Tutto comincia con il dorso di una mano dalle vene in rilievo.
Prosegue poi con un sopracciglio agrottato, con un busto che ruota, con l'inquietudine di chi non vuole stare al suo posto.
Ma è un'illusione, le linee rigide della struttura intorno sono una gabbia solida, gommapiuma che assorbe.
Le altre figure, di contro, sono malinconiche, dolcemente rassegnate al loro destino di lutto.
Secondo me è quella di Giulio II in San Pietro in Vincoli la
tomba per eccellenza.
La "prigione" del Mosè di Michelangelo, una delle prime opere d'arte che ho visto, e di cui sono perdutamente innamorata.
Perché l'arte di Michelangelo è una bomba che esplode tra le mani di chi la osserva, l'incarnazione stessa del concetto di forza.
Se Leonardo ipnotizza, Caravaggio angoscia, se Bernini coinvolge e Canova rasserena, Michelangelo colpisce ed inchioda.
Paralizza.
Se davvero Dio esiste, la sua potenza si è rivelata agli uomini attraverso l'opera del maestro fiorentino, che seppe bere dalla coppa dell'antico per tracciare le basi del moderno.
Il Mosè, come ho già detto, è il cuore di una tomba che si trova, a sua volta, nel cuore di Roma.
Fu commissionata dal papa guerriero, Giulio II, quel Giuliano Della Rovere acerrimo rivale dei Borgia.
E io trovo ferocemente ironico il fatto che per arrivare a San Pietro in Vincoli si debba passare, obbligatoriamente, proprio sotto l'arco del palazzo dove i Borgia abitarono.
Il luogo dove Cesare ha trascorso i primi dodici anni di vita, e dove diede il via alla sua fortuna, assassinando assieme a due suoi uomini il fratello Juan di Gandia.
Burkhardt, cerimoniere vaticano, riporta nel suo diario che, quando venne rinvenuto nel Tevere, il cadavere di don Juan presentava i segni di nove ferita da spada, di cui una sola mortale, alla gola.
La stessa morte di Cesare, in fondo, appena dieci anni dopo, non sarà meno cruenta: verrà trafitto da tredici colpi di lancia mentre, da solo, si lancerà all'attacco dell'esercito del duca di Beaumont, nei pressi di Pamplona.
Chiamatela suggestione, ma passare sotto l'arco di Palazzo Borgia martedì sera mi ha fatta venire la pelle d'oca.
È stato rassicurante andarsi a rifugiare nel ventre di San Pietro in Vincoli, anche solo per un minuto.
Perdersi a contemplare la forza divina del Mosè, a cui davvero manca soltanto la parola per dirsi vivo a tutti gli effetti.
Ripensare agli squilli di tromba del Giudizio Universale, al suo caos che si stacca con forza dal fondo di lapislazzulo.
C'è qualcosa di catartico, nel percorso che porta da quella scalinata a quella chiesa.
La forza di Dio che cancella l'orrorre.
La rinascita, dopo il sacrificio di sangue.
Ci sono cose di Roma che non smetteranno mai di sorprendermi.