Awoken by a Cloud of Steam

Dec 29, 2012 18:29

Fandom: Merlin.
Pairing/Personaggi: Arthur/Merlin.
Rating: NC17;
Beta: neera_pendragon.
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico.
Warning: Sesso descrittivo, Slash.
Words: 3045 (fiumidiparole).
Summary: Arthur si è svegliato.
Note: Scritta per P0rn Fest #6 di fanfic_italia, sul prompt MERLIN - Arthur Pendragon/Merlin, "Mi sei mancato", e sul prompt Oren Lavie - Her Morning Elegance della mia cartellina per la Maritombola 4 di maridichallenge. Il titolo è una strofa della suddetta canzone.

DISCLAIMER: Non mi appartengono, non ci guadagno nulla ù_ù

Awoken by a Cloud of Steam

La prima cosa che Arthur vide, quando aprì gli occhi, erano lunghi fili bianchi che piovevano sul suo viso, capelli lunghi e setosi, una barba folta, un volto spigoloso e raggrinzito. E quegli occhi. Occhi blu, immortali e inconfondibili.
«Merlin» mormorò, esalando il suo primo fiato, e lui sorrise, portando un po’ di vita tra le grinze attorno alla bocca pallida. «Cos’è questa barba?» domandò il Re, riuscendo a sollevare una mano abbastanza da tirarne una ciocca.
Merlin sbuffò una risata. «Un vecchio trucco» gracchiò, ancora con la voce da vecchio, l’oro che mangiava il blu dell’iride e le rughe che si spianavano, i capelli e la barba che si diradavano e scurivano fino a tornare corti e neri. «Un ragazzo eternamente giovane attira l’attenzione, ma nessuno bada ai vecchi» spiegò, con il tono di sempre, tirando l’amico un po’ più vicino a sé.
«Eternamente?» fece Arthur, guardandosi per la prima volta attorno.
Erano su una piccola barca, in mezzo a un lago, e filavano sull’acqua come sospinti dal vento o da qualcosa di più consistente. Magia.

*°*°*°*°*

Vedere Arthur sussultare al passaggio di ogni auto o elicottero, e mettersi davanti a lui per proteggerlo era alquanto divertente. Mostri di ferro, li chiamava.
Merlin gli aveva avvolto una coperta attorno, per nascondere i suoi abiti, e l’aveva guidato fino al suo appartamento. Lì l’aveva aiutato a spogliarsi e gli aveva preparato il bagno.
«Che razza di stregoneria è questa?» domandò l’amico, vedendolo aprire di nuovo l’acqua calda. Quella andò a mischiarsi alle bolle che già riempivano la vasca in cui era immerso.
«È il futuro, Arthur» rispose Merlin, le dita infilate tra i suoi capelli dorati e la schiuma dello shampoo. «C’è un sistema di tubature che fa salire l’acqua fino a qui e un macchinario che la riscalda».
«Senza magia?» esclamò il Re.
«Nessuna» confermò lui.
«L’hai inventato tu?»
Merlin rise. «No, amico mio. Sono solo i prodigi dell’era moderna».
«Ripetimi ancora in che anno siamo».
«È il primo novembre del 2013, Arthur. Samhain è appena passato. È il primo giorno dell’anno, secondo l’Antica Religione».
Forse, se avesse continuato a ripeterglielo, prima o poi si sarebbe abituato.

*°*°*°*°*

C’era un piacere recondito nell’aiutare qualcuno a vestirsi. Spogliare una persona era un atto molto intimo, ma - in qualche modo - rivestirla lo era ancora di più.
Si erano dovuti accontentare degli abiti di Merlin, per il momento, riadattati alla taglia di Arthur grazie alla magia. Il giorno dopo avrebbero fatto un po’ di shopping, come lo chiamavano ora.
Lo stregone infilò con attenzione ogni bottone della camicia nella propria asola, coprendo il suo petto largo, poi la spinse dentro i jeans, sollevò la zip di questi ultimi e chiuse il bottone, allacciando la cintura. Infine poggiò un ginocchio a terra per legargli le scarpe.
Arthur non perse mai di vista le sue dita, che lavoravano alacremente su di lui, e il sorriso lieve che gli incurvava le labbra.
«Perché lo fai?»
«Sono nato-»
«Per servirmi, sì. Ma è passato così tanto tempo, Merlin. Non hai una famiglia? Degli amici?»
Il sorriso vacillò sulle labbra dello stregone. «Non è così semplice quando vedi le persone invecchiare attorno a te e non puoi fare nulla per evitarlo» disse alle stringhe dei suoi anfibi. «E poi- avevo un compito. Ti stavo aspettando» spiegò, sollevando di nuovo lo sguardo. «Tu sei il Re del Passato e del Futuro, Arthur» concluse, ancora inginocchiato ai suoi piedi, come il più umile dei servi.
Lui lo prese per le braccia e lo tirò su, stringendo le mani sulle sue spalle in un muto segno di gratitudine.

*°*°*°*°*

Arthur passava molto tempo fermo davanti alla finestra, lo sguardo perso nel vuoto, sulla giungla di piccole case colorate, sulle strade coperte di catrame e le sporadiche auto che passavano davanti al lago.
Il televisore - o scatola magica, come preferiva chiamarlo - ancora lo metteva a disagio, ma Merlin gli aveva comprato alcuni libri di storia e perfino qualcuno sulle leggende arturiane, e lui si stava lentamente rimettendo in pari. Si applicava su di essi come una volta faceva sui rendiconti dello stato e le mappe di guerra.
Era divertente vedere come i secoli e la letteratura romanza avevano distorto i fatti; Arthur aveva quasi avuto un conato quando aveva scoperto che la gente pensava a Mordred come un figlio incestuoso suo e di Morgana.
«Non toccherei quella strega manco da lontano con un bastone lungo tre metri! E questo fin da prima di scoprire il suo tradimento. O che fosse mia sorella».
«Avrei toccato» l’aveva corretto pacatamente Merlin, e il Re era tornato molto serio e aveva ripreso a leggere.
«Che ne è stato di tutti gli altri?» gli chiese una sera, qualche giorno dopo il suo risveglio, osservando la pioggia scivolare sul vetro, l’ammasso di nuvole scure sopra la superficie grigia del lago.
«Gwaine è morto nel tentativo di impedire a Morgana di raggiungerci» cominciò Merlin, affiancandolo accanto alla finestra del suo piccolo soggiorno. «Percival e Leon hanno servito Camelot finché non si sono ritirati, troppo vecchi per impugnare la spada. Gaius è vissuto fin quasi a cent’anni. E Gwen- ha regnato con grande lungimiranza sino alla fine dei suoi giorni. Non si è mai risposata».
Arthur strinse i denti, lo sguardo cocciutamente puntato sull’isola al centro del lago, su Avalon. Merlin poggiò con gentilezza una mano alla base della sua schiena, una pressione discreta, calda.
«Dove sono, ora?»
Lo stregone ci mise un po’ a capire cosa intendesse dire. «Arthur loro- non torneranno. Il loro Destino si è già compiuto».
«E il mio, allora? Perché sono qui, ancora vivo, come se non fosse passato un giorno? Ieri ero il Re di Camelot e oggi sono- sono niente. Cos’è questo posto, Merlin? Non è la mia terra. Come credi che dovrei aiutare questa gente? E aiutarla a fare cosa, poi? Io non sono niente, senza di loro».
«Hai ancora me» gli ricordò lui, stringendogli una spalla. Lo spinse a voltarsi, finché non incontrò il suo sguardo. «Scopriremo perché ti sei risvegliato proprio ora, Arthur. Te lo prometto».
«Io- pensavo fossi stato tu».
«No. Io ho solo sentito che il momento era arrivato e sono venuto a prenderti» chiarì Merlin. Non poteva lasciare che si svegliasse da solo in questo tempo, era stato già fin troppo traumatico con lui accanto, figurarsi se Arthur fosse stato solo. «Di qualunque cosa si tratti, l’affronteremo insieme» gli assicurò, incorniciandogli il volto tra le mani.

*°*°*°*°*

Era bizzarro vedere Merlin - e se stesso - in quegli abiti moderni. I capelli corti spettinati secondo la moda, i vestiti stretti e fascianti, un ombra di barba sul viso; gli donavano, in qualche modo.
«Sembri meno denutrito» constatò.
«Non sono mai stato denutrito» rispose l’amico, piccato. «Il fatto che non abbia addosso chili di inutili muscoli non mi rende un morto di fame. A me non servono muscoli, che comunque - giusto per amor di precisione - ho a sufficienza» continuò petulante, spadellando la colazione.
«Allora devono essere i vestiti. Prima sembravi tutto-» Arthur agitò una mano, come se stesse cercando la parola giusta, «fatto di stecchi» si risolse, infine.
Merlin ridacchiò. «Mia madre insisteva sempre perché indossassi abiti abbondanti. Sperava che ci crescessi ancora dentro, suppongo».
«Potevi prenderne altri. La paga che ti davo era del tutto rispettabile» esclamò Arthur. «Ma tu non hai mai cambiato vestiti, fin dal nostro primo incontro».
«Non erano consumati» rispose lo stregone, scrollando le spalle. «Le cose non erano come ora. Prima la gente sfruttava davvero tutto fino all’ultimo. Adesso, invece, si è perso di vista il vero valore delle cose. Troppo benessere, ecco cos’è. Non si fatica più per procurarsi nulla, basta avere soldi per ottenere ciò che si vuole e nessuno è davvero povero. Con un paio di sterline puoi andare al supermercato e acquistare del pane, non devi falciare il grano e macinare la farina per averlo».
«Sembri un vecchio brontolone» lo prese in giro il Re. «E non so cosa sia un super-coso».
«Io sono vecchio, Arthur» sospirò lui, passandosi una mano sulla fronte, prima di poggiare i piatti pieni di uova e salsicce calde sulla tavola.
L’altro lo scrutò assorto, gli occhi turchesi che studiavano i suoi, così antichi e pieni di ombre. Per lui era passata solo qualche notte, ma Merlin aveva vissuto ogni giorno, ogni secolo sulla propria pelle.
«Come sei riuscito a non impazzire?» gli domandò, serio.
Lo stregone incontrò il suo sguardo, catturandolo per un lungo momento. «Avevo uno scopo». Ti stavo aspettando, sembrò dire ancora.
Arthur si concentrò sul proprio piatto, sentendo il petto stringersi in una morsa non del tutto spiacevole. «Quindi non hai cacciato tu questa carne» arguì. «E io che pensavo avessi finalmente imparato a fare qualcosa di utile».
«Te l’ho detto: si acquista tutto con facilità, al giorno d’oggi».
«Devi essere molto ricco, allora».
E Merlin rise, perché no, non funzionava così, ma quella testa di legno ci avrebbe messo ancora un po’ per capirlo.

*°*°*°*°*

Nonostante il trascorrere dei giorni, il lento abituarsi di Arthur a quella vita, lo stregone faceva ancora fatica a credere che fosse davvero lì, di nuovo in piedi, vigile, lo stesso idiota di sempre.
La notte Merlin si svegliava sul divano in soggiorno, lasciava cadere la coperta di lato e scivolava con passo felpato fino alla propria camera. Socchiudeva la porta e restava per un tempo infinito a guardare i capelli biondi sparsi sul cuscino, il respiro regolare che sollevava le lenzuola. A volte si scopriva ad allungare una mano per scuoterlo, per assicurarsi che si svegliasse, e si fermava giusto in tempo, le dita a un palmo dal suo viso, i polpastrelli colpiti dal suo fiato.
Quella notte, circa una settimana dopo averlo ritrovato, Merlin si accucciò ai piedi del letto, poggiando i gomiti sulle lenzuola, il volto quasi alla stessa altezza di quello di Arthur. Ovviamente il Re non poteva dormire sul divano, non sia mai, ma a dire il vero a lui non importava. Gli aveva lasciato il proprio letto senza nemmeno pensarci; il divano era comodo, quindi non era mai stato un vero problema.
Un temporale premeva sulla finestra, gettando lampi di luce aspri nella stanza, tuoni che facevano tremare i vetri. Arthur si agitava, borbottando nel sonno qualcosa che poteva essere attacca o idiota, poi si svegliò di soprassalto, la fronte sudata e il respiro sincopato, la mano che istintivamente cercava una spada da sguainare.
«M-Merlin?» borbottò, stropicciandosi gli occhi, quando riuscì finalmente a metterlo a fuoco, nella penombra della stanza.
«Shhh» mormorò lui. «Va tutto bene».
Il Re si guardò attorno, confuso, prendendo di nuovo familiarità con l’ambiente, come faceva tutte le mattine. Sembrava sempre che i suoi occhi si aspettassero di incontrare lunghe cortine rosse attorno al talamo e vetri colorati alle finestre. Invece la stanza dove si trovava era piccola e stretta, e l’unica finestra presente era alle spalle del letto.
Non era una brutta camera, era calda e accogliente, anche se il materasso era basso e attorno ad esso c’era a malapena lo spazio per un comodino e una striscia di pavimento che arrivava fino alla porta.
«Cosa fai qui?» gracchiò Arthur, la voce ancora arrochita dal sonno, i segni della federa su una guancia e i capelli dorati piegati all’insù dal cuscino.
«Non riuscivo a dormire» rispose Merlin, scrollando le spalle.
Arthur lo osservò a lungo. Un lampo illuminò il volto spigoloso dello stregone, poi un altro tuono squarciò il silenzio.
«Vieni qui, avanti» lo invitò, sollevando le coperte e sgusciando un po’ più indietro, a ridosso del muro.
«Non è necessario, torno di là» gli assicurò Merlin, rimettendosi in piedi, le ginocchia che cigolavano come quelle di un vecchio per essere rimasto accovacciato troppo a lungo.
L’altro sbuffò. «Non fare l’idiota. Non è la prima volta che dormiamo fianco a fianco» gli ricordò.
Dopo una breve esitazione, Merlin si infilò al caldo, accanto a lui, agitandosi in cerca di una posizione più comoda.
Sì, non era la prima volta che dormivano così vicini, a un palmo l’uno dall’altro, ma si era trattato di un pavimento duro in un riparo di fortuna, o dell’erba umida della foresta, e sempre di coperte stese vicine attorno al fuoco. Secoli prima. Non di un solo letto morbido e lenzuola fresche di lavanderia.
«Per amor del cielo, Merlin, sta fermo» esclamò il Re, e lui si immobilizzò per riflesso. «Ora sono davvero sicuro che non fingevi di essere un idiota».
«Te l’ho detto: fa parte del mio fascino» disse lui, con un sorriso incerto, e Arthur si sfilò il cuscino da sotto la testa per sbatterglielo in faccia. «Molto maturo, Sire» lo sbeffeggiò Merlin, massaggiandosi il naso, solo per ritrovarsi un gomito piantato in un fianco.
Si azzuffarono tra le lenzuola come ragazzini, finché - com’era ovvio che accadesse - Merlin non si ritrovò schiacciato sul materasso dal peso di Arthur, le braccia bloccate dietro la schiena e una guancia premuta sul cuscino.
«Arrenditi» offrì il Re, a cavalcioni dei suoi fianchi, le dita incastrate tra i suoi capelli neri e l’altra mano che torceva i suoi polsi.
«Potrei liberarmi molto facilmente» gli ricordò lo stregone.
«Non barare» protestò l’altro.
«Non sarebbe barare. Uso le mie capacità, esattamente come fai tu. Ci sono nato così».
«Sei un baro» insistette Arthur, liberandolo e lasciandosi cadere accanto a lui.
Merlin ridacchiò senza fiato, voltandosi per cercare il suo sguardo. Anche il Re sorrideva, nonostante tutto.
«Mi sei mancato» si lasciò sfuggire per la prima volta.
Le dita di Arthur trovarono di nuovo la strada tra i suoi capelli, il pollice che tracciava una zigomo spigoloso, le labbra piene. Era tutto così strano, erano passati solo una manciata di giorni dalla battaglia di Camlann, eppure c’era una cicatrice sotto il suo costato e un’ombra stanca negli occhi di Merlin.
Una parte di lui era cosciente del lento sgocciolare dei secoli; se non ci pensava, se non tentava di ricordare, avvertiva quegli eventi come lontani e indistinti. Doveva concentrarsi per rammentare gli occhi scuri di Guinevere, il suono della sua risata, la forma dell’elsa di Excalibur sotto il proprio palmo, le voci dei cavalieri. Solo Merlin era presente, reale, e Arthur quasi dimenticava che fosse uno stregone, in mezzo alle comodità dell’era moderna, che rendevano la magia superflua.
«È un incantesimo? È tutto un enorme maledizione. Si tratta di un trucco di Morgana, non è così? E in realtà io sto ancora dormendo, o siamo sul campo di battaglia».
«No» si affrettò a dire Merlin, stringendo il suo polso, premendosi la sua mano su una guancia. «No. Questo è vero, Arthur. È tutto vero».
Lui sospirò, piano, tracciando l’arco del suo sopracciglio con il pollice, e lo stregone girò il viso e poggiò un bacio devoto nel suo palmo. Arthur ancorò le dita alla sua nuca e lo tirò un po’ più vicino, solo per sentire il suo calore, solo per essere certo che fosse tutto vero.
Il respiro di Merlin gli solleticava le guance, una sensazione stranamente familiare. Resta con me, l’aveva supplicato, in un mormorio appena percettibile, le lacrime appese alle ciglia, le labbra tremanti.
«Sono qui» disse Arthur, una manciata di giorni - di secoli - in ritardo.
Merlin annuì contro il suo palmo. «Lo so» sussurrò. «Lo so, ora». E le sue labbra erano calde, come suggeriva il loro colore rosso e vivido, calde e morbide sul suo viso, sulla sua bocca.
Barba ruvida che gli grattava il mento, dita che tiravano e sollevavano i vestiti - le stesse che li avevano chiusi e stirati -, cercando un varco tra la stoffa, pelle da toccare, da stringere, da graffiare.
I gesti di Arthur erano bruschi, goffi. Quelli di Merlin famelici, quasi disperati. Fu lui a spogliare entrambi, rimediando all’innata incapacità dell’altro, ringraziando gli elastici moderni e la mancanza di bottoni. E alla fine era tutta pelle liscia tra le sue mani, in quelle del Re, fra le sue gambe, e membri duri che strusciavano su ventri piatti, corpi privi di curve ma non meno caldi, non meno veri e accoglienti, e desiderati.
Arthur lo sfiorò lungo il perineo, curioso, polpastrelli che tastavano, frugavano, penetravano. E Merlin trattenne il fiato, stringendo i denti quando senti quelle dita aprirlo, secche e brucianti, e poi rise. Perché in qualche modo l’aveva sempre saputo che sarebbe andata così, che quell’idiota avrebbe dovuto dettare legge e prendersi le cose un po’ come voleva.
Arthur mormorò una scusa e gli occhi dello stregone brillarono d’oro, mentre lo tirava di più a sé, in un esplicito invito. Fece per dire qualcosa, ma Merlin infilò la lingua nella sua bocca, ingoiando qualunque domanda stupida stesse per fare.
Fu comunque un po’ troppo brusco, perché era così stretto e così caldo, ed era maledettamente difficile trattenersi. Ma le spinte dopo furono gentili e lente, le labbra e le mani che regalavano tante piccole attenzioni, e Merlin si aspettava anche questo.
«Con me. Resta con me» ansimò, sotto di lui, tirando i suoi capelli, gli occhi dorati, piccole scosse di elettricità sulla sua pelle.
Arthur poggiò la fronte sulla sua e annuì. «Stringimi. Solo- solo stringimi» ordinò, rubandogli una lacrima, forse, e un sorriso.

*°*°*°*°*

C’erano cose che proprio non entravano in quella testa di legno.
«Attento» gridò Merlin, tirandolo a sé, prima che un camion lo mettesse sotto. «Guarda prima a destra, poi a sinistra» gli ricordò per la millesima volta.
Arthur, molto elegantemente, mise il broncio, borbottando di mostri metallici e inutili leggi sulle precedenze. Lo stregone sorrise, seguendolo mentre attraversava la strada.
«Sai, potresti prendere la patente» disse, affiancandolo sul marciapiede.
«Per farlo servirebbe un titolo di studio. E dei documenti, tanto per cominciare» gli ricordo il Re. Tecnicamente era come se lì non esistesse, non c’era nulla che attestasse la sua nascita o la sua presenza nel mondo.
«Come questi, vuoi dire?» chiese Merlin, sfilandosi qualcosa dalla tasca.
Lui aprì lo strano libretto plastificato, scoprendo all’interno una carta d’identità di validità europea. Il nome sul documento diceva: King Arthur.
«King Arthur, sul serio? King. Chi è l’idiota che fa di cognome King e chiama il proprio figlio Arthur? Perfino io, che sono appena arrivato qui, mi rendo conto di quanto è assurdo. Sono letteralmente una leggenda, Merlin».
«Appunto, non potevo usare Pendragon. King è- divertente. E suona bene, non puoi negarlo».
«Ovvio che suona bene. È il mio titolo, Merlin» sbottò il Re. «Come li hai ottenuti, comunque?»
«La magia serve ancora per qualcosa» rispose quello, ammiccante.
«Giusto. Non so nemmeno perché continuo a chiederlo».
«Perché sei un asino».
«Parla quello che ha scritto King sul mio documento. Sei un idiota, Merlin» sbottò, alzando gli occhi al cielo.
Lui gli diede un colpetto con la propria spalla e Arthur lo spintonò avanti.
«Fammi vedere i tuoi, avanti. Voglio vederli» continuò, le voci che si perdevano nel vento mentre camminavano, sotto il rumore del traffico, sopra il lago.

FINE.

Potete trovarla anche su:
EFP.

maridichallenge: maritombola!, merlin, fanfic_italia: p0rn fest #6

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