First Came Anarchy // Parte 2

Nov 26, 2011 13:09

Titolo: First Came Anarchy
Fandom: Originale
Rating: 16+
Avvertimenti: language (accenno), gore, war
Gifter:
harriet_yuuko
Link al gift: Fanmix <3

Quella sera Lear si rese conto di essere stato davvero fortunato ad arrivare fin lì, sano e salvo, senza neanche un nuovo buco in corpo; l’incontro col prete - Shrine, come aveva detto di chiamarsi - era stata una fortuna in fin dei conti, avevano visto tante di quelle pattuglie nemiche durante il loro spostamento che passare inosservati per strade secondarie sembrava un miracolo, e forse lo era.
Un po’ di diffidenza iniziale c’era stata, ovviamente, si erano quasi ammazzati a vicenda, non ci si poteva fidare così facilmente neanche se si trattava di un uomo di Dio. Ma quel ragazzo era incredibile: proveniva da un paesino del Nord devastato dalla guerra, ma era partito lo stesso, armato solo di quella piccola pistola, da solo, a bordo di una vecchia camionetta del postino, ormai deceduto.
Il caso aveva voluto che gli stessi soldati che avevano cercato di ucciderli avevano fatto esplodere la sua vettura, costringendolo a rifugiarsi nella chiesa e, in seguito, a rimediare un passaggio per il Dipartimento Ovest, la sua meta originale.
Decisamente una fortunata coincidenza.
Lasciati i soldati rimasti al posto di blocco il trio aveva proseguito fino al Dipartimento, dov’erano giunti a notte inoltrata, ma nonostante il buio Lear aveva intuito quanto grande doveva essere la struttura principale. La sua sensazione era stata confermata quando un delegato del Capitano li aveva condotti nei loro alloggi: ampi, spaziosi e, soprattutto, camere singole.
Il ragazzo quasi non ricordava a quando risaliva l’ultima volta che aveva avuto una stanza tutta per sé.
La mattina seguente avrebbe conosciuto gli altri membri della squadra e sarebbero ripartiti subito, per dove non lo sapeva nemmeno lui; stremato dalle fatiche e dalla convalescenza travagliata, Lear lasciò cadere la testa sul cuscino e si addormentò all’istante, troppo stanco per godersi realmente la sua riacquistata privacy.

Che fosse tutto un disegno di Dio era un’ipotesi e neanche troppo improbabile al momento. A luci spente nella sua camera Shrine fissava il soffitto, incapace di chiudere gli occhi e lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo.
Non poteva essere una coincidenza, lo sentiva, ma la sua ragione gli impediva di credere che ci fosse lo zampino del Divino in tutto quello.
Era come diceva padre Alfred, lui pensava troppo per poter essere un buon prete.
Sbuffò divertito a quel ricordo e ricominciò a riflettere: che fosse il volere di Dio, un caso o un destino preesistente che regolava l’universo, in ogni caso Shrine interpretava gli avvenimenti di quel giorno come un segno, una traccia da seguire.
Quegli uomini, il Doc e Lear, come aveva detto di chiamarsi, e quella famosa missione di cui ancora non sapeva nulla… forse quella missione era anche sua, forse era quello il suo compito. Avevano detto che potevano salvare vite, molte vite. Ovviamente parlavano di vite di compagni in cambio di quelle dei nemici, Shrine sapeva come andavano le cose, ma al di là di tutto la Chiesa appoggiava ancora l’azione del governo e di conseguenza il biondo era, volente o nolente, un alleato di quei soldati.
L’uomo che li aveva scortati gli aveva accennato a padre Ugo, un uomo di fede che alloggiava lì, nel Dipartimento, ed era in stretto contatto con i vertici dell’esercito.
Se quella era la missione che Dio aveva in serbo per lui, allora doveva solo chiedere un piccolo favore ai piani alti; e in quel caso la mattina seguente avrebbe dovuto svegliarsi di buon’ora.

Al risveglio Lear si rese conto che il movimento del giorno prima era stato un po’ troppo per il suo fisico ancora dimesso: ogni minuto che passava scopriva nuovi muscoli e parti del suo corpo che non sapeva neanche di avere, non prima che cominciassero a bruciare e dolere come non mai.
Masticando un’imprecazione si buttò giù dal letto prima che lo facesse il Doc irrompendo nella sua stanza com’era già successo altre volte dal suo ricovero.
In realtà non era così difficile trovare la voglia di alzarsi in quell’ambiente: ad Ovest si trovavano le zone più pure e meno stravolte dall’uomo di tutto il continente e quell’aria frizzante che pizzicava il naso costringeva gentilmente anche i più pigri ad alzarsi dal loro giaciglio e affrontare serenamente un’altra complicata giornata sotto il sole cocente di giugno inoltrato.
Come il giovane aveva immaginato, il Doc lo attendeva appena fuori dalla porta, pronto a trascinarlo nello spiazzo della base dove il resto della squadra lo attendeva.
Sarebbe stata la missione più folle degli ultimi secoli e compiuta dalla squadra peggio assortita e più ridicola di cui Lear avesse mai sentito parlare.
Gli altri valorosi compagni di squadra che il ragazzo si aspettava di vedere si rivelarono essere un moccioso dall’aria gracilina che non poteva avere più di quindici anni e una ragazza, e che ragazza. L’esperienza aveva insegnato al giovane che tutte le poche ragazze che finivano nell’esercito erano brutte, racchie e quasi sempre lesbiche.
Ora, non poteva garantire sull’ultimo punto, ma, Dio gli era testimone, non aveva mai visto una fanciulla tanto incantevole.
< Carina, vero?> sogghignò il Doc seguendo il suo sguardo.
< E’ meravigliosa…>
< A me non sembra nulla di eccezionale.>
I due uomini sobbalzarono quando quella voce tagliente li raggiunse; voltandosi scoprirono che apparteneva a Shrine, che si era portato alle loro spalle senza farsi notare.
< Tu non fai testo.> replicò acido Lear scoccando al biondo un’occhiataccia.
< Perché non dovrei?>
< Hai fatto voto di castità, per questo non capisci un tubo in fatto di donne.>
< Anch’io ho gli occhi, posso perfettamente esprimere un giudizio estetico. E a mio avviso è negativo.>
Il soldato scosse le spalle, come a dire che delle opinioni estetiche di un pretuncolo non gliene fregava più di tanto.
< Cosa ci fai qui, comunque? Sei venuto a salutare?>
< Al contrario, sono qui per restare.>
Lear sgranò gli occhi, incredulo: doveva aver sentito male.
< Come hai detto, scusa?>
< Temo tu abbia capito perfettamente. Da pochi minuti faccio anch’io parte della vostra squadra.>
< Ma se non sai neanche di che missione si tratta!>
< Il Capitano e padre Ugo si sono premurati di informarmi dìnei minimi dettagli.>
Il moro si voltò di scatto verso il Doc, che si era tenuto in disparte continuando  a fissare quella graziosa figliola.
< Tu lo sapevi?!>
Lui lo fissò come se stesse prendendo la faccenda troppo sul serio.
< E’ una novità dell’ultimo momento, ma non ho nulla da obiettare. Ha l’approvazione del Consiglio.>
< L’approvazione del Consiglio? E quando diamine l’avrebbe avuta?>
< Giusto questa mattina. Provvidenziale, vero?>
Se uno sguardo avesse potuto uccidere, Shrine sarebbe crollato morto stecchito sulla dura terra.
< E che ruolo avresti nella nostra spedizione?> ringhiò Lear, sempre più irritato da quello stravolgimento di piani e dall’aria strafottente del prete.
< Guida spirituale. - replicò prontamente quello - Ma anche materiale nel caso voi non sappiate la strada com’è successo ieri.>
< Ma dimmi tu…>
< A proposito, potresti spiegarmi che ruolo avresti tu? Da come ne parlava il Generale sembravi molto… come dire… una mascotte.>
Il ragazzo si rifiutò di rispondere e gli voltò le spalle, deciso a tenere il muso per tutto il giorno sia a Shrine che al Doc, tentando invece di entrare in confidenza con i due nuovi arrivati.
Da quanto riuscì a capire dagli stralci di conversazione il ragazzino, Van, faceva parte del R.S., il Reparto Speciale secondo la definizione ufficiale, il Ritrovo Suicidi secondo molti soldati: quel gruppo era famoso per essere un covo di fuori di testa, gentaglia sanguinaria che uccideva per diletto più che per dovere.
Quel ragazzino non pareva così letale o pericoloso, senza contare che era davvero magro e con ogni probabilità sarebbe stato soffiato via alla prima folata di vento troppo forte, ma Lear aveva imparato da tempo a non fidarsi delle apparenze.
La ragazza, quella meravigliosa creatura di nome Weiss, era una tiratrice scelta della Squadra Cecchini, ma più che al suo ruolo Lear era più interessato alla vita privata di quella giovane dai lunghi capelli neri.
Stavano caricando armi e rifornimenti sulla jeep quando lei, già in macchina per riordinare le cose, si voltò verso di lui sorridendo.
< Mi passeresti quello?> chiese indicando con un grazioso cenno del capo una lunga custodia nera che giaceva a terra accanto al soldato, che non poté trattenere un sorriso imbambolato nel sentire la sua voce.
Dio, l’astinenza era una gran brutta cosa!
< Ma certo.>
Era la sua occasione d’oro per entrare in confidenza! Poteva sfoderare tutto il suo immenso fascino e la sua forza per far colpo su di lei, così Shrine (e probabilmente anche il Doc) sarebbero rimasti a bocca asciutta.
Animato da buone intenzioni e secondi fini si chinò ad afferrare la custodia e provò ad alzarla con una mano sola; per poco non si trovò a terra assieme all’oggetto sconosciuto.
Trattenne un’imprecazione e riprovò ad alzarlo, questa volta con entrambe le mani: era dannatamente pesante, come se il contenuto fosse tutto fatto di piombo; con grande sforzo riuscì a sollevarlo e barcollando si avvicinò alla macchina dove Weiss lo aspettava.
< Sta attenta, è pesantissim-…>
Non fece tempo neanche a concludere la frase che la ragazza, non senza un sorrisetto, prese la custodia con la mano sinistra e la sollevò come se fosse una piuma.
L’umore di Lear, già basso per svariati motivi, precipitò tre metri sotto terra e il giovane passò tutto il resto della mattinata in un deprimente silenzio, ripetendosi che era colpa delle ferite non ancora del tutto rimarginate se aveva fatto quella terribile figura.
Shrine lo fissava dal sedile anteriore della jeep e ghignava.

Forse per via della sua depressione spinta al massimo o forse perché non aveva mai amato viaggiare con quegli affari, specie se gli toccava restare nel cassone posteriore dell’auto, tra il sudore e la polvere che si appiccicava orribilmente alla pelle, ma quel viaggio gli parve interminabile e alquanto straziante.
Aveva il terrore di sentire da un momento all’altro il rumore di uno sparo, un’avvisaglia della presenza del nemico; con i nervi a fior di pelle Lear continuava a portare la mano alla fondina dove riposava la sua pistola.
A renderlo più preoccupato era anche la consapevolezza che, in caso di uno scontro, non sarebbe stato in grado di cavarsela come prima, non con quelle stupide ferite che lo indebolivano. Ripensò al suo primo incontro con il prete e rabbrividì ricordando con quanta facilità un ragazzino gracile come quello era riuscito a metterlo all’angolo e tenerlo sotto scacco.
Non voleva che una cosa simile accadesse di nuovo, se si fosse trovato nella stessa situazione nelle mani dei nemici avrebbe preferito suicidarsi piuttosto che sottomettersi. A quel pensiero lo sguardo gli cadde sullo stivale destro, al cui interno giaceva nascosto il coltello di suo padre.
Sarebbe stata un’amara ironia darsi la morte con l’arma che per generazioni aveva fatto da portafortuna alla sua famiglia; per fortuna, sotto un certo punto di vista, nessun membro della sua famiglia sarebbe venuto a saperlo, suo padre era morto diversi anni prima e la madre era lontana dal fronte, nella zona che veniva ancora considerata sicura. Sempre che esistesse una zona sicura in quell’inferno.
Il tragitto verso Nord era lungo, aveva studiato la cartina con il Doc prima di partire, e non era neanche un territorio facile da superare: a quanto pareva c’erano posti di blocco un po’ ovunque, nemici ovviamente, e attorno alla strada principale si trovavano grotte, massi e vegetazione che sembravano essere là giusto per favorire un’imboscata.
I piani alti avevano avuto il buon senso di procurare al gruppo una jeep senza insegne militari, con un po’ di fortuna potevano passare per un veicolo civile; era anche il motivo per cui sul sedile anteriore c’era Shrine, forse alla vista di un prete i credenti che erano costretti ad imbracciare un fucile ci avrebbero pensato due volte prima di sparare.
L’unico rumore udibile oltre al rombare del motore era la voce del Doc che canticchiava delle vecchie filastrocche nel vano tentativo di animare la compagnia; il biondo accanto a lui fissava con insistenza fuori dal finestrino, Van sonnecchiava nel cassone assieme a Lear e Weiss, entrambi seduti ed immobili, anche se la ragazza era evidentemente molto più rilassata del suo nuovo compagno.
Il giovane era certo che, se avesse aperto bocca per iniziare una conversazione, avrebbe vomitato la sua magra colazione e non era certo di voler aggiungere anche quella alla lista delle figuracce di fronte alla ragazza.
< Tra venti minuti arriveremo a Peck. Tenetevi pronti per ogni evenienza.> avvisò l’uomo alla guida tentando di sovrastare il rumore del motore. Era l’unica città imponente che si trovava sul loro cammino e le probabilità di trovare soldati dell’altra fazione aumentavano a vista d’occhio man mano che si avvicinavano.
Lear sospirò, appoggiandosi allo schienale e cercando di calmarsi; Weiss cominciò a trafficare con le armi che aveva incassato sotto i sedili, mettendosi addosso le più maneggevoli.
< Che stai facendo?>
< Mi preparo a scappare nel caso ci scoprano.>
< Questa dovrebbe essere una strada sicura.>
< Non è la prima volta che appaiano presidi e posti di blocco dove fino al giorno prima c’era il vuoto più assoluto. Qualora ci blocchino dobbiamo fuggire in fretta, ma voglio lasciare a quei bastardi meno armi possibili.>
Van ghignò mettendo in bella mostra i suoi denti luccicanti.
< Questo sì che è un ragionamento sensato. Dovresti seguire anche tu il suo esempio.> ridacchiò rivolgendosi a Lear e anche lui si mise ad equipaggiarsi per ogni evenienza.
Il giovane deglutì, pensieroso: non aveva granché voglia di girare con qualcosa che poteva farlo esplodere al minimo sobbalzo e non si sentiva neanche così in forma da poter reggere un peso troppo elevato.
Imitò gli altri due con una lentezza infinita, pregando il cielo che non accadesse nulla di inaspettato.
Per sua fortuna la strada da loro intrapresa era priva di controlli; superarono Peck senza troppe difficoltà, ma ogni volta che si avvicinavano ad una città di modeste dimensioni Weiss e Van tornavano subito ad armarsi.

Erano in viaggio da due giorni ormai e dopo aver sopportato quasi quindici ore di jeep senza neanche una pausa Lear sentiva di essersi abituato a quel terribile modo di viaggiare; la sera del giorno seguente sarebbero arrivati finalmente al Dipartimento Nord e Dio solo sapeva quanto il ragazzo desiderasse schiantarsi in un vero letto, tra quattro meravigliose mura di cemento e magari farsi anche una bella doccia.
Il Doc e Van erano del suo stesso parere e chiacchieravano felici e contenti sui sedili anteriori, parlando ad alta voce per non escludere dalla conversazione i tre compagni dietro.
Il giovane si stiracchiò per bene soffocando uno sbadiglio.
< Ormai è fatta.> borbottò placidamente e chiuse gli occhi, anche se con tutto il frastuono del motore era assai difficile poter riposare.
< Non dirlo. Non siamo ancora arrivati a destinazione.>
Il giovane guardò con aria annoiata alla sua sinistra ed incrociò lo sguardo penetrante del prete con cui era costretto a viaggiare coscia a coscia.
< Ti diverti a portare sfiga?>
< Mi diverto a non illudermi. Finché non tocco con mano le pareti del Dipartimento non ci crederò che siamo arrivati.>
“Questa poi…” pensò scocciato Lear e alzò un sopracciglio carico di scetticismo.
< E tu saresti un credente? Insomma, dacci il buon esempio e abbi un po’ di fede.>
Che Shrine fosse un prete anomalo il ragazzo l’aveva già capito, dato che in tutti quei giorni non aveva provato una sola volta a convertirlo - e nell’esperienza di Lear tutti gli uomini religiosi passavano buona parte della loro giornata a cercare di convertire i miscredenti - e non solo, ad ogni battuta sarcastica sul conto della Chiesa lui scrollava le spalle e faceva finta di niente e soprattutto, quando qualcuno gli faceva notare che non aveva poi molta fede nel suo Dio, si rabbuiava e non parlava più per diverse ore.
< Avere fede non significa essere degli idioti.> replicò il biondo a bassa voce e dal modo in cui corrugava la fronte e teneva le braccia conserte Lear capì che la conversazione, almeno per quel giorno, poteva ritenersi conclusa.
< Siamo quasi arrivati a Mok.> urlò da davanti la voce tuonante del Doc.
Mok era un piccola città, famosa per lo smercio del legno e delle opere manifatturiere, ma sotto tutti gli altri aspetti non era nulla di particolare. Eppure quando la jeep svoltò e la città apparve davanti a loro ad accoglierli ci fu il luccichio dei mitra nemici e i colori delle loro vetture.
< Merda.>
< Che succede?>
< C’è un posto di blocco.>
< Merda.>
< Già.>
< E ora che facciamo?>
Il Doc rimase in silenzio, ma il suo cervello rimuginava a mille, alla ricerca di una strategia vincente, mentre la jeep proseguiva la sua corsa sempre alla stessa velocità, per non destare sospetti.
< Allora?> esclamò impaziente Lear, terrorizzato all’idea di finire nelle fauci della tigre senza poter fare niente.
< Ho un’idea. Weiss, prepara la BB-2, piazzala sul fondo della macchina, dietro il mio sedile.>
Non doveva essere una richiesta molto usuale, perché la ragazza fissò l’uomo con gli occhi spalancati, ma dopo un attimo di sgomento eseguì gli ordini e prese a rovistare tra le custodie e le armi sotto i sedili.
< Che cos’è una BB-2?> domandò Shrine.
< Una bomba.>
< Cosa? Sei impazzito?!>
Se non fosse stato impegnato a guidare Lear non ci avrebbe pensato due volte a colpire in testa quel vecchio rincretinito: che razza di idea era quella di piazzare una bomba nella loro vettura?!
< Ascoltate, ora ci avviciniamo al posto di blocco cercando di passare per un veicolo civile. Appena saremo abbastanza vicini accelererò e sfonderò la barriera; dovete appiattirvi il più possibile al fondo perché di sicuro ci spareranno dietro. Al mio “tre” lanciatevi fuori dalla macchina, fate perdere le vostre tracce e nascondetevi. Farò schiantare questa vecchia carretta contro un muro e due secondi dopo, Weiss, tu azionerai a distanza la bomba e farai saltare in aria quest’affare. Appuntamento tra un’ora al locale Porco Nero, capito? Lo gestiscono dei miei conoscenti, non avremo problemi lì. E ora tenetevi forte.>
< Sai che sei un folle?!>
L’urlo di Lear si mischiò con il rombo del motore che veniva mandato al massimo mentre la jeep accelerava improvvisamente.
< Tutti giù!>
Prima di poter protestare o gridare o fare qualsiasi altra cosa il giovane si trovo spiaccicato sul fondo della macchina, il viso a pochi centimetri dalla bomba che Weiss aveva piazzato; sentiva il corpo di Shrine premere contro il suo e un rumore assordante, ripetuto, di spari.
Sentì un tonfo e un movimento improvviso gli fece picchiare la testa sul duro.
< Pronti? Uno… due … tre!>
Agitato com’era Lear probabilmente non sarebbe riuscito a saltare giù dal veicolo al momento opportuno, ma una mano lo afferrò per il braccio e lo costrinse a buttarsi dal portellone posteriore. La caduta a terra non fu delle più piacevoli, ma non c’era tempo per lamentarsi delle botte o dei graffi; la stessa mano lo aiutò bruscamente ad alzarsi e lo spinse a correre.
Lear voltò la testa e si rese conto che chi lo guidava era Shrine, il volto teso nello sforzo di correre e trovare in fretta una via di fuga, prima che i soldati li raggiungessero. Si sentivano urla dappertutto, poi uno schianto.
Con la coda dell’occhio il ragazzo vide la macchina spiaccicata contro un muretto, erano nel bel mezzo del mercato cittadino.
Uno… due…
Come da manuale l’esplosione, tremenda, inguardabile. Le bancarelle più vicine presero fuoco all’istante, i negozianti urlavano, l’esercito sparava in aria nel tentativo di calmare la folla. Per un istante ebbe l’orribile visione di un uomo completamente avvolto dalle fiamme che urlando correva e si gettava dentro la fontana della piazza.
< Di qua.> sibilò il prete, che non aveva ancora lasciato la presa sul braccio del compagno.
Si nascosero nei meandri di una serie infinita di stradine e attesero; Lear nascose tutte le insegne e le decorazioni della tuta che potevano identificarlo come soldato.
Dalla piazza principale giungevano ancora urla e spari mentre odore di legno e carne bruciata si diffondeva per tutta la città.
< Cristo Santo…> borbottò il moro e si lasciò scivolare con la schiena contro la parete. Le gambe non riuscivano più a reggerlo.
Alzò gli occhi su Shrine e trattenne a stento un’esclamazione: il biondo sanguinava abbondantemente dall’orecchio destro, ma più che la ferita che si stava tamponando con un fazzoletto quello che era preoccupante era l’espressione del suo viso.
Il soldato non aveva mai visto tanta sofferenza negli occhi di qualcuno e non era l’orecchio il problema, ne era certo.
Stava giusto per chiedergli spiegazioni, aveva tutte le intenzioni di aiutarlo a sfogarsi, quando il prete si voltò a guardarlo, gli occhi di nuovo indecifrabili come sempre.
< E’ meglio se ci muoviamo. Dobbiamo trovare il Porco Nero.>
Come potesse quel ragazzo, che non era neanche un militare, ma solo un uomo di fede (e anche questo era  da appurare), sopportare una situazione come quella e riuscire ancora a pensare lucidamente alla propria missione Lear non lo capiva, ma annuì sconsolato alzandosi a fatica.
Bendò con un altro fazzoletto l’orecchio del compagno, in maniera un po’ grezza, ma discreta, e si avviarono lungo i vicoli. Nessuno dei due aveva la più pallida idea di dove si trovassero, ma per fortuna l’abito di Shrine funzionava da lasciapassare e non fu difficile trovare qualche buonanima disposta a dar loro indicazioni.
Lear si lasciò guidare senza pronunciare una parola, la testa presa da una miriade di preoccupazioni: gli altri dov’erano? Come stavano? Erano vivi o erano caduti nelle mani dei nemici? E che ne era della loro missione? Senza jeep e con un armamentario limitato potevano forse sperare di farcela? Il Dipartimento Nord era a più di un giorno di viaggio in macchina, fare tutta quella strada a piedi non sarebbe certo stato una passeggiata.
< E’ questo.>
La voce leggermente acuta del prete lo riportò coi piedi per terra; sollevò lo sguardo sull’insegna della locanda, un maiale completamente nero che ghignava con aria poco raccomandabile. Il che era assurdo, perché Lear poteva giurare che i maiali non ghignavano. Non mostrando i denti, almeno.
< Va bene, entriamo. Ormai l’ora dev’essere quasi passata.>

C’era un che di Doc nell’atmosfera che li accolse oltre la porta, probabilmente era in quei tavoli puliti alla buona, nell’odore di tabacco masticato e nelle facce conviviali della gente al banco. Appena varcata la soglia i due ragazzi si trovarono tutti gli occhi puntati su di loro, ma un cenno del barman rassicurò i clienti.
< Eccoli là.> bisbigliò Lear indicando un tavolino in fondo alla sala, coperto quasi completamente da un paralume; si poteva intravedere appena le spalle possenti del Doc.
Fu un sollievo vedere che erano tutti e tre lì, anche se ad essere sinceri non erano esattamente illesi: il braccio destro del Doc, quello più vicino alla macchina quando si era buttato fuori dall’abitacolo, era parzialmente bruciacchiato, mentre Van e Weiss avevano riportato solo qualche taglio superficiale, che aveva sanguinato abbondantemente in un primo momento, ma nulla di preoccupante.
< Ce ne avete messo di tempo, eh?> fece il ragazzino dall’alto del suo solito ghigno superiore.
< Temevamo di essere seguiti, abbiamo fatto un giro largo.>
< Allora, il piano?>
C’era ben poco da progettare: la città era in mano agli Insorti e l’unico modo per proseguire con la missione e non rimetterci la pelle era andarsene il prima possibile senza dare nell’occhio.
< Siamo senza una macchina…>
< Ne possiamo recuperare un’altra, non è quello il punto. Il punto è filarsela prima che i controlli si facciano più severi. Abbiamo avuto fortuna fino ad ora, pare che abbiano classificato l’esplosione della nostra jeep come attacco terroristico; Van si era abbassato, perciò quello che cercano ora è l’unica persona che hanno visto, il conducente. Cioè io.>
Stavano escogitando un qualcosa di più elaborato per andarsene da lì quando delle urla attirarono la loro attenzione.
< Brutto stronzo!>
< Fuori di qua, vecchio!>
Prima che uno di loro potesse aprir bocca il paralume che nascondeva il loro tavolo venne fracassato da un corpo umano scaraventatogli contro.
< Allora, chi ne vuole ancora?!>
< Grandioso, ci mancava solo una rissa tra ubriachi.> bofonchiò Weiss ritirandosi il più possibile contro la parete per evitare i bicchieri che venivano lanciati. Ci vollero meno di tre minuti perché dai bicchieri si passasse dai bicchieri alle bottiglie e infine alle sedie.
< Che razza di caos. E’ meglio andarsene e in fretta.>
Il Doc non aveva neanche finito la frase che un rumore di freni e di sirene spiegate si udì dall’angolo della strada.
< Che cosa..?>
< Sono le forze di pattuglia degli Insorti. Via, presto!>
Si fecero strada a fatica, sgusciando tra i tavoli, i corpi riversi a terra e gli ubriaconi che ancora riuscivano a reggersi in piedi; c’era una porta sul retro, vicino all’ingresso dei bagni. L’uomo l’aprì in tutta fretta e uscì, seguito dalla ragazza, il piccoletto e il prete.
Lear era neanche due metri dietro di loro e stava per raggiungere la via della salvezza quando una sedia gli arrivò dritta dritta sulla testa, spedendolo in ginocchio per terra.
< Ehi, dove te ne vai, ragazzino?>
Una mano malferma lo rimise in piedi e attraverso la vista annebbiata Lear intuì una faccia poco rassicurante, nonché un puzzo d’alcol che lo colpì in pieno viso. L’ubriaco sghignazzò e cercò di colpire il giovane con un destro alquanto traballante, che l’altro riuscì a evitare senza problemi.
< Ah, fai anche il furbo? Bé, te la faccio passare io la voglia.>
Il secondo colpo era più forte, più preciso e decisamente più pericoloso, ma Lear non aveva alcuna intenzione di prenderle da un vecchio rimbambito in preda ai fumi dell’alcol: parò il colpo, nonostante a quel movimento brusco le sue ferite riprendessero a bruciare, e si lanciò in avanti colpendo con un destro la mandibola dell’uomo, provocando un gran rumore di ossa rotte.
Era così concentrato a combattere come si doveva pretendere da un soldato che non si accorse che la vigilanza ormai aveva fatto irruzione nel locale fino a quando tre paia di braccia robuste lo bloccarono e gli misero le manette ai polsi.

< Bé, grandioso. Cosa ci manca ora, la piaga delle locuste?>
Il sarcasmo di Van fu totalmente ignorato, anche perché Shrine era troppo occupato a vagare per la stanza misurando a lunghi passi il pavimento e il Doc fissava con occhi spenti il vetro rotto dell’unica finestra.
< Siamo nella merda.> bofonchiò l’uomo passandosi una mano sulla faccia.
Il cigolio della porta che si apriva fece voltare tutti di scatto, ma era solo Weiss che sgusciava dentro la stanza.
< Lo hanno portato alla prigione di Seik, a tre ore di macchina.>
< Macchina che non abbiamo. Hanno scoperto chi è?>
< No, lo vogliono imprigionare per rissa, ma da quanto ho capito sono parecchio severi da queste parti. Lo vorrebbero tenere dentro almeno un mese: vogliono riempire per bene le carceri per far capire che non è gente con cui scherzare, è difficile che lo rilascino in fretta.>
Ci fu un attimo di silenzio e i quattro si guardarono l’un l’altro, studiandosi per capire cosa fare con un membro della loro squadra in prigione, il loro ipotetico veicolo distrutto e una città invasa dalle truppe degli Insorti.
< Possiamo sempre proseguire con la missione. In fin dei conti era solo una mascotte.> azzardò Van, ma dall’occhiata che il Doc e Shrine si scambiarono capì che l’idea era completamente diversa.

< Dio mio…>
Ogni secondo che passava Lear si rendeva sempre più conto che la vita da soldato, da avventuriero o da impavido eroe della patria non faceva proprio per lui; quand’era più giovane aveva sempre sognato nei suoi attimi di gloria quelle situazioni estreme, essere gettati nelle segrete della fortezza più inespugnabile, soli in compagnia degli scarafaggi e dei topi, con un tozzo di pane e un bicchier d’acqua come unico nutrimento giornaliero. Quando fantasticava in quella maniera si esaltava, pensava a come avrebbe sopportato con stoicismo ogni sofferenza e tortura, come avrebbe sputato in faccia ai suoi aguzzini e avrebbe dimostrato di avere la stoffa giusta per essere il protagonista, l’eroe.
Ora che era realmente nelle segrete, dopo neanche cinque minuti avrebbe venduto anche sua madre per uscire da quel luogo terrificante: ormai aveva smesso di dare la colpa del suo stato psicologico alle ferite che ancora dovevano rimarginarsi e che lo indebolivano grandemente, anche se fosse stato nel pieno delle forze quelle catene appese alle umide e spoglie mura della prigione e quei terribili rumori che lo coglievano di sorpresa proprio quando stava per appisolarsi lo avrebbero fatto tremare come una foglia, cosa che effettivamente stava accadendo in quel momento.
< Ehi, avete visto, gente? C’è un moccioso nuovo!>
< Quanto credi di durare, ragazzino?>
< Ma va ad attaccarti alle gonne di tua madre, sbarbatello! Non vedrai neanche domani mattina con una faccia come quella.>
Quel briciolo di orgoglio che aveva in corpo si rianimò spingendolo a mettere da parte le sue paure e affrontare quei topi di fogna se non a pugni almeno a parole, ma all’ultimo si trattenne: non aveva perso del tutto il suo buonsenso e una saggia vocina nella sua testa gli ricordava che azioni avventate come quella non sarebbero servite ad altro se non a portarlo in un luogo ancora più buio e oscuro, magari una cella d’isolamento.
Non credeva proprio di poter sopportare una simile situazione, così si limitò ad addossarsi maggiormente alla parete facendosi piccolo piccolo; presto i suoi compagni di prigione avrebbero trovato qualche altro passatempo più divertente, bastava solo attendere un po’.
Sperava solo che non ci volesse troppo, la sua lucidità diminuiva ogni ora che passava.

fan fiction, bigbang italia, original

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