Titolo: Ce qu'on ne pourra jamais plus toucher
Fandom: Letter Bee
Personaggi: Sylvette Suede, Gauche Suede/Noir
Wordcount: 914 (FDP)
Avvertimenti: missing moment per il capitolo... devo cercarmi il numero esatto, correggerò più tardi. XD
Note: Scritta per la
terza settimana del
COW-T 3 @
maridichallenge, Missione 1, prompt Pelle.
Sylvette ha ancora il profumo di quella torta di mele impigliato fra i capelli, quando la adagia sul letto. È nostalgico, sembra come una sfoglia fatta di zucchero che gli si scioglie direttamente sul cuore.
Sylvette ha le guance rosse, e lui non sa nemmeno capire il perché. Forse per lei tutto questo è un po’ un oltraggio alla sua autosufficienza, ma non trova il coraggio di dirglielo. Forse è solo che Gauche non aveva l’abitudine di metterla a letto, magari non negli ultimi anni, e questo per lei è imbarazzante. Il vantaggio del perdere ogni ricordo di sé e del mondo è che non si ha più un’idea ben definita neanche dell’imbarazzo, quindi Noir può permettersi di ignorare tutto - il fatto che lei voglia dimostrarsi autonoma, la sottile barriera di carta che il tempo ha posto fra loro, tutto. Anche la sua camicia da notte leggera, il suo viso color porpora e perché no, il sapore dell’arrosto che lui ha ancora in bocca. Prova a sbirciare il suo sguardo, e quando incrocia quegli occhi e li ritrova come poco prima, illuminati da sprazzi di gioia, non sta neanche più lì a combattere la tentazione di rimboccarle le coperte.
Noir non si è guardato molte volte allo specchio, da quando si è risvegliato - per vedere la faccia di uno sconosciuto gli basta guardarsi intorno, quindi non avrebbe molto senso - eppure sente quasi a pelle che lei... lei un po’ gli somiglia.
C’è qualcosa nella linea morbida del naso, qualcosa nella forma del viso, nel polso terribilmente sottile, che in lui sembra fin troppo gracile e in lei invece pare esprimere eleganza.
C’è qualcosa finanche nella pelle, nel tono così pallido, nella consistenza stessa - anche se Sylvette ha un’aria decisamente più soffice di lui, accogliente come il caldo di un focolare o una madre, se ricorda bene ciò che gli hanno spiegato sulle madri. Più la guarda e più si convince che sono simili, talmente simili che forse sono stati creati con due stampi identici, solo che lei ha avuto metà delle sue proporzioni. Ma sono misure così perfette. Sylvette sta fra le sue braccia come se ci fosse nata e cresciuta dentro, e questo quasi lo confonde. È come aver sempre avuto un posto esatto in cui tornare e non averlo mai saputo prima. Come se lui fosse la sua casa, e lei non aspettasse altro che di potervisi rifugiare.
Sylvette lo guarda, ed è come rivedersi in una vecchia fotografia. Anche il sorriso - se Noir riprovasse a sorridere mai, è quasi certo che il suo sarebbe proprio come questo. Non così bello, ma come questo. E qualcosa gli si blocca nello stomaco, come un nodo o una strana emozione.
Lei ha qualcosa di me.
Deglutisce, schiudendo mani vuote e umidicce. È un pensiero così strano. Potrebbe essere felice, se lui riuscisse a distinguere la felicità dal niente che ha nel cuore giorno e notte da quando è rinato.
“Fratello?”
È un pensiero che brucia forte in gola e si accende nel petto, così forte che Noir si chiede se il suo corpo sia abbastanza da contenerlo. Se non possa sbriciolarsi da un momento all’altro.
Poi Sylvette gli sfiora il viso con la mano fresca, e lui rabbrividisce per un istante nel registrare quella sensazione, nel rendersi conto che già c’era. Che è un ricordo che il cuore non aveva bisogno di conservare, perché era già impressa nella carne.
“A cosa stai pensando?”
Noir trema, appena, impercettibilmente.
È così familiare, il palmo dolce e quelle dita sottili e calme sulla sua guancia - qualcosa gli dà la certezza che sia sempre stato così, che Sylvette sia sempre stata dentro di lui, ben nascosta, dove non avrebbe potuto perdersi, anche quando lui non poteva ricordarselo.
È una possibilità vaga, certo, ma una possibilità così bella.
Io ho qualcosa di lei.
Adesso sembra davvero un pensiero felice.
“Fratello...?”
“Ti stavo solo guardando. Sei cresciuta così tanto, sai.”
Sylvette ha gli occhi così lucidi che sembrano perle, e lui segue di nuovo l’istinto come quando l’ha bene avvolta nelle coperte, e si china, piano per non spaventarla, e ancora più piano perché lei possa fermarlo, e le fa passare un braccio dietro la schiena per abbracciarla, finendo con l’affondare la faccia nel cuscino e aspettando che qualcuno gli ricordi che non ha il diritto di stare lì.
E invece lei si aggrappa alle sue spalle forti, sparendo in un nugolo di capelli contro il suo collo. Forse è il naso, quello schiacciato contro la sua clavicola. E lui prega che nessuno venga a strapparlo via da lì, anche se ha rubato il posto di un uomo che non esiste più, anche se la sta ingannando e Sylvette dovrebbe rifuggire le sue braccia, invece che respirarci dentro come se fuori da lì non avesse più aria per vivere.
“Sono così... f-felice... così...”
Se la stringe più vicino, quando la sente tremare. Sylvette piange sulla sua spalla, e a lui quel cuore prima immobile si chiude in una morsa. Perché Sylvette piange per lui, e questa consapevolezza è dolce e triste ad un tempo.
Per un attimo, riesce quasi ad illudersi che vada tutto bene così.
“Gauche...”
Un attimo solo. Non era destino che durasse di più.
La guarda assopirsi, e per un momento - il più sciocco di tutti - gli viene da pensare che, forse, se dormisse sul suo stesso cuscino e la tenesse con dolcezza accanto a sé, questa piccola donna che pare disegnata apposta per incastrarsi nel suo abbraccio, questo metterebbe tutto a posto.
“Gauche,” mormora lei nel sonno.
Lui le accarezza il viso.
“Gauche era un uomo fortunato.”