Titolo: Bellezza e castità
Prompt: extra (yuffie) 06 - The miracle of having met you was preordained from long ago.
Fandom: X AU (Diario di un segreto)
Coppia: Seishiro Sakurazuka/Subaru Sumeragi
Diario di un segreto
Prequel - 1862
Bellezza e Castità
Bello
È forse la prima parola che io abbia imparato a collegare alla mia persona fin da quando ero bambino, fino da quando ho memoria.
- Il mio bel bambino - diceva la mamma riempiendomi di baci quando le portavo un fiore in dono o facevo una commissione per lei.
- Oh, che bambino bellissimo- ripetevano in coro le donne del quartiere.
- Un figlio così bello non ce l’ha nemmeno l’imperatore- scherzava talvolta mio padre la sera a tavola.
Bello
Fu il ritornello della mia infanzia, infanzia felice passata in uno dei tanti tempi sulle colline che circondano la capitale. Mio padre era un monaco esorcista, lo era stato il nonno e il padre del nonno, quindi lo sarei stato anche io. Era tutto deciso, tutto chiaro, la strada segnata, dovevo solo percorrerla e non farmi domande. Eppure io ero bello, e verso gli undici anni questo aggettivo non fu più pronunciato con orgoglio da mio padre e mia madre smise di baciarmi dicendosi quanto fosse fortunata ad avere un figlio così bello. Non lo capì subito, ci misi qualche mese.
Crescendo mi accinsi a seguire le orme di mio padre, diligente e devoto, ma non bastava: per quanto io mi sforzassi, per quanto perfetti fossero i miei esercizi, non sembrava che mio padre fosse mai soddisfatto di me; i maestri erano contenti invece, mi volevano bene e sorridevano indulgenti se commettevo qualche stupidaggine, ma erano spietati con i miei compagni e questi presero ben presto ad odiarmi.
- Che bel ragazzo, Subaru-san- dicevano le mogli dei sacerdoti.
- Dovete esser fiero di un figlio così bello da far invidia agli dei, Sumeragi-san!- celiavano i monaci. Mio padre livido in volto stringeva i denti e si allontanava dopo un inchino frettoloso.
Poi i commenti non furono più rivolti ai miei genitori, ma a me personalmente, e non più apertamente con il sorriso sulle labbra, ma sottovoce, nella penombra dei lunghi corridoi del tempio.
- Subaru-kun, la tua bellezza non ha eguali-
- Subaru-kun sei la più bella creatura che i miei stanchi occhi abbiano avuto il privilegio di ammirare-
E divenni un oggetto, alla stregua di una statua o una pittura. Non importava quanto mi impegnassi nello studio, ero così bello che tutto mi era concesso. Non importava cosa io volessi chiedere o fare, bastava che io fossi lì o che semplicemente rivolgessi loro un saluto. Ero un giovanotto, ma avrei potuto esser un ramo di pesco o un albero si susino: ero bello, cosa altro volere?
Verso i sedici anni, capì che si poteva volere molto di più: i boccioli più belli della camelia vengono recisi per poter carpire alla natura il fascino della sua bellezza, almeno per il breve lasso di vita di quel bocciolo.
Così fu per me. Non fui più bello o così bello, divenni troppo bello e scatenai, inconsapevolmente, una tragedia.
La figlia di un nostro vicino fu data in sposa ad un commerciante di stoffe, ma questa, segretamente innamorata di me (l’avevo incontrata a Gion una o due volte negli ultimi cinque anni) piuttosto che rinunciare al nostro amore si tolse la vita.
Sì, il nostro amore disse al padre prima di squarciassi la gola.
A fatica riuscivo a ricordare il suo volto quando mia madre mi raccontò il fatto, tra le lacrime.
La mia bellezza aveva generato morte, era una maledizione.
I miei genitori lo sapevano già molto prima di me, ma allora non fu più possibile nasconderlo al resto del mondo. Me ne convinsi anch’io e presi ad odiare il mio aspetto, tanto che accettai con gioia di rinunciare a succedere a mio padre alla guida del nostro tempio e mi ritirai in un monastero in campagna, in una zona isolata e selvaggia, lì la mia bellezza non avrebbe nuociuto a nessuno, mi dissi.
Avevo torto.
Una notte di pioggia, durante il più fragoroso temporale di quell’autunno terribile, un uomo, un monaco che aveva votato la sua vita terrena al Budda della Misericordia, che aveva rinunciato ai beni materiali per cercare la via dell’Illuminazione, entrò nella mia stanza, mi strappò le vesti e al lume di una candela osservò il mio corpo: troppo bello anche per esser violato. Scappò via in preda al rimorso e alla vergogna. Non attesi che l’abate mi cacciasse, me ne andai da solo per la mia strada, strada che non poteva che portarmi in un posto, mi dissi, nell’hamanachi, nella città dei fiori.
Ne avevo sentito parlare tanto da bambino, come di un posto affascinante all’esterno, ma terribile dietro le quinte, perché nell’hamanachi tutti recitavano una parte e si preparavano anni per ricoprire il ruolo assegnato: geisha, maiko, suonatrice di koto, onnagata, e poi, giù nella scala sociale, prostitute e kagema. Speravo di esser assunto come assistente in una okaya o pure come fattorino in una casa da tè, ma non mi facevo troppe illusioni: il mio bel viso mi avrebbe tradito di nuovo.
Girai tre giorni in cerca di un lavoro, ma la mia famiglia era nota in tutta la città per le arti sciamaniche e la mia fama mi aveva preceduto. Trovai solo porte sbattute.
Un pomeriggio, una giornata fredda ma limpida, gironzolavo lungo le sponde del Kamo lanciando sassi nel fiume per la frustrazione. Stavo meditando di uccidermi. L’idea di aprirmi il ventre con una lama mi esaltava, ne avevo letto tante volte nei romanzi e nelle biografie dei grandi samurai o dei nobili del passato, ma in realtà non avrei saputo da che parte cominciare (non avevo mai maneggiato delle armi con disinvoltura); all’epoca la morte era un pensiero astratto, così come l’idea di patria, onore e obbedienza, tutti valori che lui mi avrebbe fatto conoscere ed apprezzare. Fu in quel pomeriggio luminoso di fine autunno che lo incontrai per la prima volta.
Scendevo mesto lungo un ponticello di legno laccato di rosso, che porta dritto al Teatro di Gion nella zona centrale del hamanachi, quando i miei piedi finirono ad intralciare quelli di un samurai che veniva nel senso opposto al mio. Indossava un kimono nero bordato con decorazioni in oro, sembrava una divisa, perché anche il ragazzetto dietro di lui, il suo scudiero evidentemente, indossava un abito della stessa foggia ma di color blu.
- Stai attento a dove metti i piedi, idiota!- mi apostrofò il giovanotto con voce rude. Non alzai lo sguardo, sarebbe stata una mancanza imperdonabile, bensì mi inchinai cerimoniosamente domandando perdono. Per la legge un samurai, secondo solo al suo signore, può decidere della vita e della morte di chi appartiene ai ceti inferiori, anche solo perché qualcuno gli ha intralciato la strada come avevo fatto io. Invece quell’uomo non sembrò prendersela, anzi mi sorrise e mi chiese se mi fossi fatto male.
- No, signore. Grazie della vostra premura, non dovete preoccuparvi, signore, non ho nulla-
- Qualcosa devi avere, ragazzo, se nascondi il tuo volto e non mi guardi neanche negli occhi-
Io guardare negli occhi un samurai? Non era pensabile. Eppure sollevai il volto e accennai un sorriso di gratitudine.
- Quando sorridi sei molto più carino-
- Seishiro-san, faremo tardi- lo scudiero lo richiamò e lui sparì, così come era arrivato, tra la folla.
Il suo nome rimase inciso nella mia mente: Seishiro-san! Volevo rivederlo, parlare ancora con lui, non capivo perché, ma nei pochi attimi della nostra conversazione, io mi ero sentito me stesso. Così lo seguì e scoprì che viveva nel quartier generale della Shinsengumi, una forzadi polizia, al servizio dello Shogun, formatasi da poco tempo. Per lo più erano ronin ed erano noti per la ferocia che dimostravano in battaglia, perciò erano soprannominati i lupi di Mibu. I lupi non mi facevano paura, né avevo già conosciuti tanti travestiti da agnelli. Dovevo trovare una scusa per entrare nel tempio, così da aver modo di ritrovare Seishiro-san.
Nel periodo trascorso al monastero, mi ero reso conto che la religione c’entrava più con la politica che con la salvezza dell’anima: l’abate dava rifugio a samurai in fuga dalla capitale per aver complottato contro lo Shogun. Avevo sentito più volte i monaci bisbigliare pettegolezzi e maldicenze, uno di questi faceva al caso mio: il damnyo di Choschu, il clan avversario alla fazione della Shinsengumi, apprezzava la compagnia maschile. Elaborai il mio piano nei minimi dettagli: mi sarei finto un onnagata e al momento propizio avrei pugnalato il damnyo di Choschu. Semplice ed efficace.
Mentre mi avviavo verso la casa da tè “Profumo di camelia”, dove sapevo che il comandante della Shinsengumi era solito passare le sere, cercavo di convincere me stesso che, se la mia bellezza faceva impazzire persone perbene e insospettabili, allora potevo usarla per far impazzire persone cattive ed ignobili. L’idea era di mettere questa mia capacità al servizio della Shinsengumi; così avrei potuto rincontrare di nuovo Seishiro-san una volta unitomi al suo gruppo. Non capivo molto di politica o di guerra, ma mi bastava sapere che quei samurai lottavano per preservare la purezza dei valori del Bushido.
Il comandante Sakurazuka altri non era che Seishiro-san. Rimasi impietrito per lo sgomento almeno un minuto mentre mi accomodavo sul cuscino a me destinato. Solo allora notai che era un uomo molto più giovane di quanto mi ricordassi, dal viso signorile e una cicatrice sull’attaccatura del naso che disturbava l’armonia dei suoi lineamenti. Era affascinante così come ci si aspetta debba essere un nobile samurai: postura perfetta, abiti immacolati, due spade al suo fianco e il ghigno di chi la sa lunga. Non mi aspettavo fosse anche gentile. Mi sorrise come entrai nella stanza e mi offrì una tazza di sakè, io declinai e lui rise appena.
- Sono qui per affari- ribattei deciso.
- Ti ascolto- e fu la prima persona che non si lasciò distrarre dai miei occhi o dal bianco della mie mani, mi ascoltò veramente.
- Ingegnoso, ma inutile- disse alla fine del mio discorso - E per niente decoroso per un samurai, né per un giovane dal cuore puro come il tuo-
- La mia bellezza porta male- ripetei il mio mantra.
- Può darsi, ma mi porterebbe ancora più sfortuna lasciare che un ragazzo tanto ardito getti via la sua vita in un modo così stupido-
- Voglio essere utile alla causa- gridai con furore patriottico, in realtà volevo solo che quell’uomo così forte e fiero non mi disprezzasse.
- Ma non sai usare una spada, no?-
- No-
- Allora pensi che vendere il tuo corpo sia la soluzione migliore?-
- Sì-sì- balbettai, capendo solo allora cosa avrebbe significato veramente portare al termine il mio piano. Rividi gli occhi iniettati di sangue del bonzo mentre mi stappava lo yutaka e tremai.
- Venditi a me- disse infine Sakurazuka- Ti farai meno male e ti frutterà di più-
Rimasi a bocca spalancata per lo stupore e non riuscì a muovere neanche un dito mentre lui agguantava con mano rapace la mia nuca, mi reclinava sui tatami e mi baciava.
Un nuovo aggettivo ora mi descrive, qualcosa che dice tutto di me, tutto quello che per me vale la pena sapere di essere: suo.
[9 dicembre 2008, scritta con 37°C di febbre e a mezzanotte
revisione 27 gennaio 2009, ancora a letto con la febbre!]