Dato che alla totale mancanza di voglia si è aggiunta anche la febbre (intelligente presa a GIUGNO), prevedo che i libri rimarranno drasticamente chiusi oggi.
The long and winding road
Secondo capitolo
Don’t let me down
Don't let me down, don't let me down
Don't let me down, don't let me down
«Dove sono i soldi?!» gridò Matilde per la seconda volta, con la testa avvolta in un asciugamano e lo smalto fresco sulle unghie dei piedi. Non ottenendo risposta di ritorno decise di andare direttamente alla fonte, aprendo la porta della camera di Costanza senza premurarsi di bussare.
«Ma sei sorda?» chiese venendo investita dalla voce di Ella Fitzgerald dal grammofono che sua sorella aveva prelevato da casa dei nonni il natale scorso. Matilde era decisamente più progressista di lei ma l’aveva lasciata fare, salvo poi scoprire la potenza acustica di quello che lei chiamava ancora “aggeggio” e pentirsi di non aver fermato Costanza.
«Non lo so, credo nel cassetto in cucina» rispose distrattamente, ammettendo di aver sentito la domanda e di essere stata troppo distratta per rispondere. Con la stessa delicatezza con cui era apparsa, Matilde sparì al piano di sotto, cercando di reperire soldi e telefono per chiamare Tonno e dirgli di far sapere ad Ambra di portare altre birre per la serata.
“Summertime and the livin’ is easy” cantava Ella dal grammofono, mentre Costanza chiudeva di nuovo la porta per evitare la polemica telefonica che sarebbe insorta tra sua sorella e Ambra di lì a poco. “Fish are jumpin and the cotton is high” mormorò calcando la voce della Fitzgerald. Sua sorella non apprezzava i suoi gusti musicali, e delle volte Costanza pensava che fosse così perché in effetti Matilde non riusciva a concepire niente di quello che usciva dagli schemi che lei tracciava per sé e che imponeva agli altri.
«Ambra ci porta un’altra cassa di birre» annunciò facendo capolino dallo stipite della porta. Costanza annuì docilmente, il pettine scivolava veloce tra i capelli ancora umidi, e lei si sentiva stordita, in parte per la doccia bollente appena fatta e in parte per l’incenso che aveva acceso sulle note di Summertime.
Matilde restò ferma lì, sullo stipite, persa ad osservare sua sorella e le sue movenze da gatto appena sveglio, con quel languore particolare che ha la pigrizia e chi non ha fretta alcuna nella vita.
“Oh your daddy is rich and your ma is good lookin’” cantavano le due donne e Matilde decise di entrare nella stanza, lanciandosi sul letto con i capelli ancora avvolti nell’asciugamano.
Costanza non era particolarmente intonata, troppo lenta negli attacchi, ma quella canzone la cantava da dio secondo Matilde, perché sembrava perfettamente cucita su di lei, con quel ritmo lento e pacato, e quel tono carezzevole che Costanza a volte riservava a se stessa e ai propri desideri, anziché agli altri.
Era il ritratto della loro famiglia, un padre che ti garantisce tutto quello che puoi desiderare e una madre che ti ha fatto bella senza alcuna fatica, ma che si è dimenticata di insegnarti come si vive e come si sta al mondo; come bisogna proteggersi dalle brutture che scalfiscono l’innocenza di ogni persona con l’età della consapevolezza.
“So hush little baby, don’t you cry” andava avanti la canzone e Costanza improvvisava un lento con la stampella che reggeva il suo vestito per quella sera. Matilde la guardava con espressione ironica, segretamente intenerita dal suo modo di fare, dalla caparbietà con cui cercava di addomesticare il senso di abbandono dei loro genitori. Non l’aveva vista piangere spesso da quando la conosceva, dosava con parsimonia anche le lacrime. All’inizio fiduciosa, poi cosciente dei propri limiti e del disinteresse degli altri. Si ergeva una sorta di barriera tra Costanza e il mondo: teneva tutti a distanza, con estrema cortesia, ma senza mai concedere troppo all’altro. Matilde cercava da sempre di abbattere quella barriera, per allungare le mani e chiedere altro dal resto del mondo, proponeva uno scambio, si metteva in vendita tanto quanto era disposta a comprare, pur di evadere dalla sua parte di barricata. Costanza era l’esatto contrario. “One of these mornings
you’re goin’ to rise up singing” proseguiva Ella e Matilde aveva sempre avuto l’impressione che quelle parole Costanza le avesse rubate e segregate da qualche parte dentro di sé, scambiandole per una promessa a cui credere ogni tanto, solo per non sprofondare nel baratro del cinismo, che aiuta a vivere nel mondo ma ti inaridisce l’anima. “Then you’ll spread your wings, and you’ll take the sky-” poi Matilde decise deliberatamente di spegnere l’aggeggio.
«Beh?» sbuffò sua sorella, tirandole la spazzola.
«Quando eri piccola te la cantavo io questa canzone».
«No Ilde, era mamma» la redarguì Costanza con massima sicurezza e una leggera nota di orgoglio nella voce. Matilde sorrise perché era vero. Loro madre per un periodo era stata una donna serena, se non felice e cantava sempre qualcosa in giro per casa quando tornava dal lavoro. Era stata lei ad abituare entrambe a vivere circondate perennemente dalla musica. Qualsiasi cosa facessero infatti, avevano sempre delle note su cui rimbalzare.
Alessio Brandi scherzava ogni tanto, ai tempi in cui aveva ancora voglia di ridere un po’, e diceva a sua moglie che Matilde e Costanza camminavano su un pentagramma, in punta di piedi, e allora Costanza era la chiave di violino e Matilde la chiave di fa.
«Stasera niente Ella» comunicò la maggiore, alzandosi dal letto per andare a vestirsi.
«Lorenzo si esibirà in un concerto personale?» la prese in giro l’altra, armeggiando con il grammofono per farlo ripartire. Il sorriso indisponente di Matilde si velò appena.
«Non credo che verrà» proclamò infine in tono apocalittico, in una caricatura di se stessa.
«E’ il vostro problema» osservò a mezza voce Costanza, inascoltata da Matilde. «Parlate sempre al posto dell’altro» finì puntellando il disco. Ella riprese fedele da dove era stata interrotta.“But till that morning, there is a nothin’ can harm you, with daddy and mammy standin’ by...”
Le venne da ridere, d’improvviso, sul finire della canzone, ricordandosi di un gioco stupido che aveva inventato loro padre.
Chiave di violino e chiave di fa.
°°°
Nobody ever loved me like she does
Oh, she does, yeah, she does
And if somebody loved me like she do me
Oh, she do me, yes, she does
Don't let me down, don't let me down
Don't let me down, don't let me down
Ambra fece il suo ingresso in casa Brandi - Ferretti componendo al citofono una sonata di Mozart con evidenti contaminazioni punk-rock, inveendo contro Matilde una volta che le venne aperta la porta di casa. Alle sue spalle Marco entrò dopo di lei, fingendo di trovare quello scenario perfettamente normale: la sua ragazza preda della furia di un erinni, Matilde mezza nuda che pretendeva di rispondere a tono con uno spazzolino da denti in bocca e le due casse di birra abbandonate nell’atrio, sotto il naso del portiere, perché Ambra aveva deciso che si trattasse di una questione di principio e di rispetto dei diritti sindacali dei lavoratori subordinati.
«Vuol dire che sei alle dipendenze di Matilde?» le aveva chiesto pacato in ascensore. Ambra gli aveva tirato una gomitata piena di amore.
«Per ora sì, facciamo a turno» spiegò lei consapevole che il proprio turno durava sempre più di quello di Matilde. Ma andava bene anche così, perché Ambra aveva buona memoria e credeva nella fedeltà, quindi non avrebbe mai dimenticato la volta in cui Matilde aveva attraversato tutta Roma sotto la pioggia in motorino dopo la chiamata accorata che le aveva fatto in seguito al tradimento di Marco.
«Tua sorella?» chiese, alle spalle di Matilde piuttosto che a lei, Marco - il fedifrago - guardandosi attorno con fare un po’ perso.
Casa Brandi - Ferretti era immacolata nel suo ordine simmetrico, ogni oggetto aveva una propria collocazione, osservò un po’ in soggezione. Le uniche note di colore, macchie di vita, in quella enorme sala chirurgica erano le tracce di Matilde, i segni del suo disordine e della sua confusione, che ridimensionavano l’algida bellezza architettonica della libreria nel salone, del frigorifero nella cucina, della porta-finestra in camera da letto di entrambe le sorelle. Matilde era l’unica ad abitare quella casa, tutto sommato, e nessuno sembrava rendersene conto.
«In cucina» lo informò Matilde sputando il dentifricio nel passare dalle parti del bagno.
Ambra era a proprio agio lì dentro, con il tempo aveva perso la sensazione terribile di poter sporcare qualcosa con un solo respiro. Forse perché non aveva mai frequentato quel posto in presenza dei padroni di casa. A ben vedere nessuno aveva mai avuto tale privilegio al di fuori di un festino dei soliti, dove però c’era poco tempo e poca capacità intellettiva per cogliere la sensibilità di certi particolari, violando senza intenzione e con sincera curiosità i segreti e le particolarità della vita di chi vive in una casa.
Matilde non nascondeva niente di sé, lasciava tutto in giro, adagiato su ogni mobile, mettendo inconsapevolmente in mostra tutto quello che aveva a disposizione, occupando ogni spazio, lasciando impronte della propria presenza perché tutti la notassero. Per questo Marco inciampò nella custodia della sua chitarra classica, nell’angolo del corridoio.
Di Costanza non c’era ombra né segno. Custode dei propri effetti, tenuti come reliquie dei suoi successi e dei propri interessi nella sua stanza, l’ultima del corridoio, affacciata sul cortile posteriore della palazzina, nascosta grazie ad una tenda alla vista dei curiosi nullafacenti che alzano lo sguardo dal marciapiede portando fuori il cane. Per trovare realmente qualcosa che appartenesse a Costanza, al mondo dei suoi affetti e delle sue importanze, dovevi sapere dove fosse. Il resto, tutto quello visibile a prima vista sui ripiani della sua libreria, sul tavolo di studi, sul porta-cd accanto allo stereo, era solo la superficie, un assaggio del piatto principale, segreto dello chef.
«Ciao Altavilla» la salutò Marco, affacciandosi in cucina con un sorriso gentile e un po’ guardingo.
Costanza era in piedi su una sedia, nel tentativo di raggiungere l’ultimo bicchiere da cocktail in fondo alla credenza. Abbassò lo sguardo per salutare quella voce che avrebbe preferito non sentire, e nell’incontrare i lineamenti di Marco ammorbidì le labbra in un sorriso un po’ languido e un po’ evanescente, quasi distratto.
«Come vanno domande ed offerte?» le chiese, prendendo un'altra sedia e finendo il lavoro per lei. Costanza prese il bicchiere che le stava porgendo, sbuffando una ciocca di capelli di troppo. «Ho trovato il punto di equilibrio» replicò scendendo dal trabiccolo con la solita grazia, senza fare rumore. Marco invece riportò la sedia al proprio posto risvegliando il sonno dei morti.
Ambra e Matilde fecero irruzione nella stanza in quell’esatto momento e con aria complice decisero di ignorare gli strani messaggi che i due si stavano scambiando. “Roba da economisti cervellotici” era l’etichetta che avevano scelto per i discorsi che avvenivano tra i due. Matilde per quel che ne sapeva era certa che tra l’intersezione tra curva di domanda e curva di offerta giaceva il suo collo, crudelmente soffocato, o si immaginava ghigliottinata a tradimento dalla linea di bilancio, giunta trasversale tra le due senza annunciare niente, infida. Costanza scuoteva la testa e le intimava di lasciarla in pace, di andare a crogiolarsi altrove nella propria ignoranza e nella scarsa volontà di conoscere il nuovo. Matilde brontolava un po’ ma poi la lasciava sempre in pace.
«Bene» replicò Marco un po’ impacciato, senza accorgersi della presenza delle altre due. Costanza scivolò fuori dall’argomento con un cenno della testa, sfuggente come lei, poggiò il bicchiere accanto agli altri sul vassoio e lo portò in salone, ondeggiando appena sotto il peso, in rigoroso silenzio.
Lo stesso silenzio in cui aveva avvolto il segreto di quel pensiero. Che quei due mesi passati con Marco in clandestinità erano l’unico ricordo piacevole di un contatto umano. Ma era bene che non si sapesse.
°°°
And from the first time that she really done me
Oh, she done me, she done me good
I guess nobody ever really done me
Oh, she done me, she done me good
Don't let me down
Don't let me down, don't let me let down
Can you dig it? Don't let me down
Quando Lorenzo fece il suo ingresso, in un ritardo drasticamente naturale e niente affatto calcolato, casa di Matilde ospitava già tre quarti della facoltà di sociologia, qualche anima sparsa e accuratamente selezionata da Costanza tra gli studenti di economia del suo corso, e una lunga serie di imbucati e di amici di amici inesistenti, quindi nessuno si accorse del suo arrivo insieme agli altri fino a quando Strummer non andò a sbattere contro la lampada da terra nell’angolo del salone.
Matilde sopraggiunse preparandosi al peggio, e il sollievo nel trovare intatta la lampada preferita di sua madre andò del tutto sprecato non appena accanto ad uno Strummer sinceramente afflitto, scorse il profilo di Lorenzo, molto impegnato in una discussione con qualcuno.
«Ti sei alzato presto» lo prese in giro, costringendolo a volgere la propria attenzione su di lei.
Nel voltarsi Lorenzo seppe già di essere in trappola, ma non mostrò alcun segno di stupore o di preoccupazione. Matilde gli puntò i propri occhi addosso, una tattica che con suo padre aveva sempre funzionato, che fosse una richiesta o si trattasse di un’accusa.
Abituata agli occhi bassi di un genitore gravato da immemori sensi di colpa, Matilde scoprì di non essere assolutamente in grado di gestire gli occhi fuggenti di Lorenzo, che, quando voleva, si posavano ovunque tranne che in quelli del suo interlocutore. Il tutto condito da quell’aria di noncuranza tipica del loro proprietario, che non mostrava mai alcun cenno di disagio o di inquietudine, quanto più di scarso interesse o momentanea insofferenza.
«Avevo finito le birre a casa» rispose mostrandole la bottiglia che aveva in mano. Le labbra però disegnavano un sorriso che recava una certa affettuosità dietro le pieghe del suo sarcasmo. Era come se stessero giocando di nuovo una partita di cui solo loro conoscevano le regole e che la rendeva privata agli occhi di tutti gli altri. Matilde cercò di non cedere all’invito, di restare ferma sulla sua posizione, più in alto di lui, sulle punte della propria sicurezza in se stessa, sull’onda del tono sostenuto con cui gli si era rivolta. Ci provò davvero, in tutti i modi.
«Ehi Matì, come-» cercò di intervenire Strummer tenendosi il più possibile lontano dalla lampada.
«Benissimo, grazie» tagliò corto Matilde senza aspettare che finisse la frase, dopodiché voltò loro le spalle, non prima di aver lanciato uno sguardo perforante e carico di minacce di vendetta a Lorenzo, tradendo ogni suo proposito di ignorarlo o farlo sentire infimo quanto uno zerbino sul pianerottolo di un centro d’accoglienza.
Strummer seguì l’ondeggiare dei suoi passi sulle zeppe estive, scuotendo la testa.
«Sarà il fascino dell’artista, Lorenzo» mormorò a mezza voce, rubandogli la birra e prendendone un sorso generoso. Non gliela restituì. «…perché per il resto sei un vero imbecille, con le donne» concluse portandosi via la bottiglia verso lidi sconosciuti.
°°°
I'm in love for the first time
Don't you know it's gonna last
It's a love that lasts forever
It's a love that had no past
Don't let me down, don't let me down
Don't let me down, don't let me down
[Don’t let me down - Beatles]
«Lo detesto!» urlò Matilde tre stanze più in là, sbattendo l’anta dell’armadio dei suoi genitori.
«Idiota» proseguì, sbuffando e lasciandosi cadere sulla sedia accanto alla cassettiera, esattamente sopra la pila di magliette di lino di sua madre, stirate quella mattina da Sofia. «E’ veramente uno stronzo. Avevo finito le birre a casa! Ma muori, cretino!».
A quel punto Marco trovò impossibile concentrarsi ulteriormente, e con un sospiro allontanò la propria mano da sotto la maglietta di Ambra.
«Mati, dovevi metterlo in conto» replicò con inspiegabile pazienza Ambra, mentre si alzava dal letto, ignorando del tutto la frustrazione del suo ragazzo.
«Perché non te ne trovi un altro?» suggerì Marco, ritenendosi molto più pratico delle altre due. Ambra lo guardò come se avesse bestemmiato in chiesa e scosse la testa.
«Perché non vuole un altro. Lei vuole Lorenzo».
«E lui non la vuole, quindi è una perdita di tempo. E mentre lei perde tempo, amore mio, lo perdiamo anche noi. Come adesso. Scusa Matilde, niente di personale-»
«Non è vero che lui non mi vuole! Altrimenti perché mai sarebbe venuto qui stasera?» domandò sinceramente affranta Matilde, aprendo l’armadio in cerca di qualcosa d’altro da mettersi addosso. La serata era iniziata male, aveva già bisogno di voltare pagina.
«Perché non aveva più birre a casa».
A parte il gemito con cui Matilde si accasciò melodrammatica a terra, calò il silenzio nella stanza. Marco evitò accuratamente di incontrare lo sguardo della sua ragazza, onde cercare di non trasformarsi in pietra, in un maiale o in un mucchietto di concime di lì a trenta secondi.
«Matilde, tesoro. Alzati, mettiti quella camicia viola lì- no, non quella, l’altra. Ecco, ripassati un po’ il trucco, torna di là e digli tutto quello che pensi di lui. Adesso che è ancora sobrio, altrimenti avrà la scusa di non ricordarsi niente».
Matilde si sfilò il vestito lanciandolo sul letto, e Marco pensò che se fosse uscito vivo da quella serata, avrebbe avuto la conferma di essere ad un passo dall’immortalità.
«Che gli diresti?» proseguì Ambra, molto presa dal suo training. Matilde ci pensò su, ma poi si distrasse guardandosi allo specchio.
«E’ il reggiseno, si vedono troppo le spalline» le suggerì l’altra, accendendosi una sigaretta, in camera dei genitori di Matilde. Marcò scattò in piedi esasperato quando Matilde aprì il cassetto della biancheria di sua madre.
«Che lo amo?»
«Vado a farmi un giro» urlò quasi, uscendo dalla stanza a passo marziale e immergendosi nella folla di persone nel salotto.
«No, troppo diretto» meditò Ambra, facendo cenno a Marco che lo avrebbe raggiunto dopo.
«E poi forse non lo amo. Ci tengo solo a lui».
«Anche io lo dicevo, di Marco. Quando ho saputo che mi tradiva ho pensato di ucciderlo, poi però ho pensato che non lo avrei più avuto, mai più intendo, e mi sono sentita malissimo. Quindi me lo sono ripreso».
«…quindi? Lo ami? Anche se ti ha tradita?».
Ambra aprì la finestra, per far uscire l’odore di fumo dal copriletto. Lo sguardo perso nelle luci lontane della città eterna in piena notte.
«Ho pensato che potesse capitare» rispose, scrollando la cenere di sotto. Matilde si sedette sul letto, guardando confusa il profilo sottile di Ambra. La prima volta che si erano conosciute, intrappolate nelle trafile burocratiche della segreteria studenti universitaria, non avrebbe scommesso neanche un centesimo su di lei.
Con quella pelle così bianca e l’aria evanescente. Nel tempo in cui si era soffermata a pensare a quanto poco spazio avesse nel mondo una come lei, Ambra era già arrivata in cima alla fila, sfruttando tattiche tutte sue. Era passata del tutto inosservata. E in quel modo aveva superato dieci persone, con una grazia inaudita. In quel momento Matilde aveva riconosciuto in lei una sfacciataggine elegante e irrisoria, e le era piaciuta subito quella dicotomia che racchiudeva la sua persona.
«E poi lui è tornato da me».
Matilde si riscosse di colpo. Ambra aveva lanciato la sigaretta dalla finestra, e ora la guardava con una calma infinita nello sguardo e nei lineamenti del volto.
«Avrebbe potuto lasciarmi, o aspettare che io lo lasciassi, avrebbe potuto correre da quell’altra. Invece è tornato da me. A quel punto, io me lo sono ripreso. Credo di aver fatto bene» confessò, avvicinandosi alla porta, sentendo il bisogno di cercare il suo profilo tra la gente, nella casa, e riconoscerlo da lontano, e aspettare immobile che lui avvertisse la presenza del suo sguardo su di sé e voltandosi verso di lei le facesse cenno di raggiungerlo.
«A volte ho dei dubbi, ma la maggior parte delle volte credo di aver fatto bene» aggiunse abbassando la maniglia e aprendo la porta.
Matilde finì di cambiarsi, chiedendosi cosa sarebbe successo, di cosa sarebbe stata capace, se avesse visto Lorenzo con un’altra ragazza, magari con una donna, dopotutto sarebbe stato anche in grado di mirabolanti opere seduttive di quel genere.
Per quanto si sforzasse di immaginarsi la situazione, non riuscì ad ottenere alcuna risposta. Le sembrava troppo surreale. Lorenzo era talmente suo, nonostante la sua ostinazione a darle torto in merito, che trovava inconcepibile l’idea di saperlo innamorato di qualcun'altra.
Inconcepibile.
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