Titolo: Houses
Titolo capitolo: Luminosità di finestre senza tende
Autore: Io XD
Fandom: Original
Personaggi: Rebecca, Sofia
Rating: PG13
Conteggio Parole: 2048
Genere: Triste, Introspettivo
Avvertimenti: Long-fic
Note: Il secondo capito. Umh. No, ma non sono pigra. Penso solo di essere la persona più pigra dell'universo, tipo. E c'è Sofia, perchè ho aspettato così tanto a farvi vedere Sofia? Seriamente. Bah. Sono una persona incomprensibile.
Il primo capitolo:
http://hohner-07.livejournal.com/10014.html#cutid1 Il treno arriva in stazione con un borbottio cupo di freni e la musichetta allegra dell’altoparlante che annuncia l’arrivo. Non fa parola delle due ore di ritardo.
Rebecca si stiracchia sul sedile, mentre l’anziana signora riprende a lamentarsi dei trasporti urbani senza nemmeno accorgersi che sua nipote è troppo presa dal libro aperto sulle ginocchia per sentirla. Probabilmente non si sta nemmeno lamentando con lei in particolare. Rebecca sorride, ricordando la tranquilla efficienza dei mezzi pubblici di Boston.
La bambina, dopo qualche minuto, alza lo sguardo verso di lei e il suo sorriso è un luccichio di occhi verdi e lentiggini. Prima le ha detto di star leggendo un libro di principesse. È così piccola -avrà circa sette, otto anni eppure sembra esile come un uccellino appena uscito dal guscio. Si chiama Elisa.
L’anziana signora saluta Rebecca con un abbraccio, quando infine si separano sulla banchina. “Non capita spesso si trovare giovani così in gamba, ragazza” esclama, mentre un uomo sorride della sua affabilità, appena un passo dietro di lei. Elisa lo chiama papà, correndogli incontro e saltandogli imbraccio, nell’euforia tipica dei bambini.
Un bel quadretto.
Si allontanano in un fresco turbinio di rumori e, quando non li sente più, Rebecca si sente un po’ più sola.
“Bex”
È un tono gioioso, allegro quello che la fa girare. È una persona allegra quella che le corre incontro, una vecchia maglia bianca sporca di colore e -questo Rebecca sa dirlo solo perché la conosce molto bene- pennelli e tele nella macchina d’epoca fuori stazione.
Si abbracciano senza prestar conto al rumore della valigia che cade sul cemento della stazione, sussurrandosi alle orecchie parole che -pensandoci bene- un senso non ce l’hanno. Ma né Rebecca né Sofia ci pensano e le parole aleggiano colorando l’aria tutto attorno.
“Fatti guardare. Sei così” fa Sofia facendole fare una mezza sfilata improvvisata tra i bagagli delle persone. Ridono entrambe.
“Così come?” chiede Rebecca lisciandosi la maglia che Sofia ha stropicciato. Al gesto l’altra le schiaffeggia la mano ed eccole a ridere di nuovo, perché davvero l’ordine è l’ultima cosa che importa, ora.
“Oh sei dannatamente. Tu, si. Sei la ragazza che se n’è andata. E che è cresciuta. E sei tu” ride e scaccia una lacrima con la mano sporca di tempera rossa. “Mi sei così mancata, Bex”
Rebecca l’abbraccia ancora, d’istinto. Perché neanche Sofia non sembra cambiata, è qui che ride e scherza e parla con la sua bella voce alta senza paura di dire quelle che prova. È cresciuta come doveva crescere e nei suoi occhi azzurri c’è quella luce calda di chi ha realizzato i suoi sogni.
“Anche tu. Ogni giorno. Come le altre, solo che” s’interrompe e non sa come dirlo, conscia del fatto che comunque Sofia sa di Arianna -infatti a differenza di lei era qui e probabilmente ha assistito a tutto; “Ho visto Arianna, sai”
Il sorriso di Sofia trema per un attimo. “Già, lei è. Diversa”
“Non è lei, non è quella che. Non la conosco”
“Nemmeno io, Bex, nemmeno io”
*
La casa di Sofia è come lei l’ha sempre descritta nelle sue mail.
Una piccola villetta sulla riva del lago di Como, un piccolo giardino con una grande quercia, un salice e una staccionata a separarlo dalla spiaggetta. Dentro -se possibile- è ancora più Sofia di quanto sia tollerabile. Si respira lei, lì dentro.
Seduta in una morbida poltrona arancione, le gambe incrociate sotto una coperta di lana e gli occhi chiusi ad assaporare il calore del fuoco del camino, ascolta l’affaccendarsi di Sofia per cercare di mettere in ordine il caos del salotto. Ci sono tempere, e pastelli e matite, disegni, quadri e piccoli schizzi.
Arte.
Ovunque.
Lei vive di questo. Abituata a condividere la casa con un’artista -ed essendolo, in parte, lei stessa-, sa che non c’è possibilità di metter ordine lì in mezzo. E alla fine Sofia se ne accorge e si abbandona sul tappeto davanti al camino, affondando la mano nella ciotola di biscotti assortiti.
“Mi dispiace per il disordine”
Rebecca apre gli occhi e fissa i capelli biondi, i vestiti e la persona che è Sofia. Alza le spalle e guarda fuori dalla grande finestra davanti a loro, quella che dà sul lago. Si direbbe che in questa casa la maggior parte delle pareti sia occupata da finestre, e quella che non lo è -mattoni rossi e vivi che attirano gli sguardi di tanto in tanto- sono tappezzati da qualsiasi cosa sia possibile appendere. Persino un foulard, ammette Sofia indicandolo. “Che poi. È quello di Pierre, capisci? Non potevo non. Rendergli onore è un mio dovere in quanto fan!”
C’è persino un albero, poco dietro di loro. È il suo piccolo angolo zen -per quanto effettivamente non sia ordinato come un angolo zen, ma insomma sono dettagli.
Sofia è rimasta fedele a sé stessa. Porta con orgoglio la sua storia sulla pelle -i tre tatuaggi sono ancora lì, dove li aveva lasciati (la J di Jared, il ragazzo che l’ha abbandonata a sedici anni, sulla spalla; una farfalla rossa fatta per festeggiare la libertà effimera dei diciotto anni dietro la nuca; e un piccolo leone dietro la caviglia, nello stesso punto in cui suo fratello ha i gemelli, per ricordare sempre di avere un posto in cui tornare)- e sfoggia le cicatrici che la vita ha lasciato come gioielli.
Le chiacchiere vengono spontanee. Così Rebecca apprende la storia di Luca, lo scrittore disadattato che ha ospitato lì per mesi, di Marianna, la ragazza-madre scappata di casa e di Gemma, una studentessa che è andata a letto con il padre di Sofia e che lei ha accolto, quando si è ritrovata distrutta dalla fine di quella stupida relazione.
Niente falsi dispiacere per quella situazione che entrambe conoscono bene, dato che le ha tenute alzate notti intere da ragazze -lei, Sofia, Irene e Arianna- a parlarne, per cercare di capire i perché, nascosti dietro il comportamento di quell’uomo. Sofia lo odia e non ne fa mistero (e tra le migliaia di foto delle cartelle del suo mac non ce n’è una che lo ritragga).
Poi è Sofia a pretendere delle storie e Rebecca, cercando di nascondersi dietro una faccia arrabbiata, si ritrova a ripercorrere quegli otto anni da quando è partita, saltellando quello che Sofia sa già perché -oltre ad esserla venuta a trovare, un paio di volte- è sempre stata quella più attenta alla sua vita. Anche se.
Beh, è Irene quella che la capisce con un’occhiata. Però a Sofia è sempre stato permesso scavare più a fondo degli altri.
Parlano ancora una volta male di Cris, perdono un sospiro al ricordo di Bran e alla fine cadono in una morbida discussione fatta di ricordi agrodolci e divertenti che non andranno mai dimenticati. Scavando nella camera da letto (un baldacchino rosa e la luce che entra da tutte le parti, un pavimento di parquet che scricchiola e profumo di fiori pressoché ovunque), Sofia ritrova il vecchio album delle superiori.
E c’è Arianna che ride e spinge Irene nell’acqua. E Jared, una mano attorno al fianco di Sofia e due sorrisi che salutano il flash. Poi facce, e ricordi e momenti tristi. Il trucco sfatto della sera del tradimento, quando tutte si erano strette attorno a Rebecca per non lasciarla cadere. Irene vestita perfettamente, pronta per quel colloquio di lavoro di cui ormai chissà se si ricorderà.
Poi Rebecca piange. Sofia non chiede e l’abbraccia, abbandonando l’album sul materasso morbido.
È tutto perduto, probabilmente. Arianna non c’è più e non sapere il perchè fa male, ed è per questo che è necessario chiedere. Irene è sperduta, alla ricerca della fotografia perfetta e chissà quando tornerà. Loro.
Almeno loro sono qui. A questo pensa Rebecca, asciugandosi le lacrime. Loro ci sono e non se ne andranno.
“Non ci ha mai perdonato il fatto che ti abbiamo permesso di partire, lei. Oh lo sai, pensava che là, sola avresti fatto delle sciocchezze, ma. Dio, sapevo. Era l’unica cosa che potessi fare, lo so. Lei non l’ha capito. Pensava che la morte di Cristina non ti avesse segnata. Credeva che. Non eravamo noi le persone di cui avevi bisogno. Irene gliel’ha detto e Arianna non l’ha accettato. Quando mai accetta le cose, Arianna?”
Sofia scuote la testa e Rebecca abbassa lo sguardo. Ormai Cristina -la sua piccola, fragile sorellina, quella che non era riuscita a salvare, quella per cui si sente terribilmente in colpa- è un qualcosa di accettato e mai superato. In questo senso Boston è stato la salvezza. Non avrebbe potuto farcela restando tra le nebbie fredde di Milano, si sarebbe svegliata ogni mattina ricordando quell’incidente e.
La partenza, l’America, il college. Grazie a Cristina è diventata la donna che è ora e di questo la deve ringraziare, benché non potrà onestamente mia smettere d’incolparsi.
“E poi?” trova la forza di chiedere.
“Poi” Sofia ride. “Lei si è allontanata passo passo. Ha conosciuto Andrea -stupido, idiota bigotto. Lui l’ha come. Spenta, distrutta, disintegrata. E tutto quello che le è rimasto sono. Due piccoli gioiellini, dice. Ambra è splendida, davvero. Non assomiglia al padre per nulla, grazie a Dio e. Ma stavo parlando d’altro. Si è progressivamente staccata da noi e una volta allontanata del tutto, con te in America, Irene è dovuta partire. Non sopportava di avervi perso. Si è sentita in colpa, credo. Parte e torna come vuole, lei. È la stessa ed è una persona completamente diversa, capirai guardandola. Non è male, la nuova Irene, se le si permette di avvicinarsi. Non tutti lo fanno”
Sofia alza le spalle e sorride.
“E tu?”
“Io sono io. Pitturo e pare che tutto ciò piaccia, perché ho esposizioni anche in America. E non far finta di non sapere perché ci hai scritto un articolo. Molto bello, fra l’altro, perfettamente tuo. Ho preso questa casa, qui, e lei è”
“Lei sei tu, Sofia. Ogni cosa. Dalle piastrelle del piano di sotto, al camino e alle finestre di questa stanza. Tu”
“E non hai visto la cucina” strizza l’occhio. Il passo alla risata da lì è facile, lo compiono senza problemi.
Per un po’ restano zitte, il cinguettio degli uccelli entra da una delle finestre aperte e gli ultimi raggi del tramonto accarezzano entrambe, con estrema gentilezza. Il sole italiano le è terribilmente mancato.
“Spesso Filippo passa a trovarmi. Resta qui settimane, adora il posto. Devi averlo visto, dato che passa spesso da Boston considerato che fa il talent scout anche per i Celtics. Ma generalmente tiene d’occhio i ragazzi italiani.”
Rebecca ricorda una notte spensierata, al sapore di baci e confidenze. “Già. È passato un paio di volte”, non si stupisce del sorriso sottile sulle labbra screpolate dell’altra -ha sempre saputo tante cose, a volte le rivelava ed altre no.
“Il mio fratellino” Sofia scuote il capo, “lo adoro e lui adora me. Lo sai. È la persona più importante della mia vita. Dopo di lui ci sono state diverse persone, te l’ho detto. Arianna odia questa casa. Troppo distante dalla sua nuova vita, dalla sua nuova personalità. Passa di qui, saltuariamente, forse per cercare di mantenere i rapporti e non fa che. Li sotterra, non prima di averli uccisi con agili colpi di spada. Ambra la ama, mentre Beatrice è troppo preoccupata di ciò che penserebbe suo padre se. Non credo le sia permesso pensare, sai. Andrea non viene mai. E se venisse lo manderei a calci lontano, molto lontano”
“Irene si ferma spesso qui, tra un viaggio e l’altro. Ha anche una stanza, quella con la porta rossa che hai notato prima”
I discorsi, dopo, si perdono tra chiacchiere che Rebecca non ricorda e da cui si sente piacevolmente rinfrancata. Il tepore di una bella zuppa le riscalda lo stomaco, e il rumore della caffettiera fa da sottofondo alla conversazione sul nuovo libro che intende scrivere ( Sofia si prende il diritto di disegnarne la copertina, perché ritiene di aver già in mente la protagonista. Rebecca non sa se fidarsi, ma alla fine glielo lascerà fare).
Alla fine quando stanno per addormentarsi davanti al camino acceso, Sofia le afferra la mano.
“Tu sei cambiata si e no. Sei tu, lo vedo, e altro. Ne sono contenta” sussurra.
Rebecca sorride e replica: “Anche tu, Sofia. Ti voglio bene”
L’abbraccio del sonno la prende, mentre sente l’ennesima tintinnante risata accanto al suo orecchio.