[Fanfiction] GermaniaItalia: Delicious. AmericaInghilterra: Pulcino.

Oct 11, 2009 12:09


Yay, il mio primo post sulla community *O* approdo per insozzare anche questo fandom, wiiii =ç=!
La prima fic è una boiata. Nel senso più puro e stretto del termine.
La seconda è stata scritta per un compleanno, ed è proprio il primo esperimento sulla serie<3
Ehm, spero che enjoyate e che vi piacciano, almeno un pochino çOç le recensioni sono l'amore =ç= le critiche meno, ma accetto tutti i figli senza discriminazione alcuna *O* quindi, se c'è qualcosa che vi fa schifo, wiiii, sono qui per prendere insulti =ç=!
... la smetto.
Spero di aver messo tutti i tag giusti çOOOç"

Titolo: Delicious
Pairing: Germania x Italia
Rating: NC17
Genere: ... ehm.
Disclaimer: Tutti i presenti di cui narro le eroiche gesta sono di Himaruya-sensei, e io non possiego nemmeno un capello dei baldi giovani u_u
Riassunto: Il sudore era perlaceo sulla fronte dell'italiano, mentre Ludwing gli ripeteva, gutturale, di liberare la voce.

Il sudore era perlaceo sulla fronte dell'italiano, la voce gli moriva in gola, risorgendo gemito roco, pallina rimbalzante nei timpani di Ludwig.
"Libera la voce..." mormorò gutturale il biondo, mentre le spinte si facevano più vigorose e lo riempivano del tutto. Uscì da lui e lo mise sulla schiena - voleva vederlo in faccia mentre veniva, voleva godersi lo spettacolo che avrebbe reso ancor più perfetta la loro prima volta. "Quanto, quanto sei bello..."
La voce di Feliciano aveva una leggera nota acuta, mentre sentiva l'orgasmo arrivare. Artigliò la schiena del tedesco, mentre veniva e gli sporcava il ventre, urlando
"PASTAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!"

Titolo: Pulcino.
Pairing: America x Inghilterra
Rating: PG
Genere: angst-pucci
Disclaimer: Tutti i presenti di cui narro le eroiche gesta sono di Himaruya-sensei, e io non possiego nemmeno un capello dei baldi giovani u_u
Riassunto: Si sentiva un po’ scemo a pensarci, eppure faticava a non farlo. A pensarci, non a sentirsi scemo. Quando diavolo Alfred è cresciuto così tanto?


Si sentiva un po’ scemo a pensarci, eppure faticava a non farlo. A pensarci, non a sentirsi scemo.
Quando Alfred è passato dall’essere un bambino con gli occhi grandi che ci vedevano perfettamente (attraverso qualsiasi cosa, le ossa, le carni, le viscere, il cuore - così dolci da provocargli un infarto ogni volta), quel bimbo adorabile che lo seguiva come un cagnolino e che attendeva di vederlo come si attende il Natale e i suoi regali - quando diavolo è cresciuto così tanto?
Le labbra durante i baci - non più quelli sulla guancia, ma quelli passionali degli innamorati -, non più fresche e morbide, ma stranamente secche, quasi ruvide - ma, oh, mai indesiderate.
Le mani durante le carezze - non più quelle corte e dolci, ma quelle lunghe e audaci, che sapevano sempre infilarsi nel posto giusto al momento giusto.
Gli occhi durante l’amore - non più sfere limpide… no, non è vero. Quando lo guardavano, quegli occhi avevano ancora lo stesso, giovane, innocente, appassionato fervore e il più limpido sentimento.
D’accordo che duecento anni sono ben lunghi da passare, eppure lui non era cresciuto, né cambiato, granché. Invece, America sembrava essere passato sotto una metamorfosi.

La sua melodia preferita, nei suoi viaggi nel Continente Sconosciuto, non era il canto dei fringuelli, lo scrosciare delle potentissime cascate, lo scricchiolio dei suoi piedi sulle foglie che a tanti sapeva di libertà; niente di tutto questo. Arthur amava, più di ogni altra cosa, il pigolare mai stanco di Alfred, quello che seguiva le manine attaccate ai suoi pantaloni, il suo pancino caldo e morbido contro il suo petto quando lo prendeva in braccio. Quel “ArthurArthurArthurArthur” che non sembrava mai cessare. “Arthur, hai visto che bel disegno ho fatto?” “Arthur, sai cos’ho fatto ieri?” “Arthur, ma è buonissima questa frittata!” “Arthur, me la racconti di nuovo la favola dei tre folletti del tronco d’acero?”. La bocca così aperta nel pronunciare la A, le labbra a cuoricino quando diceva l’ultima sillaba.
Arthur, Arthur. Un nome così banale, rigenerato nella sua voce.

Non avrebbe mai creduto che il suo nome potesse essere pronunciato con così tanto calore, con così tanta foga, la prima volta che aveva visto Alfred, oramai adulto, nudo. “Arthur, Arthur, Arthur, my sweet, beloved, little Arthur…”, pronunciava con amore incommensurabile, mentre caldo ed eterno si faceva spazio dentro di lui, mentre bollente e bruciante il suo nome gli si marchiava nel petto, per ricordargli per sempre come bello e splendente fosse il suo nome sulla sua lingua.
Arthur, Arthur, Arthur. Un nome così banale, pronunciato con una venerazione così profonda, che risplendeva così tanto nella sua voce da essere abbagliante.

Pigolava continuamente, con quella sua voce dolce ed esile, e i piedini sbattevano continuamente sul pavimento - era un piccolo piacere, voltarsi e vedere come si affannava a seguirlo, le guance come mele rosse tutte da mangiare. Un pulcino biondo e delizioso, con null’altro sulle labbra se non un sorriso innocente.

Vibrava, la sua voce, nel pronunciare quelle due sillabe.
“Ar-thur.”
Gli soffiava nell’orecchio per prenderlo in giro, prendendolo alla sprovvista, con le braccia intorno al suo collo.
“Ar-fffrur…”
Gli faceva le fusa, ruffiano e maledettamente carino con gli occhi semichiusi e la bocca socchiusa, con la testa poggiata sulle sue gambe.

Inevitabilmente, era cresciuto. Non riusciva a non stupirsene, guardandolo dormire scomposto sul divano, mentre si grattava la pancia nel sonno.
(forse, era un po’ cresciuto male, eh?)
Si sedette vicino a lui, guardandolo.
Era cresciuto lontano da lui. Così, da solo, senza che lui lo guidasse, lo aiutasse, gli insegnasse il giusto e sbagliato. E, insomma, a parte qualche piccolo particolare evitabile (lo stomaco infinito, le orrende abitudini alimentari - di cui, doveva ammettere, era in parte colpevole -, quel modo assolutamente terribile di dormire, stravaccato con le gambe aperte e la pancia perennemente scoperta… oh, ma che diavolo si metteva a pensare? Lo amava in ogni singolo, stupido, inutile, superfluo, maleducato, indelicato, evitabile particolare), era cresciuto perfettamente.
Un uomo. Dal bambino pigolante che si nutriva di lui, era cresciuto un uomo che se la cavava benissimo anche senza di lui.
Era forse questo che lo spaventava?
Prese, con un solo dito, ad accarezzargli il viso. Disegnò il profilo del naso, delle labbra, della mascella forte, maschile. Si vergognò da solo di un gesto così stupido, e ritrasse subito l’indice.
Chi cresce da solo, può vivere benissimo da solo.
Aveva forse paura di essere diventato lui, il pulcino pigolante?
(senza capire, stupido inglese, che l’amore in fondo non è che la più dolce schiavitù reciproca. Tutti diventano pulcini.)
Aveva forse paura di non essere più essenziale?
(ancora, stupido inglese, forse ancora più ottuso del suo uomo)
Una paura sottile, infingarda, di cui si vergognava.
Tornò ad accarezzarlo, e in quel momento Alfred si svegliò, prendendogli la mano, baciando le punte delle dita una ad una. Lo guardò, sorridendo furbo, come se riuscisse a leggergli nel pensiero.
“Non te ne andrai, vero, Alfred?” sussurrò Arthur, dopo una pausa piccola, che gli sembrò infinita, non riuscendo a guardarlo in volto.
Quest’ultimo gli prese il mento con la mano libera, sospirando leggermente, poi tornando a sorridere.
Le paura, ogni più piccolo fantasma, scomparivano, stemperandosi fino alla fine, in quei denti bianchi.
Sorrideva, Alfred, come a sottolineare quanto fosse stupido a pensare che fosse cresciuto per scappare da lui.
Non era forse diventato grande per essere più degno di lui? Più simile a lui? Ancora di più alla sua altezza?
Perché insieme sembrassero perfetti.
“Non te ne andrai, vero, Alfred?”, ripeté Arthur, forse un po’ inquieto del sorriso ancora muto.
Quello sospirò di nuovo.
“Ora che ti ho di nuovo? Ma manco morto, what the hell… stupid english man…”

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