Apr 15, 2012 23:23
“Adesso voglio solo vivere. È una grande fortuna essere vivi, mentre gli altri sono morti. Bisogna saperlo apprezzare.”
Dichiarazione di un sopravvissuto ceceno rilasciata a Anna Politkovskaja.
***
Seduto al tavolo di un piccolo caffè Mikhail non riusciva a stare fermo.
Spostava il peso da una gamba all’altra, allungando il collo in direzione della porta; deluso, corrugava la fronte, giungendo le mani sotto il mento, con la schiena curva e il piede destro che iniziava a battere nervosamente sul pavimento. Infine tornava a rilassarsi, sospirando, e la giostra dei cambiamenti d’umore cominciava un nuovo giro.
Il suo contatto era in forte ritardo: non era la prima volta che accadeva, in passato c’era stato anche chi aveva cambiato idea lasciandolo lì a sostare ore, ma era la prima volta che percepiva, fortissimo, il sospetto che fosse accaduto qualcosa di brutto.
Sentiva il collo sfiorato da un alito gelido, come il respiro di una bestia in caccia, ma quella era una sensazione che si portava dietro da tanto, più precisamente dal rientro dal primo viaggio in Cecenia.
Era il respiro del primo sopravvissuto che aveva intervistato.
Il fetore dei denti marci sovrastava l’odore di ospedale, ma quello che l’aveva colpito davvero era il gelo delle mani che stringevano le sue, del naso che premeva contro la guancia quando la voce non usciva e per ascoltarlo doveva chinarsi sul letto.
Gli occhi sembravano due pietre conficcate nella sabbia, spenti e incolori.
Le parole, invece, erano state lame di coltello piantate nello stomaco: sentire di persona certe cose è molto diverso dal leggerle.
La consapevolezza che la finzione è una coperta corta e logora che non ha il diritto di mascherare la realtà gli aveva dato un senso di vertigine.
Il cinema è il vero oppio dei popoli, questo si era detto Mikhail quel giorno e questo era tornato a ripetersi adesso per ricacciare indietro la paura di essere ucciso.
Perché ciò che lo rendeva così inquieto era la percezione, nettissima, di stare per essere ucciso.
Sentiva, come mai prima in vita sua, il bisogno di bere.
Attirò l’attenzione del barista e ordinò una bottiglia di vodka, che gli portassero pure la più scadente, lo avrebbe aiutato a ricordare i giorni trascorsi a seguito dell’esercito.
La loro verità non era meno atroce.
Ricordava ancora Vasilij, la sua faccia di bambino ingenuo, i capelli rasati a zero e una sigaretta sempre spenta tra le labbra. Scaricava la tensione mordendo e succhiando il filtro, sputando spesso in terra per togliersi il sapore.
Mikhail gli aveva chiesto se si rendesse conto che in quel modo si stava lentamente avvelenando e lui gli aveva risposto che era meglio così, perché dopo quello che aveva passato non sapeva se avrebbe mai avuto il coraggio di tornare a casa e guardare sua madre negli occhi.
E infatti Vasilij guardava solo a terra, seguendo le impronte nella neve come un cane.
Chissà quanti ribelli aveva stanato, in quella maniera, Mikhail non aveva avuto il coraggio di chiederglielo.
Ci sono cose su cui è meglio far calare un’ombra come quella che il barista, tornato con la bottiglia, sta proiettando sulla tovaglia immacolata.
Come quella di un soldato che si ferma a contemplare macchie di sangue che imbrattano la neve.
La guerra non è semplicemente orrore, è prosciugare la vita fino all’osso, riducendola ai minimi termini.
Forse l’attacco di panico che aveva colto Mikhail dipendeva da questo, dalla sensazione di stare vivendo una vita ridotta ai minimi termini, fatta solo di lavoro e sguardi terrorizzati dietro le spalle.
Il ritardo del suo contatto era tale che ormai la luce dei lampadari di cristallo si era sostituita completamente a quella naturale. La folla aumentava facendosi più rumorosa. In quel caffè di inizio Novecento è il peso dei segreti che si porta dentro a sembrare un’anomalia rispetto ai ritmi regolari della vita di tutti i giorni. Mentre decide se restare ancora un po’ o andarsene Mikhail si sofferma su un gruppo di ragazzi che è appena entrato: sembrano provenire da un altro mondo, eppure hanno appena una decina d’anni meno di lui. Sarà perché i loro occhi, a differenza dei suoi, hanno visto solo bellezza.
La Giovane Russia è un vitello nutrito d’ambrosia che si pasce in mezzo a una nuvola, questo è la prima immagine che quella scena richiama alla sua mente.
Mikhail sospira: quand’anche riuscisse a portare a termine la sua inchiesta non saranno quei giovani a leggerla e apprezzarla, e forse nemmeno i loro padri, che già oggi scuotono la testa. Probabilmente nemmeno i soldati come Vasilij, o gli uomini d’affari e i politici che smaschererà a uno a uno. Loro vogliono vivere baciati dal sole del futuro, dalla luce della loro ricchezza.
Loro vogliono soltanto dimenticare.
Tutti vogliono dimenticare, a parte gli idealisti e gli Stolti in Cristo.
A Mikhail piaceva credere di non essere né l’una né l’altra cosa.
Aveva appena deciso di andarsene quando, alzando gli occhi, un nuovo dettaglio cattura la sua attenzione: un cappotto bordato d’astrakan, la linea delle spalle larga come solo quella di un uomo dal fisico allenato. Una figura sconosciuta che si muoveva in un modo stranamente familiare, completamente disinteressato alle persone intorno.
Stava attraversando la stanza come se la stesse sottomettendo, prima con lo sguardo e poi col battere pesante dei tacchi sul pavimento. La schiena era dritta e il mento tirato su in tono di sfida.
Mikhail lo guardava avvicinarsi al suo tavolo e non sapeva se lo stomaco era più chiuso per il terrore o per l’emozione.
Erano mesi che tentava di avvicinare quell’uomo, mesi che raccoglieva informazioni su di lui e sulla sua famiglia ma niente, a parte voci inconsistenti pareva che attorno a lui ci fosse il vuoto pneumatico.
Aleksej Sergevich Akunin, l’industriale più ricco di Russia.
Uno dei pochi imprenditori che non ha mai fatto nulla per nascondere la propria vera identità, incisa sulla pelle in forma di tatuaggi criminali.
Gli Akunin sono, infatti un’antica famiglia di “ladri nella legge” di origine siberiana, tra le poche ad essere sopravvissute ai cambiamenti del paese aumentando a dismisura il proprio potere, pare proprio grazie alle straordinarie abilità del nuovo capofamiglia.
Ha lo stesso amabile sorriso delle foto mentre scosta la sedia senza salutare e senza chiedere permessi di sorta, come se loro due si conoscessero da sempre.
-Ha già ordinato da bere? Peccato, speravo di poter essere io a offrirle qualcosa.
Incurante della risposta fa un cenno al barista ordinando due whisky.
-Lei ha viaggiato molto, dovrebbe lasciare certe cose ai poveri disgraziati.-, aggiunge indicando la bottiglia di vodka e il bicchiere appena toccato.
-Che vuole?- Riesce finalmente a dire Mikhail, tirando fuori chissà da dove la forza di parlare. Akunin non era, ovviamente, la persona che stava aspettando ma era, piuttosto, quella sui cui movimenti il suo contatto doveva tenerlo aggiornato. La spavalderia di presentarsi in quel locale affollato al suo posto la dice lunga sul livello di impunità a cui è abituato, che poi è ciò che ha spinto Mikhail a intraprendere il mestiere di giornalista d’inchiesta, nella vana speranza di fermare almeno in parte la corruzione in cui la Russia stava annegando dai tempi della fine della Guerra Fredda.
-Non mi guardi così,- parla col tono cantilenante che di solito si rivolge ai bambini -voglio solo brindare alla sua salute. La seguo da tanto, sa?
Il barista arriva con i bicchieri, e il Vor alza il proprio ammiccando con l’aria di chi si sta divertendo un mondo.
-Anch’io la seguo da tanto,- ribatte Mikhail, allontanando il bicchiere e se stesso, -ma mi scuserà se non ho voglia di brindare alla sua come lei ha voglia di brindare alla mia.
Akunin non risponde, si limita a bere un altro sorso con lo sguardo piantato in quello di Mikhail. Non sembra arrabbiato né infastidito, in fondo nulla di quello che il giornalista potrebbe scrivere potrebbe davvero nuocergli, è lì solo per un atto di spavalderia, o forse solo per abitudine, il riflesso condizionato di chi ha iniziato la carriera criminale troppo presto, avendo smania di farsi giustizia da sé. Trattiene per qualche secondo il liquore sul palato prima di inghiottirlo, assorbendone tutte le sfumature di sapore con gli occhi socchiusi.
-Lo sa?- Si decide a dire, -lei, in fondo, mi fa pena.
-Anche lei, se vuole saperlo.
Mikhail si sente ferito nell’orgoglio, avrebbe preferito leggere rabbia sul viso di quell’uomo piuttosto che quella pietà affettata, priva di qualunque reale compassione, simile a quella che si potrebbe provare per un randagio investito ai margini della carreggiata.
-È convinto di essere un grand’uomo e dal punto di vista materiale lo è, su questo non ci sono dubbi.-
Mentre parla Mikhail si sporge timidamente in avanti, rimanendo però con la mano aggrappata allo schienale della sedia.
-Ma dal punto di vista umano lei è uno schiavo. È convinto di aver piegato la famiglia al suo volere, quando invece non si rende conto che sono stati loro a fare di lei esattamente ciò che desideravano.
Akunin a quelle parole piega le labbra in un sorriso.
Mikhail, invece, le morde per la rabbia.
-Lei è una marionetta mossa dal Codice che l’ha forgiata.
-È anche psicologo, non mi dica.
-Anche, sì. Ad esempio: come si concilia l'essere bisessuali con l'andare a braccetto con un uomo come il Presidente Putin?
Akunin scoppia in una sonora risata, rovesciando all'indietro la testa.
Da sotto il colletto della camicia spunta il disegno di un filo spinato: Mikhail sa che le spine rappresentano gli anni di carcere.
-Lo ammetta: lei è attratto da me e vuole un appuntamento, non è così?
Per prendere in giro Mikhail ammicca facendo l'occhiolino.
-Ovviamente no, però trovo curioso che lei abbia pubblicamente dato l'assenso a delle leggi che ledono anche i suoi diritti.
-E mi chiede del Presidente?
-Domanda ad effetto.
-Su di me i suoi trucchetti non fanno effetto, dovrebbe saperlo. O non sarei qui seduto a pagarle da bere.
Mikhail avrebbe voglia di prendere la bottiglia e rompergliela in testa, tanto è la rabbia che quell'uomo gli accende.
-Comunque, per come la vedo io e un certo numero di antropologi, siamo tutti marionette mosse dal Codice che ci ha forgiati.
Akunin appoggia il mento sulla mano, puntellandosi sul gomito in una posa elegante.
-Mi permetta di raccontarle come sono andate le cose nel mio caso, in modo che possa scrivere la verità.
-Non mi interessa scrivere la sua verità.
Akunin si aspettava quella risposta.
-La verità non ha appartenenza e lei dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro. Vuole farmi passare per il cattivo della situazione? Faccia pure, non glielo impedirò, non ho interesse a fare del male a qualcuno che non è fisicamente in grado di farne a me, ma almeno eviti analisi da quattro soldi e si limiti a riportare i fatti.
Tira fuori dalla tasca interna della giacca un portasigarette d'oro e un accendino e, senza nemmeno fingere di offrirne una a Mikhail, si accende una sigaretta in tutta calma.
-Sono nato in una famiglia criminale così come lei è nato in una famiglia di intellettuali. Ho proseguito ciò che ha iniziato mio padre esattamente come lei ha intrapreso la stessa carriera del suo. Ho raggiunto il vertice della mia catena così come lei ha raggiunto il vertice della sua. Cosa ci differenzia se non la manichea distinzione tra bene e male? I panni del finto proletario la marchiano almeno quanto i miei tatuaggi, dicono esattamente chi è, dove ha studiato, in che valori crede, e anche il suo sguardo tradisce la stessa arroganza che lei attribuisce alle persone su cui indaga.
Mikhail fa per ribattere ma Akunin lo blocca con un cenno della mano.
-Gliel’ho detto: la seguo da molto. So tutto di lei: la sua famiglia vive in America e lei ha insistito per tornare in patria a tutti i costi.
-Ci tenevo a cambiare le cose, mica come lei che è fuggito in Europa.
-Se fossi fuggito come lei dice ora non sarei seduto qui, non le pare? E se fossi la persona che crede avrei provveduto a farla eliminare da un sicario, senza prendermi questo disturbo.
-Perché non l’ha fatto?
Mikhail è disorientato, le mani sono strette attorno al bordo del tavolo e lo sguardo è minaccioso, ma non ha davvero idea di come si chiuderà davvero quell'incontro.
Solo uno stupido potrebbe fidarsi della finta cordialità di Aleksej Akunin.
-Voglio dare una lezione a lei e a tutti i tipi come lei. Una lezione su come si sta al mondo, come si sopravvive, come si lotta realmente dall’interno per cambiare le cose, senza sollevare polvere e frignare se la gente, per tutta risposta, starnutisce.
Tra i due cala un silenzio così teso da far abbassare, per riflesso, il volume generale delle conversazioni nel salone.
-Lei è completamente fuori di testa.
-Apprezzo la sincerità.
Adesso è Mikhail che cede alla tensione nervosa iniziando a ridere.
Akunin, invece, assottiglia lo sguardo come un predatore.
-Non sono molti gli uomini che affrontano la morte ridendo.
Mikhail si strozza con la sua stessa saliva.
-Intendo la morte di un proprio collaboratore. Probabilmente lo aveva immaginato, ma mi duole comunicarle che il signore che doveva incontrare qui ha avuto un terribile incidente ed è probabile che non sopravviva alla nottata.
Akunin si è chinato per sussurrargli quelle parole direttamente all'orecchio e per impedirgli di cadere lo ha afferrato saldamente per una spalla.
Mikhail si imbatte in tre piccoli teschi e un crocifisso, voltando lo sguardo verso l'uscita del locale. Sono i segni impressi sulle mani, le prove materiali che quelle dita forti hanno ucciso, e più di una volta.
-Era questa la lezione? Uccidere qualcun altro al posto mio e poi venirmelo a dire in faccia per vedere l'effetto che fa?
Aleksej Akunin sorride dolcemente e la sua, paradossalmente, sembra una dolcezza sincera, la benevolenza di un sovrano magnanimo, di un dio benevolo nei confronti dell'Apostolo scettico.
-Non proprio. E comunque le ho detto che il suo contatto ha avuto un incidente.
Mikhail non riesce a trattenersi e gli tira un pugno.
Non è granché come boxeur, ma quello che gli interessa è colpire il suo ego.
Le nocche battono sul mento e probabilmente è lui quello che sta provando il dolore maggiore ma non gli importa, la soddisfazione di averlo messo in imbarazzo di fronte a tutti non ha prezzo.
Ma Akunin è talmente bastardo da non lasciarsi toccare da quella provocazione, sorride al gruppo di ragazzi facendo loro cenno di non aver bisogno di aiuto, si tocca la mascella simulando una smorfia di dolore e poi china il capo per complimentarsi con Mikhail.
-Scommetto che adesso è un uomo felice, non è così?
-Affatto.
-Però si è tolto una piccola soddisfazione.-, lo incalza Akunin, battendo una mano sul ginocchio. -Bene, ora siamo pari, sta di nuovo a me.
E gettando la maschera dell'uomo generoso indurisce i tratti del viso fino ad assumere un'espressione minacciosa.
-Il suo informatore era un vile doppiogiochista, se è onesto come dice nemmeno lei piangerà per la sua morte. Se è in fin di vita all'ospedale è per quello, e perché è un pessimo guidatore, non certo per ciò che avrebbe potuto rivelare sul mio conto.
Si china di nuovo lentamente verso il viso di Mikhail, afferrandogli entrambi i polsi per impedirgli di alzarsi in piedi e fuggire.
-Il suo caso, invece, è molto diverso: lei è bravo, ha stoffa, le dirò che al di là delle imprecisioni i suoi pezzi mi piacciono anche. Ed è proprio per questo che sono venuto qui a darle un'opportunità, perché nonostante sia un fighetto figlio di papà non riesco a disprezzarla.
Mikhail spalanca gli occhi e la bocca, dibattendosi e cercando ossigeno come un pesce.
-Le do due possibilità: o fa le valigie e se ne torna in America dai suoi genitori, magari rivolgendo le sue attenzioni alla CIA, all'FBI o direttamente alla Casa Bianca oppure...
-... Oppure avrò anch'io uno spiacevole incidente?
Akunin si allontana infastidito.
-No, quella la consideri un extrema ratio.
Mikhail scuote la testa, stordito.
-Allora... la seconda possibilità?
Chiede incredulo, con un filo di voce.
-Cerchi un modo nuovo di scrivere i suoi articoli. Gioco a scacchi da quando sono in fasce, so apprezzare un buon avversario quando lo incontro.
Mikhail non sa che ribattere, non crede a una sola parola di ciò che Akunin gli ha appena detto.
Akunin lo sa e gongola al pensiero delle notti insonni che passerà l'altro a causa sua.
Ma non sta affatto mentendo, lui spera veramente che Mikhail trovi un modo nuovo di scrivere, un modo nuovo di cambiare la Russia e i russi.
Tanto a lui non interessa più, l'ultimo legame col suo paese era farvi ritorno per vendicare suo padre e riprendersi ciò che era suo, e questa è una fase della sua vita che si è conclusa da tempo, coi resti di suo cugino Ivan divenuti cibo per randagi in una chiesa sconsacrata del loro paese natale, Kurgan.
-Così è vero? Sta per lasciare il paese una volta per tutte?
Mikhail sembra avergli letto nel pensiero.
-No. Sono solo un miliardario annoiato, giocare con la sua vita mi ha riempito il pomeriggio.
Mikhail non gli crede di nuovo, ma stavolta per motivi diversi: sa che dietro quel comportamento ci sono i precetti del Codice.
Aleksej Akunin è uno strano uomo, cerca di piegare le regole del suo mondo al suo volere restandovi, tuttavia, imbrigliato.
Come una marionetta, appunto.
-Mi fa piacere che si sia divertito, ma questo non è riuscito a renderla ai miei occhi più simpatico. Mi duole dirglielo,- e a Mikhail duole davvero, sente pesare le parole in bocca come se fossero farcite di piombo, -ma nonostante la sua generosa offerta non cambierò paese, né modo di scrivere. E nemmeno bersaglio.
Akunin, che si era già alzato pronto a pagare il conto e andarsene resta immobile, le dita della mano destra strette attorno allo schienale della sedia.
-Lei ha venduto all'esercito russo armi che hanno ucciso persone che ho conosciuto di persona, e a cui mi ero legato. So che non pagherà mai per questo, ma non mi importa. So che morirò per questo, ma non mi importa lo stesso, per quanto ci faccia paura la morte è un fatto inevitabile.-
Anche Mikhail si alza, pronto a chiudere lì quell'incontro senza concedere altro spazio alle repliche.
-La gente di questo paese, tuttavia, deve conoscere certe storie, che lo voglia o no, che se ne lasci segnare oppure no. Le storie delle persone che ho conosciuto e che sono morte meritano di essere raccontate, il modo in cui le armi circolano ignominiosamente deve essere fissato su carta, fosse anche come lettera morta. Lo scopo della mia vita è questo, Signor Akunin, il codice morale di cui sono marionetta è questo. Opposto al suo, di grado inferiore secondo la scala gerarchica del Potere, ma è il sistema in cui sono stato cresciuto. È il sangue che mi scorre nelle vene, e spargerlo sull'asfalto contribuirà a diffonderlo.
Supera Akunin senza degnarlo di uno sguardo, tirando dritto.
La mente è ingombra di nomi e volti, di sguardi vuoti a cui ha promesso voce e giustizia.
Il cinema è l'oppio dei popoli e può aiutare soltanto l'elaborazione di qualcosa che è il giornalismo che ha il dovere di analizzare.
Come il respiro di un sopravvissuto che porta con sé racconti di morte che nessuno vuole ascoltare.
orrori,
muro contro muro,
racconti,
filorosso