[Fanfiction - Harry Potter] Summer breeze

Jun 11, 2013 15:45


Titolo: Summer breeze
Fandom: Harry Potter
Personaggi: Teddy Lupin, Victoire Weasley, altri
Pairing: Teddy/Victoire
Parte: 1/1
Rating: Verde
Conteggio parole: 7.388 (Word)
Riassunto: Teddy e Victoire stanno insieme da anni, ma condividono le loro vite da quando erano bambini. La loro storia sembra essere scandita dalle estati: primi baci, dichiarazioni d'amore... Anche quest'estate la brezza estiva porterà loro qualcosa di speciale?
Note: Questa one-shot ha partecipato ad un concorso incentrato sul tema dell'estate indetto da Efp.



Summer breeze

Villa Conchiglia, Tinworth, Cornovaglia.
27 luglio 2018.
Ore 9:30.

«Tesoro, mi passi il giornale?» chiese Bill a sua moglie in un’afosa mattina di fine luglio.
«Subito, caro. Luois, usa la forchetta per fovore e non le mani per mangiare».
«Ma James lo fa sempre, mamma» protestò il bambino fissandola con i suoi occhioni blu.
«Be’, perché credi che zia Jinnì e zio Arrì siano sempre così nervosi quando si alzano da tovola?» esclamò Fleur con aria leggermente stizzita versando del tè in una tazza e aggiungendovi del latte.
«Perché James odia usare le posate e non fa che lanciare cibo ad Albus e a Lily» rispose Dominique diligentemente, per poi scoccare al gemello un’occhiata di divertita superiorità. Louis ricambiò con una linguaccia approfittando di un momento di distrazione di sua madre, occupata a riempire una piccola ciotola con della frutta tagliata.
«Oh, santo scielo» esclamò, allarmata. «Che non vi passi mai per la testa di imitorlo!»
«Poveri Harry e Ginny… Quel ragazzino li farà invecchiare precocemente» sentenziò Bill, mezzo nascosto dietro La Gazzetta del Profeta del giorno.
Fleur sbuffò mentre sistemava la ciotola di frutta davanti a un bicchiere di latte, lungo l’unico lato libero del tavolo. «Ascidonti, ma dov’è Vic? Se non si sbriga farà colasion all’ora di pranzo. Qualcuno vada a chiamarla».
Bill sembrava troppo preso dalla sua lettura e Dominique non avrebbe mai interrotto spontaneamente la colazione; toccò a Louis alzarsi e salire la prima rampa di scale che conduceva di sopra. «Ehi, Vic! La mamma dice che devi muoverti!»
Seguì un secondo di silenzio, poi uno strillo. «Arrivo!»
«Ieri è rientrata piuttosto tardi» disse Bill; allungò una mano oltre il giornale per afferrare la sua tazza di caffè.
«La scena con Teddì e i suoi amisci dell’Accademia è durata più del provisto» rispose Fleur.
«Spero sia andata bene. Si è appena diplomata, e con il massimo dei voti: è proprio il momento che si diverta e si rilassi un po’».
La discussione tra i genitori fu interrotta dalla voce squillante di Dominique. «Qualcuno aspetta una lettera?» domandò guardando fuori dalla finestra.
«No, non mi pare» rispose Bill.
«Be’, sta arrivando un gufo» continuò la bambina, e gli altri tre, seguendo la direzione indicata dal suo dito, notarono qualcosa di scuro che volava rapidamente verso la casa.
Fleur si alzò e fece di corsa il giro del tavolo per aprire la finestra, e qualche secondo dopo un grosso allocco planava nella cucina; l’animale atterrò con aria impettita tra i piatti della colazione e allungò elegantemente una zampa a cui era legata una busta rettangolare da un nastro blu scuro.
«Per la barba di Merlino, non sarà…» mormorò Bill.
Dominique fu la più rapida a scattare in avanti e a slegare la busta, mentre il pennuto la fissava con aria sdegnata come se lei non fosse stata all’altezza del compito, e non appena fu libero volò immediatamente fuori dalla finestra con un gran frullo d’ali. «Madamoiselle Victoire Weasley… Le ministère française...» lesse la bambina ad alta voce sul retro della busta. «Ehi, ma sono loro! E’ arrivata!»
Bill e Fleur si scambiarono un’occhiata incredula. «Così prosto?» esclamò Fleur.
«Apriamola» disse Dominique, impaziente.
«No!» gridarono in contemporanea i suoi genitori, e lei si bloccò con la mano sospesa sulla busta; Louis si sporse per strappargliela, ma riuscì a gettarle solo un’occhiata prima che gli venisse a sua volta sottratta.
«Questa è di Victoire e deve aprirla lei» dichiarò Bill brandendo la busta.
I gemelli si guardarono. «Vado a chiamarla!» trillò Dominique, e corse alle scale.
«No, vado io!» esclamò Louis e si precipitò all’istante dietro di lei.
Salirono le scale insieme, strillando, spintonandosi e cercando di ostacolarsi a vicenda, incuranti dei richiami materni che giungevano dal piano di sotto. Victoire, che aveva appena finito di fare un bagno ed era ancora avvolta in un telo bianco, si stava giusto chiedendo il motivo di tanto fracasso (sembrava che una decina di tori infuriati stesse correndo su per le scale) quando la porta della sua stanza si spalancò di botto e i suoi due rumorosi fratellini piombarono dentro.
«Ehi, ma che modi sono questi? Che succede?» chiede stupita, frizionandosi i capelli bagnati con un asciugamano. «Sapete che per essere due bambini di dieci anni avete dei polmoni impressionanti?»
Fu subito sommersa da una marea di grida e frasi sconclusionate, mentre i gemelli le saltellavano intorno e cercavano di tirarla verso la porta.
«Vic, è arrivata…»
«… proprio adesso! Devi scendere, subito…»
«… è arrivata, sul serio!»
«E’ arrivata che cosa?» sbottò la ragazza, decisamente confusa.
«La lettera dalla Francia!» strillarono in coro Dominique e Louis.
Victoire sbiancò e per un istante li guardò ammutolita. «Cosa… è arrivata? Di già?».
Lanciò in aria l’asciugamani e si precipitò al piano di sotto con i gemelli alle calcagna. Bill e Fleur erano ancora seduti in cucina e fissavano la busta come se fosse stata una Caccabomba pronta a esplodere da un momento all’altro. Vic si fermò con una frenata appena prima di schiantarsi contro la credenza. «E’ arrivata?» ripetè, ansimando. «E’ questa?»
«Sì, tesoro» esclamò Bill. «Aprila, coraggio!»
Lei guardò la busta, ma sembrava che non avesse il coraggio di toccarla. In quell’istante i gemelli le arrivarono addosso da dietro a tutta velocità e la spinsero in avanti di qualche passo.
«Su, aprila, aprila!» strillò Dominique, saltellando tutta eccitata.
«D’accordo, d’accordo» mormorò Victoire, tesa. Allungò la mano, afferrò la busta e l’aprì. Mentre svolgeva il foglio di pergamena elegantemente piegato in tre parti (e ci mise un bel po’ di tempo per via delle mani che le tremavano), aveva la sensazione che i genitori e i fratellini fossero stati pietrificati, neanche avessero appena visto un Basilisco, gli occhi fissi sulla lettera. Prese un bel respiro, lesse le prime righe in silenzio; non ebbe alcuna reazione.
«Alors?» chiese Fleur con voce ansiosa.
Victoire li guardò e non potè più trattenere il sorriso. «Mi hanno presa» disse tranquillamente. Poi fece un saltello sul posto e strillò. «Mi hanno presa!»
In un lampo la cucina si riempì di grida, schiamazzi ed esclamazioni di felicità. Vic passò tra le braccia di tutta la famiglia e ci vollero parecchi minuti prima che recuperassero la calma, Fleur la smettesse di correre a stringere sua figlia di continuo, i gemelli la smettessero di saltare sul divano, e potessero sedersi di nuovo per continuare la colazione.
«Grande notizia!» esclamò Bill, e si allungò per accarezzare Louis sulla testa e scompigliargli i capelli. «Non potevano che scegliere te!»
Così eccitata che le sembrava di non riuscire a stare seduta e a smettere di sorridere, sentendosi come minimo dieci centimetri più alta del solito, Victoire infilò in bocca con entusiasmo una forchettata di macedonia; all’improvviso provava una gran fame, anche se la mattina in genere mangiava pochissimo.
«Teddì sarà tonto felisce di saperlo» intervenne Fleur agitando la bacchetta verso i piatti sporchi, che si impilarono da soli uno sull’altro e volarono nel lavandino. «Volio proprio vedere che fascia farà! Dominique, via i gomiti dal tovolo»
Victoire sentì il proprio smagliante sorriso congelarsi di colpo, e la felicità, l’orgoglio, l’entusiamo sgonfiarsi come un palloncino. Teddy… non ci aveva ancora pensato. Si sentì subito in colpa: lui era sempre il primo a cui pensava quando le succedeva qualcosa, bella o brutta che fosse, fin da bambina; quella volta invece lo aveva inconsciamente messo da parte. E forse sapeva anche il perché.

****

Casa Tonks, Tinworth, Cornovaglia.
27 luglio 2018.
Ore 14:00.

Ted Remus Lupin non aveva mai amato troppo Materializzarsi e Smaterializzarsi. Al contrario della maggior parte dei ragazzi della sua età, che gioivano all’idea di poter sparire e riapparire ovunque a loro piacimento, mal sopportava la sensazione di essere ficcato a forza dentro un tubo di gomma, l’oppressione che gli schiacciava il petto e la testa e quasi gli impediva di respirare e di ragionare: chissà come mai, collegava quelle sensazioni a una serie di spiacevoli ricordi d’infanzia che non sapeva definire bene, e a dirla tutta nemmeno ci teneva a definirli.
Ma Ted Remus Lupin era anche una persona molto pratica, oltre che estremamente sensibile, e per niente al mondo avrebbe rinunciato ai vantaggi della Materializzazione: tanto per cominciare, gli consentiva di arrivare a casa - presso Tinworth, in Cornovaglia - con un vassoio di deliziosi pasticcini freschi come se non fossero stati appena acquistati a Londra, in Berkeley Street, ma da un fornaio dietro casa. Aprì il basso cancello in legno dipinto di verde e percorse il viale lastricato osservando con affetto la bassa villetta bianca con le finestre anch’esse dipinte di verde e il tetto fatto di vecchie tegole. Entrò, e nell’ingresso posò un momento la confezione di dolci su un tavolino per sfilarsi il giubbotto e attaccarlo all’appendiabiti. Dall’interno della casa provenivano un rumore di stoviglie e un delizioso profumo di carne arrosto.
«Teddy, sei tu?» chiamò una voce femminile.
Il ragazzo percorse un corridoio ed entrò nella cucina. Andromeda Tonks era di spalle, davanti ai fornelli, e armeggiava con una grossa teglia. Teddy la raggiunse e le scoccò un bacio sulla guancia. «Ciao, nonna. Sorpresa» disse, e le porse il pacchetto con un sorriso.
La signora Tonks osservò per un attimo la confezione con aria severa, i lineamenti un po’ contratti, poi il suo volto si aprì in un sorriso incredibilmente dolce e molto intelligente. «I miei preferiti, eh?». Prese la scatola e guardò di sbieco suo nipote. «Grazie, caro, ma… vuoi forse corrompermi e non farmi notare che hai tardato anche oggi?»
Poteva passare per un rimprovero, ma Teddy sapeva bene che a volte sua nonna si divertiva a fingere di essere arrabbiata, e che dietro quell’apparente durezza nascondeva un cuore tenero come burro. «Scott ci ha trattenuti mezz’ora in più per esercitarci con i patroni: voleva essere sicuro che tutti avessimo afferrato l’essenza dell’incantesimo».
Andromeda lo fissò senza parlare, poi corrugò la fronte. «Ancora Scott? Quell’uomo vi dà il tormento».
Teddy sorrise, prendendo una mela dal cestino della frutta e cominciando a giocarci. «Zio Harry dice che è uno dei migliori Addestratori¹ mai passati per l’Accademia».
«Sarà, ma sembra che si aspetti che diventiate tutti Auror dopo solo due anni di studio».
«Magari fossi già un Auror» borbottò Teddy.
«L’Addestratore Scott ne sarebbe entusiasta, vero?» fece la signora Tonks con un’occhiata divertita. Suo nipote ridacchiò e non aggiunse altro. «Su, a tavola. E’ pronto, e io ho già aspettato fin troppo».
Mezz’ora dopo avevano terminato di pranzare, Teddy si era cambiato ed era uscito di casa diretto verso Villa Conchiglia. Non aveva messo le scarpe, aveva arrotolato un po’ i jeans e si divertiva a camminare sulla riva, i piedi immersi nell’acqua.
Quando giunse in vista di Villa Conchiglia trovò Victoire seduta sul bagnasciuga: era in bikini, seduta su un telo bianco, le braccia tese all’indietro, i capelli di un biondo chiarissimo che le svolazzavano intorno mossi dalla brezza marina, lo sguardo celato da un paio di occhiali da sole fisso su un punto indefinito all’orizzonte.
Teddy non riuscì a non sorridere mentre la osservava. Conoscendo Victoire, di sicuro non aveva idea di essere incredibilmente bella e dannatamente sexy in quel momento. Lei era fatta così: capace di incantarti con i gesti e nei momenti più banali, standosene semplicemente seduta sulla riva, ma incapace di rendersene conto; raccoglieva complimenti e sguardi ammirati ovunque andasse, ma sembrava non accorgersi di quanto fosse grande il fascino che esercitava sugli altri, e la sua ingenuità non faceva che renderla ancora più accattivante. Per Teddy era una vera fortuna che Vic fosse praticamente indifferente all’ammirazione dell’altro sesso, o la continua lotta con la concorrenza lo avrebbe di sicuro sfinito.
«Scusa il ritardo!» esclamò quando fu abbastanza vicino da farsi sentire.
Lei si girò, lo vide e si sfilò subito gli occhiali da sole, sorridendo. «Scott?» domandò con l’aria di chi conosce già la risposta.
«E l’Incanto Patronus» aggiunse Teddy. Sedette sulla sabbia accanto a lei e si chinò per baciarla dolcemente.
«Ma i corsi sono finiti, ormai. E il tuo patronus è perfetto» protestò la ragazza quando si separarono. «Lo spiego io a quello lì se non ci arriva».
Teddy le accarezzò piano una guancia, un lampo di malizia negli occhi scuri. «Non pensi di essere un po’ troppo di parte?»
«Certo che no».
Quasi per sfidarla a contraddirsi, Teddy le prese il volto tra le mani e la baciò ancora, più lentamente, questa volta. Rimasero con le labbra incollate finchè non ebbero esaurito la riserva d’aria, poi Victoire si tirò indietro con aria beata. «Okay, forse un pochino» esclamò, e scoppiò a ridere.
Gettò indietro la testa, e Teddy osservò incantato i riflessi del sole tra quei capelli d’oro. Nel suo sorriso c’era qualcosa di diverso, quel giorno, ne era certo: era più luminoso. «Ci sono novità?»
Victoire lo guardò. «Perché me lo chiedi?». Si sistemò una ciocca dietro l’orecchio, sembrando un po’ a disagio.
«Non so… Mi sembri più allegra del solito».
L’espressione di Vic divenne irresistibilmente compiaciuta. «Be’, in effetti ho una notizia».
«Ah sì? Spara». Teddy la osservò mentre lei faceva un respiro profondo, e gli parve di scorgere un velo di ansia in fondo ai suoi occhi color lapislazzuli.
«Ricordi che la scorsa primavera mi sono messa in lista per quello stage organizzato dal Ministero francese? Ecco… stamattina è arrivata la risposta: mi hanno presa. Vado a Parigi».
La voce, il volto, lo sguardo di Victoire erano uno strano miscuglio di gioia e incertezza. A Teddy parve che quelle stesse sensazioni si riversassero dentro di lui, le sentì sbocciare sul proprio volto: uno slancio di emozione, ma stemperato da qualcos’altro. La fissò per un istante. «Parigi?» sussurrò. Vic annuì, e davanti a quel meraviglioso sorriso non riuscì a trattenersi dal ricambiarlo. «Parigi» ripetè. D’istinto la prese tra le braccia e la strinse a sé. «Vic, è fantastico. Fantastico. Sono felice per te».
La ragazza gli passò una mano tra i capelli con dolcezza. «Sul serio?» chiese, titubante.
«Certo. Era quello che volevi, giusto?»
«Sì, io… lo volevo veramente tanto» mormorò Victoire. La sentì emettere un piccolo sospiro e rilassarsi contro di lui. «Mamma e papà sono felicissimi… i gemelli hanno fatto tanto di quel chiasso da farsi sentire fino a Tinworth, ne sono sicura! Mi meraviglio che tua nonna non sia venuta a vedere cos’era successo! Avresti dovuto esserci, è stata una scena allucinante».
«Immagino» commentò Teddy sottovoce. Premette il viso sulla spalla nuda e morbida di lei e ne aspirò il profumo di salsedine. «Sapevo che ti avrebbero presa, sei stata la studentessa migliore del tuo anno».
Rimasero in silenzio per qualche secondo. «Teddy» lo chiamò Victoire all’improvviso con voce bassa.
«Mm?»
«Davvero sei felice?»
«Sì» ripose il giovane, ed era la verità: amava quella ragazza, la sua gioia non poteva che essere anche la sua. Ma allo stesso tempo sentiva qualcosa farsi strada dentro di sé, qualcosa di strisciante e sgradevole, qualcosa di orrendamente familiare: la paura. Quella paura. Respirò profondamente, cercando di reprimerla. «Perché me lo chiedi?»
«Niente, è solo che… mi sembri un po’…» balbettò Vic, esitante. Tacque per un attimo. «Teddy, non cambierà niente, te lo giuro».
Lui sciolse l’abbraccio che li legava e la guardò. «Non capisco».
«So a cosa stai pensando perché ci ho pensato anch’io, ma non voglio che tu ti preoccupi da questo punto di vista. Non voglio che pensi che dovremo cambiare qualcosa».
Teddy spostò lo sguardo verso il mare, luccicante sotto il sole come se tantissimi piccoli diamanti galleggiassero in superficie. «Questo è impossibile» disse con voce bassa e tranquilla; suonò più amara di quanto avrebbe voluto.
«Perché?» chiese Victoire con cautela, ancora vagamente preoccupata.
«Ti trasferisci in un altro paese per un anno, certo che dovremo cambiare qualcosa. Ma non è un problema». Il giovane le sorrise, cercando di rassicurarla.
«Be’, non potremo vederci tutti i giorni, forse, ma tornerò sempre a casa per le feste… Sono sicura che al Ministero non faranno problemi a crearmi una Passaporta quando ne avrò bisogno… E possiamo sempre Materializzarci e Smaterializzarci, anche se non ti piace tanto».
Teddy sospirò pesantemente e non riuscì a trattenere un moto di fastidio. «Vic, perché stai parlando di queste cose, adesso? Non saremo né i primi né gli ultimi ad affrontare una situazione del genere, giusto? Ce la caveremo, vedrai». Le prese una mano e la strinse nella sua. Si rendeva conto che forse non voleva solo rassicurare lei ma anche sé stesso; e si rendeva conto che la cosa era palese per entrambi. Fin troppo palese.
Ci fu una breve pausa. «Quindi non sei preoccupato?» riprese Victoire.
Teddy percepì un lieve scetticismo. «No» rispose e si augurò di sembrare convincente.
«Nemmeno un po’?»
«Vic, ti dico di no».
«Non ci sarebbe niente di male se lo fossi. Le debolezze sono umane, e tu non sei più debole degli altri solo perché…». Victoire aveva parlato di getto, senza riflettere, ma poi sentì la mano di Teddy irrigidirsi di colpo mentre ancora stringeva la sua; non terminò la frase,e abbassò la testa, dispiaciuta. «Scusami» mormorò.
«Perché mi chiedi scusa?» domandò Teddy con tono piatto. Sentì la cosa dentro di lui artigliargli la gola e deglutì per scacciare quella spiacevole sensazione; non ebbe molto successo. Non ne aveva mai avuto, d’altronde, nel fronteggiare quella paura: non era mai riuscito a vincerla davvero, ma solo a sopportarla finchè qualcosa o qualcuno non arrivava a dargli una mano; e una piccola parte di sé sapeva che sarebbe stato così per sempre.
«Non volevo ferirti».
Il ragazzo strinse la mano intorno a quella di Vic con più forza per farle capire che non ce l’aveva con lei. Ce l’aveva con sé stesso, forse. E con quella dannata cosa che gli serrava la gola. «Non l’hai fatto, Vic, tranquilla. Però non roviniamo questo bel momento mettendoci a discutere».
«Io… non volevo discutere, è solo che… Per me questo stage è importante, è vero, ma lo sei anche tu, e volevo che ne parlassimo insieme prima di…». Ancora una volta, Victoire non finì la frase e tacque con l’aria di chi non sa come continuare.
Teddy si voltò a fissarla di scatto, la fronte contratta. «Prima di decidere?» terminò al posto suo. Lei non rispose, e Teddy prese quel silenzio come una conferma. Per un istante ammutolì, incredulo. «Stai scherzando… pensavi che io ti chiedessi di rinunciare?»
«No, ma…»
«Perché mai dovrei chiedertelo? So quanto lo desideravi» insistè il ragazzo, lasciandole la mano.
«Teddy, non intendevo dire questo!» esclamò Victoire, agitata.
«E cosa, allora?»
«Che se tu avessi avuto… qualche obiezione da fare io ti avrei ascoltato e poi avremmo trovato insieme la soluzione!»
«Be’, io non ho obiezioni, ok?» sbottò Teddy, e un istante dopo si maledisse per essere stato così brusco, ma quella conversazione aveva preso una piega che lo innervosiva parecchio. Cercò nuovamente di deglutire per scacciare la stretta alla gola. Andiamo, non sei più un bambino di sei anni. Resisti. Controllati.
«Ok, ok» ripose Vic precipitosamente, preoccupata dal tono del suo ragazzo. Puntò lo sguardo davanti a sé, e per un po’ sembrò che volesse cominciare una nuova conversazione che non includesse nella maniera più assoluta le parole stage, Ministero francese e Parigi, ma evidentemente non trovò nulla da dire perché scese un imbarazzante silenzio. Evitavano persino di guardarsi. Non c’era niente che loro due detestassero come litigare, anche se a malapena succedeva un paio di volte in un anno, e più che litigi si trattava di scambi di opinione appena un po’ più animati del solito. Probabilmente detenevano il primato per il minor numero di litigi di coppia della storia.
A un certo punto, tuttavia, Teddy non ce la fece più. Si chiarì la voce. «Devo andare».
Victoire lo guardò. «Così presto?»
«Ho promesso a zia Ginny che nel pomeriggio sarei passato alla Tana per dare una mano per la festa».
Lei annuì. «Va bene» mormorò.
Mancavano solo tre giorni al 31 luglio e i preparativi per i festeggiamenti stavano per entrare nella fase più frenetica: in quanto compleanno dello zio Harry, era un evento che coinvolgeva tutta la famiglia; in quanto compleanno del Salvatore, era un evento che coinvolgeva tutto il mondo magico, con gran disappunto del Salvatore stesso, che da trent’anni tentava di passare inosservato senza riuscirci, e il suo compleanno era una delle occasioni in cui ci riusciva di meno.
«Vieni anche tu?» propose Teddy con tono leggero.
«Non posso, vado con i miei a fare un po’ di acquisti a Diagon Alley» rispose Vic. Sembrava un po’ incerta. «Ti va di unirti a noi quando avrai finito alla Tana?»
«Non credo che finirò tanto presto, ci sono ancora un sacco di cose da fare». In realtà Teddy non sapeva con esattezza a che punto fossero i preparativi, ma sapeva che non gli andava di fare spese con Vic e la sua famiglia, sapeva di sentirsi confuso e che forse un po’ di solitudine lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee.
La ragazza dovette intuirlo perché non insistè. «Oh. Capisco. Allora…».
«Allora… ehm, noi due ci… vediamo presto?» balbettò Teddy.
«Sì. Appena possibile». Victoire lo guardava con occhi ansiosi, poi lentamente gli rivolse un piccolo sorriso. «Ciao, Teddy».
Lui si chinò per baciarla velocemente sulla bocca. «Ciao, Vic» sussurrò.
Si alzò, spazzò via un po’ di sabbia dai jeans e si incamminò lungo la riva, sentendosi gli occhi di lei che lo seguivano e chiedendosi se fosse arrabbiata visto che aveva praticamente rovinato un giorno così speciale. Be’, aveva provato a fingere che tutto andasse bene, a fingere di essere felice per lei e basta, a fingere di non sentire nulla in fondo allo stomaco, ma non era mai stato bravo a dire bugie e a nascondere i propri sentimenti. Tendeva per carattere a chiudersi in sé stesso, a non raccontare in giro cosa provava, soprattutto quando era triste, ma sapeva che qualunque cosa gli passasse per la testa la portava scritta in faccia.
Forse avrebbe dovuto parlare ancora con Victoire, spiegarsi, farle capire cosa aveva provato nell’apprendere che se ne sarebbe andata… Combattuto tra il bisogno di stare da solo e il desiderio di averla accanto, si voltò d’impulso a guardarla, ma non la vide seduta a riva, dove l’aveva lasciata. Non c’era nessuno, solo il telo bianco abbandonato sulla sabbia insieme agli occhiali da sole. Il suo cuore fece un balzo e sentì un’altra ondata di gelido e irrazionale panico investirlo in pieno. Poi Vic ricomparve: all’improvviso emerse dalle onde cristalline del mare, inspirando una boccata d’aria mentre con le mani si scostava i capelli bagnati dal viso e li portava dietro la testa con gesto delicato ed elegante. Teddy provò un istantaneo sollievo e per qualche secondo rimase ad osservarla, affascinato. Vic mosse qualche passo lento nell’acqua, poi prese lo slancio e si tuffò di nuovo sollevando spruzzi dappertutto.
Teddy si riscosse e quasi rise di sé stesso, passandosi una mano sulla faccia. Perderai la testa, prima o poi, Ted Lupin, si disse. Si voltò e riprese a camminare, accigliato, le mani sprofondate nelle tasche. Quando arrivò a casa trovò la signora Tonks seduta in veranda, immersa nella lettura del Settimanale delle Streghe, probabilmente a caccia di nuove ricette da provare.
«Ciao, nonna» la salutò con voce cupa salendo le scale della veranda.
La signora smise di leggere, lo guardò, esaminò la sua espressione tirata e spalancò la bocca. «Santo cielo» sbottò. «Che ti è successo, ragazzo?»
«Niente» borbottò Teddy. Sapeva di avere scarsissime possibilità di farla franca con sua nonna, ma tanto valeva provarci.
«Ma ti sei visto in faccia?» proseguì Andromeda, imperterrita.
Appunto. Teddy si toccò una guancia, allarmato. «Perché, cos’ha la mia faccia?»
«Sembra che ti abbia investito in pieno il Nottetempo».
Il giovane fece una specie di smorfia che poteva passare per un sorriso e sospirò. «Ah, sì? Ehm… più o meno è quello che è successo».

In bilico
tra santi e falsi dei
sorretto da
un’insensata voglia
di equilibrio
e resto qui
sul filo di un rasoio
ad asciugar
parole
che oggi ho steso
e mai dirò.
Estate, Negramaro²

****

Londra, Ministero della Magia, Quartier Generale degli Auror.
31 luglio 2018.
Ore 15:30.

Teddy se ne stava appoggiato alla scrivania di un cubicolo a lui ben noto, forse il più disordinato dell’intero Quartier Generale. Sulla scrivania, così ingombra di oggetti che a stento si riusciva a individuarla, stazionavano tre fotografie: una raffigurava un folto gruppo di persone dai capelli rossi intente a ridere e a salutare, un’altra una giovane coppia abbracciata e l’ultima due bambini, un maschio e una femmina, che si accapigliavano allegramente. Molte altre fotografie simili erano attaccate sui muri, tra frammenti di giornali, due poster dei Cannoni di Chudley, figurine delle Cioccorane e pergamene sbiadite dal tempo; tra le foto appese spiccava quella di un terzetto di ragazzi a braccetto, sullo sfondo un castello parzialmente in rovina.
Il ragazzo ammazzava il tempo lanciando e riacciuffando al volo un Frisbee Zannuto color verde acido, e sembrava profondamente annoiato. A un tratto sentì un rumore di passi, sollevò la testa e vide il padrino camminare lungo il corridoio tra i pannelli divisori, la bacchetta infilata dietro l’orecchio, una grossa scatola piena di scartoffie tra le braccia e l’aria affaticata. Quando fu abbastanza vicino Harry lo notò e gli rivolse un gran sorriso.
«Teddy, ciao!»
«Ciao, Harry» rispose, raddrizzandosi e accennando anch’egli un sorriso.
«Tutto bene? Che fai qui? Pensavo fossi alla Tana».
«Sono stato mandato con il compito di trattenerti in ufficio almeno fino alle cinque» spiegò Teddy, divertito.
«Trattenermi? E perché?»
«Non vorrai arrivare alla tua festa di compleanno prima che sia tutto pronto, giusto?»
Harry sembrava sbalordito. «Ma sono stato alla Tana stamattina ed era tutto sistemato, cosa…». S’interruppe e sul suo volto comparve un’espressione strana. «No, non me lo dire: James ha rovesciato di nuovo la torta».
Teddy ridacchiò. «Con la collaborazione di Fred» aggiunse.
Il padrino alzò gli occhi al cielo, a metà fra la disperazione e la rassegnazione. «Merlino, quei due sono l’equivalente di un terremoto, un maremoto e un uragano tutti insieme» sbottò. «Giuro che non so più che fare per tenerlo a bada, è peggio di un folletto della Cornovaglia! Non ti ho detto che l’altro giorno ha svegliato sua sorella con un… va be’». Gli sfuggì un sospiro e si affacciò nel cubicolo. «Hai visto Ron?»
«No, e non credo che potrà tornare al lavoro, oggi: zia Ginny lo ha mandato a comprare l’occorrente per un’altra torta. Ah, e gli ha detto di portarsi dietro James, altrimenti lei non sarebbe stata responsabile delle sue azioni».
«Fantastico» rispose Harry con tono funereo. «Ho solo cinque Auror che non siano ancora andati in ferie, e uno è bloccato a casa dalle intemperanze di mio figlio». Sbuffò e si risistemò la scatola tra le braccia. «Andiamo nel mio studio, vieni. Se proprio ci tocca passare il pomeriggio qui, almeno mettiamoci comodi».
Teddy afferrò il Frisbee che stava per schizzare contro il pannello divisorio di fronte per l’ennesima volta e seguì il padrino fuori. Harry raggiunse una porta nera alla fine del corridoio, sulla quale una targa recitava “Capo dell’Ufficio Auror”, appoggiò un momento la scatola su un ginocchio per prendere la bacchetta e colpire una volta la maniglia; la porta si spalancò su una stanza di medie dimensioni, anche se il caos che vi regnava contribuiva a farla sembrare più piccola di quanto in realtà non fosse; alle spalle della scrivania stracarica una finestra mostrava il cielo di un azzurro sporco. Mentre Teddy richiudeva la porta, Harry posò la scatola su una sedia girevole dietro la scrivania, ne trasse fuori un fascicolo di documenti e vi gettò un’occhiata distratta.
«Allora, come sono andati gli ultimi giorni di corsi?»
Teddy scrollò le spalle. «Non male».
«Scott vi ha dato un po’ di tregua?»
«No, per niente: ha detto che a settembre ci scaglierà addosso delle maledizioni senza preavviso per verificare se ci siamo esercitati durante le vacanze».
Harry rise di cuore. «Davvero? Accidenti, se non avessi la certezza che sa quello che fa direi che sta esagerando… Ma tu non hai niente di cui preoccuparti, schivi maledizioni meglio di un Auror diplomato; tu sei fatto per questo mestiere».
Teddy non commentò, impegnato a giocherellare con il Frisbee che stringeva in mano. Harry lo fissò con espressione un po’ confusa. Lanciò il fascicolo di nuovo nella scatola. «Di questa roba posso anche occuparmi domani. Forza, parliamo un po’». Con la mano tolse di mezzo un mucchio di buste da lettera chiuse, una grossa confezione di Gelatine Tuttigusti+1 e qualche pergamena accartocciata e sedette sulla scrivania. Il ragazzo esitò un attimo, poi lo raggiunse. «Allora…» cominciò Harry «va tutto bene?»
«Certo» rispose Teddy meccanicamente, ostentando la massima tranquillità. Erano tre giorni che si sentiva rivolgere quella stessa domanda da chiunque gli capitasse a tiro, e ormai credeva di essere sufficientemente allenato da non destare sospetti.
Harry annuì lentamente. «D’accordo. Cos’è questa faccia da funerale, allora?»
Teddy si preparò a resistere. Non avrebbe ceduto così presto: far finta di niente era la sua parola d’ordine. «Be’, oggi è una brutta giornata…»
«Veramente anche ieri era così; e l’altro ieri…» lo interruppe il padrino. Il giovane non seppe cosa rispondere e rimase zitto con un’espressione abbattuta che annullava qualunque suo precedente tentativo di sembrare normale. Harry riprese a parlare lentamente. «Teddy, non devi tenerti tutto dentro: è sbagliato e non ti fa bene, lo sai. Con me puoi parlare. Non c’è niente di male ad ammettere con le persone che ti vogliono bene di avere un problema».
«Lo so» rispose Teddy bruscamente.
«Allora ti va di dirmi cosa c’è?»
Il ragazzo si limitò a guardarlo, incerto. Tre giorni di forzata solitudine, malumore e pensieri poco allegri non erano stati di grande utilità… Forse parlare non era una cattiva idea.
Tentar non nuoce.
«Ehm… si tratta di Vic» balbettò, arrossendo un poco. Raccontò al padrino cos’era successo, senza soffermarsi troppo sui dettagli; d’altra parte Harry già sapeva che Victoire sarebbe andata a Parigi, Fleur era così entusiasta che la notizia era circolata con rapidità sorprendente anche per gli standard della famiglia Weasley-Potter. «… e poi sono andato via. Ci siamo lasciati così, insomma, e non ci siamo più visti né sentiti». Fece una breve pausa, durante la quale anche Harry assunse un’espressione sconvolta: tre giorni di silenzio erano un autentico record per lui e Vic.
«Capisco» fece Harry lentamente. «Ma non avete litigato, giusto?»
«No… abbiamo discusso, ecco».
«Perché non l’hai cercata, dopo? Mi sembra assurdo tu e Vic che vi tenete il broncio».
Teddy teneva gli occhi bassi. «Non sto tenendo il broncio, io… non credo che abbia voglia di parlare con me, adesso».
«Perché no?»
Il ragazzo gli lanciò un’occhiata sorpresa. «Era un giorno speciale per lei ed io l’ho rovinato».
Harry accennò un sorriso comprensivo. «Non l’hai rovinato, ne sono sicuro. Anzi, credo che tu abbia sbagliato ad andare via: dovevi restare e dirle quello che provi».
«Ma come facevo a dirle…» Teddy tacque all’improvviso e parve spaventato dal pensiero che stava per formulare.
Harry esitò un minuto, incerto; non voleva ferire il figlioccio, ma il silenzio sarebbe stato molto peggio. «Teddy, Teddy…» fece un sospiro pesante e si aggiustò gli occhiali sul naso, poi incrociò le braccia. «Ricordi che da bambino avevi paura del buio e quando tua nonna spegneva la luce per farti dormire la riaccendevi da solo, con la magia? Non volevi che lei lo scoprisse, ma tutte le mattine ti trovava addormentato con la lampada accesa e all’inizio temeva di avere un poltergeist in casa».
«A quanto pare sono rimasto quel bambino, allora» mormorò Teddy.
Harry lo guardò: il suo volto e la sua voce sembravano oppressi dal dolore. Sentì una stretta al cuore. Non sopportava di vedere quell’espressione sul viso di Teddy perché sapeva che era associata a un pensiero ben preciso: i suoi genitori; per lui, invece, significa un fiotto di bruciante senso di colpa. «No, non sei rimasto quel bambino» rispose dolcemente. «Ma ci sono paure, dentro di noi, che non se ne vanno mai, e ci fanno soffrire, a meno che non riusciamo a… essere più forti di loro».
«Vuoi dire che avrò… il terrore di perdere le persone che amo per tutta la vita?» chiese Teddy. Sembrò che parlare gli costasse uno sforzo immenso.
«Ma tu puoi essere più forte, Teddy» ripetè il padrino con convinzione. «Io ho provato la stessa cosa per anni, e la provo ancora». Strinse le labbra, il suo sguardo si perse in un punto impreciso. Teddy era sorpreso di sentire quelle parole: Harry non era mai stato molto incline a condividere con lui i momenti più bui della sua adolescenza, e in particolare le varie perdite che l’avevano segnata. «Perdere qualcuno a cui tieni ti lascia dentro un segno, come un ferita; e anche se con il tempo la ferita guarisce e si rimargina, hai sempre paura che prima o poi si riapra e ricominci a sanguinare. Credo che non mi abbandonerà mai, questa sensazione. E’ normale, ma con il tempo ho imparato ad affrontarla e a gestirla. Ci riuscirai anche tu. E’ solo questione di tempo, e… e poi bisogna volerlo, ovvio».
«Io lo voglio» disse Teddy, confuso.
«Allora dovresti permettere a Vic di aiutarti». Il ragazzo sollevò gli occhi e si accorse che Harry lo guardava sorridendo affettuosamente.
«Ma lo sa» disse. «Lei sa tutto».
Sì, Vic sapeva tutto di lui, pensieri, paure, ossessioni, incubi, desideri, e non certo perché Teddy fosse molto incline a roccantare tutto di sé, anzi; ma lo conosceva da una vita e lo amava da impazzire: impossibile pensare di nasconderle qualcosa. Anche mentre parlavano sulla spiaggia aveva colto la comprensione nel suo sguardo… Ecco perché aveva sentito improvvisamente il bisogno di allontanarsi da lei e di stare un po’ da solo, perché non ne poteva più di suscitare la compassione altrui, nemmeno e soprattutto quella della donna che amava. Probabilmente neanche le persone che lo avevano cresciuto, sua nonna e zio Harry, potevano dire di conoscerlo così bene. Ma Teddy non si apriva mai troppo con gli altri, nemmeno con Vic; amava condividere la gioia, la tristezza preferiva tenerla per sé.
«Certo» assentì Harry. «Questa non è una buona scusa per non dover dire ad alta voce quello che ti spaventa, però».
Teddy riflettè in silenzio per qualche secondo. Prima che uno di loro potesse aggiungere altro, il Frisbee Zannuto sfuggì dalla presa del ragazzo, schizzò roteando attraverso la stanza, si scontrò con la parete e cominciò a sbriciolare un vecchio articolo di giornale attaccato con il Magiscotch; Harry corse ad acciuffare il Frisbee, lo strappò dalla parete e con qualche difficoltà riuscì a ficcarlo in un cassetto.
«Mi dispiace» esclamò Teddy mortificato. Puntò la bacchetta contro l’articolo ridotto a brandelli, ma Harry lo fermò.
«No, non preoccuparti, non ne vale la pena… era vecchio di dieci anni, più o meno. Che ci facevi con quel coso, comunque? Non è da te giocare con un Frisbee Zannuto nel mezzo del Quartier Generale».
«Era sulla scrivania di zio Ron» rispose il ragazzo con un sorrisetto.
Harry parve imbarazzato. «Ah, sì. Ora ricordo che ne aveva sequestrato uno a un allievo qualche settimana fa, in effetti, e poi…» fece un sospiro e lanciò un’occhiata al figlioccio. «Non fartelo scappare, ok? Soprattutto con Hermione: ce l’ha ancora con Ron per quella storia del fuoco d’artificio che ha incendiato il divano».

In bilico
tra tutti i miei vorrei
non sento più
quell’insensata voglia
di equilibrio
che mi lascia qui
sul filo di un rasoio
a disegnar
capriole
che a mezz’aria
mai farò.

****

Casa Tonks, Tinworth.
31 luglio 2018.
Ore 19:30.

«Teddy, faremo tardi se non ci muoviamo».
Andromeda Tonks irruppe nella stanza di suo nipote con un cesto pieno di biancheria pulita.
«Ma è presto, nonna» protestò Teddy; era in piedi davanti allo specchio, impegnato a raccogliere le idee per decidere cosa dire a Victoire, e come dirglielo.
Andromeda posò il cesto sul letto, colpì con la bacchetta una pila di panni piegati e quelli si sollevarono per andare a infilarsi ordinatamente in un cassetto e nell’armadio. «Be’, se hai in programma di fare qualcosa prima della festa sarebbe meglio se ti sbrigassi».
Il ragazzo la guardò a bocca aperta. Non era affatto la prima volta che sua nonna gli dava l’impressione di sapergli leggere nel pensiero senza saper praticare la Legilimanzia… O forse aveva semplicemente associato la sua aria depressa e scontrosa al fatto che da tre giorni Vic non si faceva vedere a casa loro e lui si teneva alla larga da Villa Conchiglia. A ogni buon conto, meglio informarsi. «Hai parlato con Harry, oggi?» sbottò.
«Harry? Non lo vedo da giorni» rispose la signora distrattamente. Riprese il cesto tra le braccia e uscì in fretta. Teddy la seguì con lo sguardo, meditabondo. In effetti aveva proprio pensato di fare un salto a Villa Conchiglia prima di andare alla Tana: sapeva per esperienza personale che le feste del clan Potter-Weasley erano così affollate, rumorose e incasinate da non permettere lo svolgersi di una conversazione normale, e preferiva chiarire con la sua ragazza prima di trovarsi a tiro delle prese in giro dei cuginetti e delle occhiate inquisitorie delle zie.
Contrasse un momento la fronte, come se avesse avuto mal di testa, e i suoi capelli passarono dal viola scuro che aveva sperimentato poco prima a un morbido castano, il colore che preferiva portare nei momenti neutri. Uscì dalla camera e si affacciò in quella accanto, dove la signora Tonks era ancora impegnata con il bucato.
«Nonna, vado a Villa Conchiglia. Ti raggiungo più tardi alla Tana».
Andromeda gli rivolse un sorriso furbo. «Era ora» esclamò.
Teddy ridacchiò. «Lo so. A dopo».
Prima di uscire si liberò di calze e scarpe e si incamminò con i piedi nell’acqua, come al solito. Era circa a metà strada, perso nei propri pensieri, quando colse in lontananza un baluginio di capelli biondi; con un tuffo al cuore capì che una ragazza alta e snella veniva verso di lui, indosso un abito bianco che svolazzava mosso dal vento. Non sembrava che Victoire lo avesse visto, anch’ella immersa nelle proprie riflessioni. Teddy si fermò, incredulo. Non è possibile, si disse. Per ragioni a lui sconosciute, all’improvviso sentiva una gran voglia di ridere.
Finalmente Vic sollevò lo sguardo, si accorse di lui e un sorriso ampio, spontaneo, divertito, si disegnò sul suo volto. Smise di camminare e rimasero entrambi a fissarsi, immobili e sorridenti, per lunghi secondi. Poi Teddy ripartì, più in fretta, questa volta, e la ragazza lo imitò; quando si incontrarono, la prese per le spalle, attirandola a sé, e la baciò. Le loro labbra si toccarono solo per qualche istante, ma a Teddy parve che gli si schiarisse la mente: fu come se un vento delicato ma deciso spazzasse via le nubi che avevano offuscato i suoi pensieri. Appoggiò la fronte contro quella di Vic e sospirò profondamente.
«Scusa» mormorò.
Lei gli passò le braccia intorno al torace. «Ti scusi per questo? Sei pazzo? A me non è dispiaciuto per niente».
Teddy rise. «Non per questo, ma… per quello che ho combinato. Io… stavo venendo da te proprio per dirtelo. E per dirti che mi manchi, anche».
«Io stavo venendo a dirti la stessa cosa» rispose Vic, e scoppiò a ridere di fronte alla faccia stupita del suo ragazzo.
«Cioè vuoi dire… vuoi dire che stavamo andando l’uno dall’altra con le stesse intenzioni?» esclamò Teddy.
Victoire scuoteva la testa e i suoi lunghi capelli color oro colato ondeggiarono sulle sue spalle, catturando i riflessi aranciati del sole al tramonto. «Sembra un romanzo rosa della peggior specie… Se James verrà a saperlo ci prenderà in giro fino alla fine dei tempi!»
«Ecco, allora… facciamo in modo che non lo sappia» borbottò il ragazzo, ma non smetteva di sorridere. Fece una pausa, gli occhi fissi in quelli di lei. «Mi dispiace» dichiarò con voce bassa ma decisa. «Mi dispiace di non essere stato felice come avrei dovuto quando mi hai dato la notizia. Io… io non voglio perderti».
Finalmente l’aveva detto! Si sentì all’istante molto più leggero. Vic gli accarezzò il profilo del viso con la punta delle dita.
«Nemmeno io. Ma non succederà, Teddy, non succederà. Devi avere fiducia in noi».
Teddy le prese la mano e gliela strinse forte. «Lo so. Adesso lo so. Anzi, forse l’ho sempre saputo, anche tre giorni fa, ma a volte ho una paura tale che credo possa schiacciarmi, e non riesco più a ragionare con chiarezza, e…»
«Teddy» lo interruppe la ragazza con un sussurro; sembrava triste ma determinata, come se credesse profondamente in ciò che stava per dire. «Niente potrà mai schiacciarti se siamo in due. E noi siamo sempre in due. La lontananza non c’entra niente. Io sono qui» passò la mano sul petto di Teddy all’altezza del cuore, poi vi appoggiò la guancia.
Lui la circondò con le braccia e restarono a lungo immobili, stretti l’uno all’altra, ascoltando il rumore delle onde che giungevano a riva, contro le loro caviglie, e le grida dei gabbiani, assaporando il piacere di ritrovarsi.
Fu Vic a rompere il silenzio. «Sai, in questi giorni… pensavo a noi due, e mi è venuta in mente una cosa».
«Cosa?» domandò Teddy; si sentiva benissimo, sereno e in pace col mondo.
Lei si tirò un po’ indietro per guardarlo. «Mi sono accorta che la nostra storia… ruota da sempre intorno alle estati».
«Sul serio?»
«Il nostro primo bacio, quando eravamo ragazzini… Il giorno in cui ci siamo messi insieme… La prima volta che ci siamo detti “ti amo”… La prima volta che sei venuto in Francia con la mia famiglia… É successo sempre tutto in estate».
Teddy ci pensò su, ricordando quei momenti. «Hai ragione». Fece un sorriso divertito. «A quanto pare la… brezza estiva ha un effetto potente su di noi».
Vic alzò le spalle. «Sì, dev’essere così… E questa volta allora cosa ci porterà, la brezza estiva?»
«Cosa ci porterà? Abbiamo quasi litigato, non ti basta?» esclamò Teddy, ridendo.
«Io intendevo qualcosa di bello. Anche questa estate deve essere speciale».
«Sono d’accordo» rispose il ragazzo. «Hai qualche idea?»
«Non so… però direi che stasera abbiamo tutto il tempo per penserci». Vic si avvicinò di nuovo a lui fino a trovarsi a un centimetro dalla sua bocca. Senza sapere bene il motivo, Teddy si sentì rimescolare dentro. «I miei sono già andati alla Tana con i gemelli».
«Anche mia nonna» rispose lui, e la sua voce suonò stranamente roca. Perché diavolo gli usciva in quel modo? Sembrava che avesse mandato giù un bel bicchierone di Solvente Magico di Nonna Acetonella per Ogni Tipo di Sporcizia.
«Oh» fece Vic per tutta risposta; era arrossita improvvisamente. «Allora… ehm…»
Prima che potesse balbettare qualcos’altro lui le chiuse la bocca con un bacio, e poi… si ritrovarono avvinghiati, così stretti che per riuscire a scollarsi ci avrebbero messo un bel po’; Vic era talmente vicina che Teddy poteva sentire tutto il suo corpo contro il proprio, la sua pelle contro la propria, il suo fiato caldo sul collo, i suoi capelli sul viso, sugli occhi, sulla bocca, dappertutto… Vic era dappertutto… Vic, raggi del sole al tramonto, vento caldo, profumo di mare… non riusciva a pensare ad altro. Caddero rotolando sulla sabbia, ma a un tratto Teddy si disse che uno dei due doveva recuperare un briciolo di controllo; con uno sforzo che gli parve immenso la sua coscienza si fece strada attraverso la marea di sensazioni che lo travolgeva.
«Vic» mormorò «Vic».
La ragazza, stesa sotto di lui, aprì gli occhi, e in fondo a quel blu mozzafiato Teddy scorse il calore di un fuoco bruciante; si rese conto che era vicinissimo a buttare di nuovo all’aria quel granello di padronanza di sé che aveva raccattato da qualche parte.
«Tu vuoi… cioè, sei sicura…»
Una mano di Victoire salì ad accarezzargli i capelli, le dita si intrecciarono a una ciocca delicatamente ma con decisione. Sorrise. «Teddy… è la brezza dell’estate» sussurrò con tono malizioso. «Lasciamola fare».
Teddy stava ancora ridendo quando si chinò di nuovo su di lei per baciarla.

Non senti che
tremo mentre canto
nascondo
questa stupida allegria
quando mi guardi
non senti che
tremo mentre canto
è il segno
di un’estate che
vorrei potesse non finire mai.

Note.

1. Ho immaginato che gli Auror in servizio non possano occuparsi anche dell’addestramento delle nuove reclute, dunque gli allievi sono affidati agli Addestratori, i quali hanno comunque frequentato l’Accademia e poi evidentemente hanno deciso di rimanere a insegnare lì.
2. Ecco il link della canzone, per chi desiderasse ascoltarla: http://www.youtube.com/watch?v=lLVPL5arVSU.

harry potter, fanfiction

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