Poiché, rileggendo i termini della liberatoria, non c'è niente che mi vieti di renderlo pubblico, ho deciso di rendere disponibile sul blog il racconto pubblicato nell'antologia "Niente è come prima", editore Ur.
Ladri di ali
L’orologio a muro fa un rumore infernale. È uno di quegli oggetti dozzinali dal vetro di plastica e il quadrante di cartone, eppure nel contesto di quella scuola così malandata sembra spiccare come un oggetto di gran gusto.
Ora che nella stanza regna un silenzio pesante quel ticchettio pare essersi fatto più lento, come se volesse annunciare la fine del mondo. La fine del mondo di un ragazzino di nome Anton.
È seduto in Sala Professori, con la schiena dritta e le braccia penzoloni, il capo appena reclinato in avanti e negli occhi lo spavento e la confusione di Pinocchio appena arrestato dai carabinieri. E in effetti la situazione non è molto diversa.
Anton solleva timidamente lo sguardo per puntarlo in direzione della Professoressa di italiano, che in questo momento, anziché essere in classe a spiegare, si trova lì con lui, in piedi accanto alla Preside. Lo sta guardando proprio come se fosse un burattino di legno dal naso esageratamente lungo per via delle troppe bugie. Anton, in realtà, di bugie non ne ha mai dette più di quante non ne dica in media un qualsiasi ragazzino di tredici anni, ma quella deformità che vede riflessa negli occhi dell’insegnante se la sente cucita addosso lo stesso. Fin dalla nascita.
Anton appartiene, infatti, a quella categoria di persone che vive come schiacciata tra due muri: quello della cultura della famiglia di appartenenza e quello del paese in cui è nato e intende vivere. Non si tratta di muri identici per materiali e spessore, molto dipende dal paese d’origine, dalla zona di residenza e dal ceto sociale.
La famiglia di Anton è rumena, il che vuol dire che sua sorella non viene fermata per strada perché indossa il velo, ma suo fratello è stato più volte rimproverato per essere stato sorpreso a bivaccare sotto casa con una bottiglia di birra in mano. Anton, che detesta il fiato che puzza di alcol si è trovato ingenuamente d’accordo con quelle proteste, ignorando ancora quanto sia infido il terreno del pregiudizio.
La Professoressa di Italiano gli rivolge una domanda, rompendo il silenzio e smorzando come per incanto il ticchettio dell’orologio.
“Hai capito che ti ha chiesto la Preside?”
La domanda suona strana. Lei più di tutti sa quanto Anton comprenda perfettamente la sua seconda lingua, quanto addirittura la consideri seconda solo in ordine cronologico e quanta cura ci metta per eliminare ogni traccia di accento dalla sua pronuncia.
“Sì, ho capito”.
“E allora perché non rispondi?”.
Anton solleva il mento di scatto, schiude le labbra per dire qualcosa ma poi si blocca, sospirando. I suoi genitori gli avevano detto di stare attento e non farsi troppe illusioni. Di non fidarsi di nessuno, soprattutto di chi sorride in maniera gentile.
“Perché non so che dire”.
“Abbiamo trovato il telefonino di Michela nel tuo zaino e tu non sai che dire?”.
La Professoressa sembra delusa, più che arrabbiata. È una donna alta e magra, dai capelli neri lunghi e lisci, ed è arrivata in quella classe solo l’anno scorso, primo vero incarico di ruolo. Un battesimo di fuoco con una classe problematica.
Anton, in quel contesto, le era sembrato una boccata d’ossigeno. È un ragazzino taciturno che le ha dato spesso l’impressione di voler passare a tutti i costi inosservato. Ha grandi occhi scuri incorniciati da ciglia lunghe, quasi da donna; capelli castani perennemente spettinati, corpo magro e minuto infagottato in vestiti logori ma sempre pulitissimi, il marchio di chi è povero con dignità. Ha un’aria apparentemente svagata, sottolineata da una camminata dondolante che lo fa somigliare a un birillo costantemente sul punto di cadere. Ha pochi amici e una certa soggezione nei confronti delle femmine.
Proprio per questa ultima caratteristica la Professoressa non è riuscita a credere ai suoi occhi quando, dopo una mattinata di perquisizioni, il telefonino scomparso di una delle ragazze era stato trovato nello zaino di Anton.
Anton, che ora, anziché difendersi, la sta fissando con aria rassegnata.
“Posso solo dire che non ce l’ho messo io”.
La voce di Anton esce fioca come un miagolio.
La Professoressa gli crede, ma non sopporta questo suo senso di arrendevolezza. È lo stesso contro cui ha lottato per due anni, un riflesso opaco che ha spento lo sguardo dei suoi genitori ogni volta che ha provato a spiegare loro quanto fosse bravo il figlio, quanto sarebbe stato uno spreco non fargli proseguire gli studi. Quanto fosse ingiusto tarpargli le ali.
La Professoressa ancora ricorda la faccia che hanno fatto la prima volta che ha usato involontariamente quel verbo così difficile, tarpare. Una parola che per chi è fuggito da un paese ridotto in pezzi da una dittatura può avere un significato quasi fisico, con lauree non riconosciute e sacrifici che potrebbero non servire a niente, ma che senso ha scappare in un posto migliore se non si dà ai propri figli la possibilità di sfruttare ogni occasione che esso offre loro?
Il primo anno Anton non si era reso mai bene conto del proprio potenziale, studiando quanto bastava per portare a casa una dignitosa sufficienza; ma durante i primi consigli di classe di quel terzo anno era emersa una sua incoraggiante passione per la matematica e le scienze, che se ben coltivata poteva sfociare in un lavoro molto più appagante del manovale.
La Professoressa di italiano abbassa lo sguardo sulle mani del ragazzo: le dita hanno le unghie tutte smangiucchiate, sul dorso della destra si intravede un lungo segno di biro blu.
“Il segno che hai lì sulla mano c’entra qualcosa?”.
Anton scrolla le spalle.
“Sono stati Facci e Lorenzi a fartelo? Sono loro che hanno fatto questo scherzo?”.
Il ragazzino sembra essere stato punzecchiato da un forcone, per come si agita sulla sedia.
Facci e Lorenzi sono due bulli che da qualche tempo hanno preso di mira Anton, reo di essere l’unico della classe a farsi sempre i fatti suoi. Anton li teme. Non gli hanno mai fatto male a livello fisico ma lo hanno minacciato più volte.
“No, no: ho fatto tutto da solo, mi annoiavo durante inglese”.
“Come sarebbe a dire che ti annoiavi durante inglese?”.
A parlare adesso è la Preside, una donna di cinquant’anni piuttosto corpulenta:
“Ragazzino, vedi di portare rispetto per quello che studi”.
La Professoressa si mette in mezzo, facendo cenno alla Preside di calmarsi:
“Le assicuro che Anton è uno studente bene educato che in questo momento ha soltanto paura di parlare”.
“Ma non mi dica”; la Preside sbuffa come una pentola di fagioli.
Non è una cattiva donna, è solo stanca, frustrata e demotivata. Provata da una vita che le ha riservato, in proporzione, più delusioni che soddisfazioni. Quanto al suo lavoro, il suo cruccio più grande sono i genitori che si lamentano per tutto: per le cose che mancano, per i professori incapaci, per quelli capaci che invece fanno pure troppo, per l’aumento di stranieri nelle classi dei figli. Il suo lato della scrivania è quello dove sono perfettamente visibili quanti e quali sono, nel dettaglio, i problemi del Paese. La cosa che la amareggia di più è la consapevolezza che i ragazzini di oggi si trovino ad affrontare dei cambiamenti che i genitori non sono stati capaci di prevedere e ai quali non vogliono adeguarsi. E questo indipendentemente dal fatto che siano italiani o stranieri. A differenza della Professoressa, infatti, che è ancora piuttosto giovane e inesperta, lei di storie come quella di Anton ne ha gestite più di qualcuna.
Storie di ali strappate e inghiottite dall’ignoranza e la malafede. A volte si è trattato di genitori italiani che si lamentavano di concorsi vinti da bambini stranieri, a volte si è trattato proprio di genitori stranieri che rifiutavano ostinatamente qualsiasi forma di aiuto, qualsiasi sollecitudine ad aprirsi e confrontarsi.
La Preside guarda in viso Anton e capisce, sconsolata, che le ali gliele hanno tagliate da un pezzo, anche se né lui né la Professoressa sembrano essersene accorti.
“Anton, vuoi dire alla Preside che non è vero? Dille quanto hai preso all’ultima verifica di storia”.
Anton annuisce e, ripresosi un poco, comincia a raccontare del suo eroico nove di appena tre giorni prima.
“Un ottimo biglietto da visita per l’esame finale”. Aggiunge, pensosa, la Preside: “E che scuola vorresti fare, dopo?”.
Il volto di Anton si contrae in una smorfia sofferente:
“L’Istituto Tecnico. Mi piacerebbe aggiustare i computer assieme a Giuseppe”.
Giuseppe è il figlio dei dirimpettai nonché il suo migliore amico, con il quale gioca assieme fin dai tempo dell’asilo. Hanno la stessa età ma al momento della scelta della sezione lui ha preferito scegliere come seconda lingua spagnolo, per questo ora si trova in B. Anton, invece, aveva optato per il tedesco, finendo in F.
“Avevo anche iniziato a risparmiare”.
Anton si lascia scappare quel seguito inaspettato assieme a una lacrima.
“Per i libri?”, lo incoraggia la Professoressa di italiano.
Anton annuisce, sfregandosi l’occhio destro col dorso della mano.
“Rubando cellulari?”, ribatte accigliata la Preside, indurendo il tono di voce che si abbatte sul viso del ragazzo con la forza di un pugno.
Anton spalanca gli occhi, non si sa se più stupito o terrorizzato.
“No, no! Glielo giuro, io non sono un ladro!”.
“Però il telefonino della tua compagna di classe si trovava nel tuo zaino”.
Anton sente un nodo stringergli la gola. Chiude le dita attorno alle ginocchia, iniziando a singhiozzare convulsamente. Con quelle spalle che si alzano e si abbassano al ritmo del respiro sembra una piccola farfalla intrappolata in un retino.
La Preside e la Professoressa si scambiano un lungo sguardo carico di domande.
“Anton fa dei piccoli lavori per i vicini di casa. Onesti, naturalmente”.
“Questa mi sembra di averla già sentita”, commenta La Preside, chiedendosi amaramente quand’è che studenti e insegnanti impareranno che la realtà proposta da certi libri e telefilm per ragazzi non corrisponde alla vita vera. Il ragazzino avrà pure una faccia da angioletto, ma in assenza di prove certe come può un’insegnante fidarsi solo delle sue parole?
I fatti hanno un peso maggiore, e il fatto in questione è che questa mattina la III F del suo Istituto ha perso quasi un’intera mattinata di lezione per ritrovare un oggetto espressamente vietato dal regolamento scolastico che, alla fine, è risultato essere stato rubato, probabilmente a scopo di lucro.
“Che tipo di lavori fai per i vicini?”, torna a domandare la Preside.
Con la schiena curva a mo’ di salice piangente Anton tutto sembra meno che un tipo portato per i lavori di fatica.
“Aiuto a portare la spesa”, il ragazzino inciampa nelle parole.
“E i vicini ti pagano per questo tuo aiuto?”.
“Alcuni mi offrono la merenda, altri invece mi danno qualche spicciolo. Nel palazzo quasi tutti sanno quello che io e Giuseppe vogliamo fare da grandi, e ogni tanto ci incoraggiano.”
La Professoressa, colta da una folgorazione improvvisa, si intromette nella conversazione chinandosi bruscamente su Anton:
“I vicini pagano anche Giuseppe? Se lo mandassi a chiamare in classe lui potrebbe confermarci questa cosa?”:
Anton ci pensa un attimo, tormentandosi il labbro con i denti:
“Credo di sì”.
La Professoressa, trionfante, si volta verso la Preside la quale, tuttavia, resta impassibile al suo posto.
“Se anche questo Giuseppe confermasse la sua versione dei fatti mi dice cosa cambia, a livello pratico? Il problema del telefonino resta sempre lo stesso”, sospira la Preside.
Anton e la Professoressa sembrano cascare dalle nuvole.
Come se l’Apocalisse fosse davvero sul punto di arrivare il ticchettio molesto torna a riempire il silenzio nella stanza.
“Se anche avessimo la certezza che Anton a casa sua lavora onestamente non possiamo sapere cosa sia successo a scuola”, aggiunge la Preside. Per la prima volta da quando si sono ritrovati tutti e tre in quella stanza si alza in piedi, avvicinandosi ai suoi due interlocutori. Il viso ha un’espressione sofferente. Non è una donna cattiva, e la frustrazione per le difficoltà della vita non l’hanno intaccata al punto da gioire per le sofferenze altrui, ma mandare avanti una scuola è una cosa seria e bisogna rimanere il più possibile lucidi.
Anton fino ad ora si è mostrato educato, rispettoso, quasi certamente è onesto proprio come la Professoressa sta cercando di spiegarle, ma resta il fatto che, a meno di una clamorosa soluzione da poliziesco d’altri tempi, l’unico che possa aver nascosto il telefonino di tal Michela nel suo zaino è proprio lui.
“Anton, ti sta simpatica Michela?”.
Ora è la Preside ad essersi chinata su di lui, posandogli la mano su una spalla con fare rassicurante.
“Non ci parliamo molto”.
“Perché non vi parlate molto? Sei timido?”.
Anton contrae le labbra in una smorfia, voltando la testa di scatto.
“Le femmine non mi piacciono”.
La Professoressa, stupita, si mette nuovamente in mezzo:
“Questo non me l’avevi mai detto prima”.
La Preside la allontana, riprendendo in mano le redini del discorso:
“Anton, ti prego, rispondi alla mia domanda, è importante: perché le femmine non ti piacciono molto?”
La Preside cerca di usare tatto nel parlargli, sperando che il ragazzino non si chiuda a riccio e confidi i motivi del suo disagio.
“Non è che non mi piacciono proprio, è solo che … è Michela. E le sue amiche”.
“Ti prendono in giro? O c’è dell’altro?”.
Le orecchie di Anton sembrano prendere fuoco per quanto sono diventate rosse.
“No, no: mi prendono in giro e basta”.
La Professoressa di Italiano, a quelle parole, sbianca:
“Scusami, Anton, ma non erano Facci e Lorenzi a prenderti in giro?”
“Sì, certo, anche loro”.
“E allora perché non mi hai mai detto di Michela, prima?”.
Anton sospira e a giudicare da come gli si gonfia il petto è come se fosse appena rotolato giù il masso che lo opprimeva.
“Perché è diverso. A Facci e Lorenzi non importa dei soldi, sono poveri anche loro”.
La Preside arriccia le labbra. Lei, al contrario, il petto se lo sente più che mai schiacciato:
“Chi è questa Michela?”.
La Professoressa di Italiano risponde con in viso la tipica espressione di chi ha appena finito un puzzle:
“Michela Pierini. Il padre è il direttore di un supermercato”.
Per quello che è il livello medio degli stipendi dei genitori dei suoi studenti è come se avesse appena detto che è il primario di un grande ospedale.
“Dunque, ricapitoliamo: Michela è una ragazzina più ricca di te, si fa beffe del regolamento scolastico presentandosi in classe con un telefonino nuovo e tu pensi bene di rubarglielo per rivenderlo e comprarti i libri l’anno prossimo? E al fatto che ora che sei stato beccato e verrai sospeso senza poter essere ammesso agli esami non hai mai pensato?”.
La reazione della Preside è stata dura, perché questa storia tocca un nervo scoperto.
Anche lei, figlia di calabresi emigrati a Torino e finita a Roma per seguire il marito, ne ha subite di cotte e di crude, ai tempi della scuola. Ma mai, neanche per un secondo, neanche quando in famiglia di soldi ce n’era un bisogno disperato. si è sognata di ricorrere al furto per rimediare. Quello che la urta maggiormente, poi, è la reazione del ragazzino, intento a fissare il pavimento con aria da finto ebete:
“Anton, guardami in faccia quando ti parlo, è importante. Qui è in gioco il tuo futuro”.
E Anton obbedisce, sollevando il mento e aggrappandosi alla sedia come se stesse per cadere.
“Hai lavorato sodo due anni per arrivare dove sei arrivato, sia dentro che fuori la scuola. Sei il primo della classe e nonostante le difficoltà la gente ti vuole bene. Se hai detto alla Professoressa di quegli altri due ragazzi, perché non le hai raccontato anche di Michela? Perché hai dovuto mandare a monte tutto?
Le unghie del ragazzino, a contatto con la formica della sedia, producono uno scricchiolio sinistro.
“Non volevo rubare il telefonino per farci i soldi. Anzi, non volevo proprio rubare e basta. Volevo solo farle uno scherzo per vendicarmi delle sue offese”.
La Professoressa di Italiano si appoggia alla scrivania della Preside. Sentire quel racconto è come sentire franare il pavimento sotto i piedi. Due anni di lavoro, due anni di discussioni coi genitori, coi bulli, con i colleghi che non pensavano fosse una buona idea mettere i grilli in testa a un ragazzino simile, due anni di strategie messe a punto coi colleghi che, invece, la appoggiavano in tutto e per tutto e ora, eccola lì, a raccogliere i cocci della sua sbadataggine.
La Professoressa pensava che Anton fosse piccolo, ingenuo e timido, invece era più vittima delle femmine che gli facevano pesare la scarsità di soldi piuttosto che dei maschi che gli marchiavano le braccia con le biro.
“Perché non mi hai mai detto niente di tutto questo?”.
“Perché non volevo creare troppo disturbo”.
“E quello che hai combinato, invece, secondo te non è un disturbo? Io ti ho sempre difeso, lo sai”.
Anton si stringe nelle spalle, ma è più un gesto di difesa che un’ostentazione di indifferenza.
La Preside prende nuovamente la parola, ma stavolta per parlare più all’insegnante che all’allievo:
“Le ali sono una cosa difficile da gestire. Bisogna capire di averle e imparare a muoverle, prima di spiccare il volo. Così è con le ambizioni: Anton è sicuramente un ragazzo molto intelligente, e se vivesse in un paese che avesse meno paura di se stesso e del mondo non avrebbe problemi a esprimere appieno il suo potenziale. Ma il punto è che questo non è un paese perfetto, e a dirla tutta nemmeno un mondo perfetto, per cui la prima cosa da insegnare è come fronteggiare i problemi.
La Professoressa fa per ribattere, ma viene messa a tacere con un cenno della mano.
“Lei ha fatto un ottimo lavoro con questo ragazzo, e in generale dalla sua classe ha ottenuto quel poco di buono che si poteva ottenere. È un gruppo male assortito, pieno di disparità, c’era solo da augurarsi che non si creassero fratture troppo profonde. È stato lui a sbagliare”.
Come se si fosse appena svegliato da un brutto sogno, Anton realizza solo in quel momento la portata del guaio che ha combinato, iniziando a piangere.
“La situazione è delicata: il fatto è grave, è stato ammesso e pur con tutte le attenuanti del caso non posso passarlo sotto silenzio”, spiega la Preside. “Tuttavia voglio impegnarmi e vedere cosa si può fare. Se siete d’accordo mando subito a chiamare la ragazza e, una volta sentita la sua versione dei fatti, decideremo sul da farsi. Non voglio che Anton perda tutto per essersi rubato le ali da solo”.
La Professoressa di Italiano si trova d’accordo, e per calmare il ragazzo gli massaggia la schiena con piccoli movimenti circolari.
Ad Anton la pelle sembra davvero sanguinare, sotto la maglietta di cotone chiaro.
Forse però la cicatrice più profonda è quella che, comunque vada, resterà nella sua memoria.