili.
L'uomo si gratta il capo senza sapere bene cosa dire, poi appena apre bocca Zlatan lo precede, muovendo una mano con noncuranza ed esibendo una smorfia infastidita. - Ok, ok, mi sono fermato in un autogrill e ci sono andato, a pisciare, ok? Però il resto è tutto vero, e dopo un viaggio del genere di certo l'ultima accoglienza che mi aspettavo era... questa. - Fa un ampio gesto quasi al voler dare la colpa alla stanza, o alle pareti, o alle tende delle finestre.
José si rabbuia prima di sedersi sul letto e poggiare entrambe le mani sulle ginocchia. - Quale segno astrale avrebbe dovuto preannunciarmi il tuo arrivo, di grazia? - La sua voce vorrebbe suonare aggressiva o quantomeno sarcastica, ma risulta invece talmente stanca che persino Zlatan per un momento deglutisce e non risponde, mordendosi insistentemente il labbro inferiore. - Non aveva senso telefonarti Zay. Mi avresti detto di non venire. -
- Non mi chiamare così, Zlatan. - José sembra sempre più esausto, eppure riesce ad ammutolirlo più di quanto non sia riuscito a fare in tutti quegli anni. - Non mi chiamare “Zay”. -
Zlatan deglutisce ancora senza dire nulla - e improvvisamente capisce perché ha sempre fatto tanti errori nella sua vita, perché ha scelto tante strade senza mai percorrerle del tutto: quel suo istinto lo porta a buttarsi in situazioni delicate e importanti, ma è il dopo a bloccarlo. Quando si spinge verso qualcuno che a quell'istinto non vuole credere, o forse ha smesso di crederci molto tempo prima.
- Mi dispiace. - Lo sussurra appena, avvertendo un nodo alla gola stringersi e quasi soffocarlo, come quando da piccolo sentiva di star per scoppiare a piangere senza capire esattamente il perché. - Avrei dovuto avvertirti. -
José sorride amaramente, un sorriso denso di innumerevoli sfumature che Zlatan non è più in grado di analizzare minuziosamente come aveva imparato a fare - ora quello è solo un sorriso teso e non c'è niente (niente) che possa cogliere al di là di quanto l'evidenza gli sta ponendo innanzi. Ed è doloroso, perché una volta oltre a quell'evidenza avrebbe saputo scavare, avrebbe saputo indagare, avrebbe potuto vedere.
- Non mi hai mai avvisato, in nessun caso, dei tuoi movimenti o delle tue decisioni. Ora meno che mai mi riservo il diritto di saperne qualcosa. - José non lo sta più guardando e Zlatan ha la pessima impressione di essere in conferenza stampa con lui anziché nella sua stanza, da soli, per parlargli di qualcosa che fino a dieci minuti prima gli pareva di vitale importanza e che ora gli sembra solo stupido e inutile a livelli imbarazzanti.
- Come mai sei venuto qui? - Non è nemmeno distacco, il suo, quel tono porta con sé tracce di esperienza e rassegnazione a cui Zlatan non è affatto preparato. Rimane fermo per un po', poi, lentamente, quasi come se avesse paura di spaventarlo, gli si avvicina e si siede al suo fianco. Da lì può sentire meglio il suo odore, sempre lo stesso, uno di quei tasselli che vanno a ricomporsi senza bisogno di sforzo alcuno - ed è un po' come alzare lo sguardo sulla finestra di casa, di ritorno da un lungo viaggio, e vedere le luci accese. - Questa notte ti ho sognato. - Comincia, a fatica, gesticolando un poco e tenendo gli occhi dritti innanzi a sé. - Non ho idea del perché. Io ho smesso di sognare più o meno all'età di quindici, sedici anni. Proprio non mi ricordo mai di quello che sogno, e mai mi è importato di ricordarmelo. - Inspira, e si rende conto di avere i polmoni in fiamme. - Ma ho sognato te, stanotte, e senza pensarci è da te che sono voluto venire. -
José al suo fianco annuisce impercettibilmente.
- Prendere l'aereo proprio no, eh. -
- Ecco lo sapevo, lo sapevo che me l'avresti fatto notare. - Zlatan sbuffa e lo guarda con sufficienza, ma subito aggrotta le sopracciglia nel vederlo ridacchiare sommessamente. - Che cazzo ridi? -
- Sei il solito sbruffone. Preferisci distruggerti con quante? Quindici, sedici ore di viaggio per poi venirmelo a raccontare piuttosto che prenderti un fottuto aereo e arrivare a destinazione quantomeno in orari decenti. - José scuote il capo, gli occhi socchiusi. Zlatan scrolla le spalle, noncurante. - Non c'è niente che non va in un tragitto in macchina. - Borbotta poi, imbronciato.
José resta in silenzio per qualche secondo e poi riprende, questa volta con una punta di acidità nella voce. - E cosa avresti sognato, se si può sapere? -
Zlatan solleva finalmente gli occhi e li fissa nei suoi - e in quel preciso istante si chiede come, come gli sia stato possibile fino a quel momento non averlo guardato, come sia riuscito per tutto quel tempo a non volerlo raggiungere anche solo per poter ancorare lo sguardo al suo. Deglutisce un'ennesima volta - ancora sembra un bambino troppo grande o un adulto troppo infantile - e poi gli si fa più vicino, trattenendo il respiro come fa sempre quando guarda Vincent dormire e gli bacia piano la guancia per paura di svegliarlo.
Gli è a un soffio, così chiude gli occhi e poggia la fronte contro la sua, con una sofferenza che non sa bene da dove derivi. - Questo. -
I sogni non hanno senso o forse ne hanno troppo, ridere di essi è comunque un ottimo modo per esorcizzare quella paura che, a volte, sono in grado di infondere.
Il suo sogno però era stato così indefinito e lenitivo, senza dialoghi a cui aggrapparsi con foga o momenti di confusione, senza parole troppo forti o troppo fugaci.
José era tutto vestito di nero e camminava su e giù per un corridoio stretto, claustrofobico - ma all'improvviso largo, luminoso. Zlatan era fermo davanti a lui eppure José non sembrava vederlo; sentiva gli occhi pungere e si rese conto poco dopo di star piangendo; non era triste né felice, erano lacrime senza motivo, stava solo guardando José e nel frattempo piangeva come un bambino, disperatamente, silenziosamente.
Faceva freddo e c'erano luci inspiegabilmente scure e cupe tutt'intorno a loro, mentre pian piano la figura di José diventava sempre più indefinita, fino ad unirsi a quel nero abbagliante.
José non risponde al suo bacio, rimane immobile senza accennare ad allontanarsi o ad assecondarlo; sente la lingua di Zlatan sulle sue labbra e il suo respiro forte, invadente, mentre ancora resta fermo e quasi prega affinché qualcuno decida che cosa fare al posto suo. Ma Zlatan non si ferma e non protesta, gli poggia entrambe le mani sul petto e lì le lascia, come fossero sempre appartenute a quella parte del suo corpo. Attende che José si distenda e quasi si lascia scappare un sussulto nel sentire la sua lingua accarezzargli il palato, la sua bocca aprirsi e le spalle rilassarsi sotto il suo tocco.
Si baciano in un modo strano, come mai si erano baciati prima; tra denti e saliva e ansimi si stanno studiando a vicenda ed è come ripercorrere la strada nel senso inverso alla ricerca di ciò che si ha perduto all'andata. Ed è come riscoprire ogni centimetro di quella bocca, Zlatan respira nel suo respiro con foga, perché è respirando con lui che gli si calma il cuore - e i battiti cessano a poco a poco di lacerargli il petto, e si tranquillizza, e tutto rallenta.
Gli sbottona la camicia e gli accarezza il collo con insistenza, sentendo nuove piccole rughe e piegando un po' il capo per baciarle, per baciare ogni parte scoperta di lui. Naso contro naso in un contatto che si concede alla foga e all'emozione ma rimane calmo, non sanno bene come, rimane paradossalmente sereno.
Rimangono così perché sul momento non c'è la forza di fare altro, ci sono carezze e ancora baci, ancora quello studiarsi, quel pigro pretendersi.
E non è vero, Zlatan non ha dimenticato come andare oltre a quella cappa di distacco e rassegnazione, sente ancora dolore all'altezza del petto ma è un dolore quasi piacevole, sano, completo - come può un dolore rendere completi? Come?
Tiene ancora gli occhi chiusi quando si allontana un poco, mentre José gli sorride contro la guancia e gli parla con un certo sarcasmo. - Hai davvero sognato questo, zingaro? -
Zlatan non risponde subito, sorridendo a sua volta e alzando gli occhi al cielo. Sente gli occhi prudergli un poco ma non ci fa caso.
E la figura di José che diventava sempre più indefinita, fino ad unirsi a quel nero abbagliante.
- Non me lo ricordo. -
Note randomiche dell'Autrice:
Mi mancavano e ci ho messo tipo mesi per postare ancora su di loro - la verità è che ho sei o sette Jobra lì in cantiere, mai finite, perché è una coppia che richiede tanta di quell'attenzione che, voglio dire, nemmeno un fidanzato morboso come una cosa molto morbosa. *Schiaffeggia entrambi e poi abbraccia*
Inoltre, ho iniziato il tutto carichissima con battutine e deliri ma poi è arrivato Fra Angst e non c'è stato nulla da fare. *Guarda malissimo*
Ad ogni modo. Come dicevo, suddetta robettina è per la Liz; perché è una donna piacevole da sentire, anche solo da avere attorno - che detta così pare si stia parlando di un cane ma per carità no - e per quello che può valere, conoscendola in fondo non da molto, è una persona che stimo e che nel tempo mi riservo di conoscere il più possibile. :*