Titolo: Luna Rossa
Fandom: Originale, sovrannaturale
Avvisi: Incest
Rating: VM18
Parole: 7.544 (W)
Prompt: Partecipa al contest
La nicchia e la luna, e i prompt in questione era appunto la nicchia (interpretabile a piacere) e la luna (che avrebbe dovuto essere un personaggio), arrivata decima.
Note: Tutto ciò è dedicato a
Linda, perchè quando me ne esco fuori dicendo "Argh, sto per scrivere una scena incest ç__ç" lei invece di rispondermi "Ma sei malata, fatti curare" mi fa: "AWWWWWWWWWW! Verrà benissimo *_*" ç___ç l'adoro tanto.
Disclaimer: Tutto. Mi. Appartiene.
Quando era più piccola si affacciava ogni sera alla finestra. Ricordo che aveva appena imparato a gattonare e che gironzolava per casa diretta verso una finestra precisa, a seconda dell’orario, per poi restare con gli occhioni spalancati a fissare fuori, incantata.
Non ne ho la certezza, ma sono sicuro che già da allora osservasse la luna.
Per un po’, durante l’infanzia, si era accontentata di guardare il cielo dal balcone della sua camera: papà le aveva persino messo un telescopio e a dieci anni conosceva più costellazioni di me, che ne avevo quindici. Ma già l’anno dopo prese il vizio di sgattaiolare sul tetto (come se cercasse di avvicinarsi a qualcosa).
I nostri genitori si arrabbiarono, tuttavia non potevano certo legarla al letto, perciò tra punizioni e litigi riusciva sempre a portarsi dietro la sua copertina e restare con il naso all’insù per cinque minuti buoni - ore, in estate.
Quando si abituarono alla cosa, cominciarono ad ordinare a me di chiamarla per andare a dormire - i pregi di essere un fratello maggiore. La trovavo sempre sdraiata, con lo sguardo perso.
Ogni volta sbottavo: “Ma che diavolo ci fa qui, tutte le sere?”
Lei alzava le spalle e non si curava di rispondermi.
Mi rendevo conto che mia sorella era speciale. Insomma, quasi tutti i fratelli maggiori vogliono bene alle proprie sorelle, e cercano di proteggerle, ma non credo siano in molti quelli consapevoli - e soprattutto spaventati... - da una sorta di differenza tra lei e il resto del mondo.
Per questa sua particolarità, forse, fin dalla sua nascita, ho sempre avuto chiaro in testa che dovevo proteggere mia sorella. Anche da piccolo mi aggiravo torvo vicino alla sua culla, pronto a mettermi tra lei e qualsiasi estraneo cercasse di prenderla in braccio e, appena uno dei miei genitori dava il permesso a un loro amico di coccolarla, rimanevo lì a fissarlo, a controllare che non le facesse del male.
All’epoca ero convintissimo che fosse mio dovere; temevo che prima o poi qualcuno me l’avrebbe portata via da sotto il naso, se non fossi stato attento.
Restava, comunque, tutto nella norma: da bravo fratello maggiore le facevo anche dei dispetti poco carini, mi lamentavo continuamente di lei e credo di aver innocentemente attentato alla sua vita, qualche volta. Cose normali. Ma lei non lo è mai stata.
Era una consapevolezza che nessuno di noi aveva accettato del tutto: è già difficile fare i conti con qualcosa fuori dall’ordinario nella propria comunità, figuriamoci con qualcosa che hai in casa e che ti è sorella o figlia. Laura aveva un ruolo preciso da interpretare... e lo stava anche facendo bene. Non era una rompiballe esagerata, portava buoni voti a scuola e non dava problemi. Vista dall’esterno era solo una ragazzina come tante, forse con l’umore un po’ variabile.
Ma ci sono cose di cui puoi accorgerti solo stando a stretto contatto con... persone simili.
Nei suoi momenti di calma sembrava la ragazza più sicura di sé del mondo, come se fosse a conoscenza di chissà quali segreti e che questi la rendessero più forte di quanto noi potremmo mai essere; negli attimi di disperazione e rabbia, invece, si chiudeva a riccio e non parlava per giorni.
E aveva sempre ragione.
Se diceva che l’indomani avrebbe piovuto o che la Juventus avrebbe vinto la partita di calcio, quello accadeva. Una volta aveva affermato, a cena, che non dovevo preoccuparmi della mia interrogazione: la professoressa ovviamente non si presentò a scuola. Sapeva che ci saremmo trasferiti e venne a dirlo a me, per primo, lasciandomi sbigottito all’idea che mamma e papà ne avessero parlato solo con lei (non l’avevano fatto) e stupito quando ci chiamarono per dircelo insieme.
Conosceva il nome della ragazza che mi avrebbe spezzato il cuore ancora prima che la incontrassi (“Dovresti stare attento, sai? Quella Giulia non mi piace.” “Guarda che non conosco nessuna Giulia”), sapeva quali studi avrei preso mentre ancora mi torturavo per la scelta delle superiori (“Dovreste fare a Vinci l’abbonamento per il treno”), le promozioni di papà (“Ora potete comprarmi il computer, vero?” “Amore, lo sai, quando avremo soldi.” “Ma mettiamo caso che domani capiti una cosa bella, voi mi promettete che la prima cosa sarebbe comprarmi il computer?” “Certo, piccola.”), e persino il giorno in cui tutto finì, per quanto non riuscisse a capirlo completamente (“Non sei felice che finiscano le scuole?” “Non mi piace, giugno”).
... e se le facevi un torto, ti succedevano cose. Dettagli da niente. La maggior parte delle volte.
Una caduta, una bici rubata, un orrendo taglio di capelli, l’autobus che non arriva e la verifica a sorpresa proprio quel giorno. O un figlio che scompare.
I nostri nuovi vicini non le piacevano per niente: li odiava. Il loro figlio maggiore, che aveva la sua età - otto anni -, la prendeva in giro e convinceva gli altri bambini ad unirsi a lui nelle sue cattiverie. I suoi genitori sorridevano pazienti: “È solo un bambino!”
Sorrisero anche quando mia sorella tornò a casa dall’ospedale con il braccio ingessato: “I piccoli sono fatti di gomma!” E quando a scuola cominciarono gli atti di bullismo, “Le maestre accusano nostro figlio per avere una scappatoia: sono loro le incapaci!”
Una mattina la trovai tranquilla, sul divano, come non capitava da molto - era sempre nervosa e con le lacrime agli occhi da quando erano arrivati gli adorabili vicini.
“Ehi mocciosetta, che c’è? Bella giornata?”
“Non per tutti.”
Disse così.
Il ragazzino sparì e i genitori del bambino non sorrisero più.
Arrivarono polizia e carabinieri, fecero domande e perquisirono qualche casa. Alla fine i nostri vicini se ne andarono, rimase solo una storiella da raccontare ai bambini che tardavano nel tornare dai propri genitori.
Fingere, dimenticare, catalogare tutto come “impossibile” o “coincidenze” era diventata un’abitudine. Le sue profezie non ci scuotevano, quello che accadeva di brutto attorno a lei neanche: rompeva le balle in maniera normale e portava buoni voti a scuola, di conseguenza era una brava sorella e figlia. Non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Tranne il tetto.
Ovviamente mamma e papà avevano il terrore che cadesse da lassù e si rompesse l’osso del collo, quasi ogni sera ricominciava la lite, ma alla fine lei l’aveva vinta, e riusciva a rifugiarsi lì.
“Perché non puoi farti bastare il telescopio!” sbottò una volta papà, al limite della sopportazione.
“Perché voglio starle vicina!”
“Ma vicina a chi! ”
Non era nemmeno una vera domanda, perché bene o male avevamo intuito a chi - o cosa - volesse stare vicina. Era solo un tentativo di riportare la normalità, neanche troppo convinto.
Quando compì tredici anni le cose degenerarono. Cominciò con il suo compleanno - c’era la luna piena.
Le sue amiche avevano organizzato una serata in discoteca, approvata dai miei genitori solo ed esclusivamente con la mia presenza. Avevo qualche amico da andare a trovare, si trattava solo di darle un’occhiata di tanto in tanto, quindi non mi dispiaceva nemmeno.
Mi spiaceva dover aspettare che quel mostriciattolo si desse una mossa - ero seduto sul divano e ricordo di essermi lamentato più e più volte con i miei genitori. Loro roteavano gli occhi.
“Sono pronta!” strillò Laura, e io mi alzai di scatto per andare in corridoio, aspettando di poter uscire.
Lei sbucò all’improvviso, ed era bellissima. Indossava un vestito bianco, corto, i capelli biondi sciolti e aveva un sorriso luminoso. Il problema era che a guardarla i miei pensieri iniziali non erano affatto fraterni - mi piaceva, mi piaceva veramente, e non nel modo giusto in cui può piacere una parente. Non riuscivo nemmeno a distogliere lo sguardo da lei.
Era come se… beh, era come se tutto quello che di bello ci fosse in lei, ogni piccolo particolare, fosse stato enfatizzato: le gambe, gli occhi, il seno, tutto. Risplendeva. Laura risplendeva. Ed era una sensualità inconsapevole, lei non se ne rendeva conto, e questo la rendeva ancora più stupenda.
“Beh, come sto?”
“… fila subito a cambiarti!”
“Cosa?”
“Laura, cambiati!” sbottai, infastidito e confuso. Non volevo che altri la vedessero così.
“Che succede ora?” i nostri genitori ci raggiunsero e, beh. La videro e si zittirono - potrei giurare di averli visti guardarla come io l’avevo guardata.
“Vinci dice che devo andarmi a cambiare.” sbuffò lei, incrociando le braccia, e la sua espressione corrucciata non mi era mai sembrata così adorabile, bella, erotica. Non che mi sia mai sembrata erotica - forse certe sere particolari, ma non è questo il punto.
“Certo che deve andare a cambiarsi!” la mia voce cominciava a diventare alquanto stridula: “L’avete vista?”
Oh, sì. L’avevano vista.
“Sono vestita in modo normalissimo!” replicò lei.
La mamma tossì, nel tentativo di recuperare la voce: “Forse, ehm, tuo fratello non ha tutti i torti, Laura.”
Lei la guardò come se fosse impazzita. “Stai scherzando?!”
“Cerca qualcosa di più adatto.” mormorò nostro padre.
Laura emise un grugnito di rabbia e a passi pesanti ritornò in camera sua.
Laura si cambiò di abito. E anche quello andava malissimo, nel senso che le stava fin troppo bene. E ancora, e ancora, e ancora. Tanto che entrai io in camera sua e le ordinai di indossare un maglione largo e un paio di pantaloni orrendi - niente da fare. Sembrava che qualunque cosa, indosso a lei, diventasse immediatamente meravigliosa. Da stupro, letteralmente.
“Niente, non c’è niente!” sbottai, sfinito.
“E allora tanto vale che mi metta il vestito che avevo scelto io, no?”
Ero troppo stanco per ribattere.
Una delle serate peggiori della mia vita. Era cominciata con il suo profumo in macchina - fortissimo e incredibilmente buono - che mi appannava i pensieri, cercavo di restare con gli occhi e la mente fissi sulla strada per distogliere l‘attenzione da Laura. Lei canticchiava le canzoni della radio, tranquillamente. Era contenta e stupenda - stupenda, stupenda, stupenda.
Non ero bravo nell’evitare il pensiero di lei e della sua bellezza. Quando giungemmo alla discoteca tirai un sospiro di sollievo, ma per poco.
La guardavano tutti. Almeno, tutti i miei amici. Non eravamo nemmeno scesi che un mio compagno di scuola mi era venuto incontro, sorridendo a me, per poi far passare lo sguardo su mia sorella - e il suo sorriso era cambiato.
“Ehi, chi è questa bella ragazza?!
“Levati di mezzo.”
Avevo preso Laura per il polso e trascinata all’interno. E all’interno le cose non migliorarono affatto.
Venne circondata dalle sue urlanti amichette, che, ecco, appena si decisero a guardarla bene ne furono completamente incantate. È questa la parola giusta: incantate.
Avevano cominciato anche a toccarla - qualsiasi scusa per sfiorare i capelli, le gambe, il viso. Laura ad un certo punto diede qualche leggera sberla per allontanarle, ridendo, ma sembrava stranita dal loro comportamento.
Non mi preoccupavo delle sue amiche: sapevo benissimo che non le avrebbero fatto niente, avevano un domani da affrontare insieme a mia sorella, nessuna di loro sarebbe stata così sciocca da rovinare un futuro insieme a quella creatura così meravigliosa che per qualche assurda ragione era piombata lì. Sapevo perfettamente cosa tratteneva loro, perché era la stessa motivazione che tratteneva me.
Io ero occupatissimo a togliere di torno ogni persona che le si avvicinava per provarci, compresi gli amici della mia comitiva, ma stranamente nessuno di quei ragazzi o ragazze sembrava voglioso di litigare per Laura (eppure la desideravano, glielo si leggeva negli occhi).
Urlavamo al di sopra della musica per capirci, e quando i loro visi si alteravano per la rabbia bastava che lei sorridesse nella mia direzione, o il suono della sua risata o della sua voce, per calmarli improvvisamente.
Solo uno riuscì a sfuggire al mio controllo, e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Stavo per fiondarmi su di lui e ucciderlo, penso, però lei si voltò e disse: “Mi spiace davvero, ma non sono interessata.”
Il ragazzo rimase lì immobile per qualche secondo - lo conoscevo di fama, e non era una buona fama - poi si alzò e, giuro, sembrava avesse gli occhi lucidi.
“Ok. Come vuoi.”
Tutto qui.
Si addormentò sulla spalla di una sua amica. Non so come sia possibile addormentarsi in una discoteca, ma immagino che con tutte le sue capacità questa fosse una delle minori. Le altre la guardavano e sembravano incredibilmente tranquille, pacifiche, come se stessero dormendo a loro volta. Le avevo viste scatenarsi mentre Laura si scatenava, ridere mentre Laura rideva e infine calmarsi di colpo quando Laura si era calmata.
Dopo un po’ mi avvicinai per prenderla in braccio.
“Avete bisogno di un passaggio per andare a casa?”
Scossero la testa, docilmente, senza dire una parola. Mi sembravano sotto l’effetto di una droga.
Camminando per la discoteca con Laura, ad ogni mio passo, la gente si calmava. Dei balli frenetici restava poco e nulla, solo un penzolare di braccia, se non si fermavano completamente (alcuni posavano lo sguardo su di noi, e ci abbandonavano solo quando eravamo fuori dalla loro vista). Tuttavia, nessuno ci seguì o cercò di avvicinarsi, come temevo.
… o come avrei temuto pensandoci dopo. Non temevo nulla in quel momento. Ero troppo calmo.
Non fu la cosa più facile del mondo aprire la portiera mentre lei ancora dormiva e riuscire a posarla sul sedile (ricordo di aver pensato che mangiava troppo poco, che era troppo leggera).
Solo quando mi rialzai per chiudere lo sportello, con l’aria fredda a darmi una mano, riuscì a riflettere con più chiarezza. E per qualche assurda ragione alzai gli occhi verso il cielo. La luna piena.
Non so quanto tempo restai lì imbambolato, ma non mi mossi prima di aver detto, di istinto: “Perché non la lasci in pace?”
Le mie parole avevano stupito me per primo. Laura stava ancora dormendo, per fortuna, e non c’era nessuno nei paraggi. Mi misi in macchina e il suo profumo così forte tornò a tormentarmi.
Pensandoci adesso, rimpiango di non essermi fatto una maledetta sega lì, con lei vicino ma addormentata, inconsapevole. Mi sarei sentito uno schifo per tutto il resto della mia vita, però lei ne sarebbe uscita pulita, innocente.
Invece digrignai i denti e misi in moto.
Mi calmai, entrando in casa - la porta aperta, mamma e papà ci aspettavano svegli in salotto.
“Viva e vegeta.” li tranquillizzai, con Laura ancora in braccio. Mi sorrisero e io mi diressi verso la stanza di Laura, mentre loro andavano in camera da letto. L’unica cosa che riuscivo a sentire bene era il fiato di Laura sul mio collo, sapete.
La sdraiai, e lo sguardo mi cadde sulle sue labbra (erano sempre state così piene e belle?), per poi passare al corpo (che era longilineo e stupendo). Mi ero già chinato per poterla stendere e ancora non mi ero rialzato - immagino che il mio primo errore fu accarezzarle il viso, perché non riuscii più a distogliere l’attenzione. Le labbra, soprattutto.
Non riuscivo a pensare ad altro quando la bacia.
Ero convinto che mi sarebbe bastato sfiorarle, invece le cose peggiorarono e basta - aveva un sapore troppo buono, e io volevo qualunque cosa lei potesse darmi. Fu, ovviamente, il bacio a svegliarla, mugolò qualcosa e poi ricambiò, gentilmente. Mi rialzai solo per riprendere fiato. Laura mi guardava, ed era stupenda, i capelli biondi che la circondavano sul cuscino, l’espressione pacifica.
“Vinci, ma cosa stai facendo?”
Quella domanda bastò. Ero sbiancato. La paura che mi attanagliò lo stomaco in quel momento era assurda. Scattai in piedi fissandola con occhi spalancati, terrorizzato.
“Io- mi dispiace. Mi dispiace tanto.” sussurrai, o almeno tentai di dire, credo che di aver balbettato e basta, in quel frangente. Poi sono scappato dalla stanza correndo come un pazzo.
Andai in bagno a vomitare.
Mi sono sempre considerato un ragazzo normale, eppure peccavo di una particolarità. Ovviamente, avendo Laura nella mia vita, ogni possibile differenza tra me e il resto del mondo risultava quanto mai banale, ridicola, superficiale. E infatti l’ho sempre ritenuta talmente inutile da non meritare neanche di essere condivisa.
Fin da che avevo ricordo, ogni notte, sognavo sempre la stessa donna.
Una ragazza nera, almeno per quanto riguardava il corpo, dalle forme generose e il ventre piatto, gambe lunghe e unghie colorate di nero, piedi piccoli, capelli nerissimi e ricci, corti, mentre il suo viso - ovale - era bianco, lo stesso bianco di un foglio di carta, il naso piccolo e le labbra larghe, piene, due occhi piccoli e scuri, ciglia lunghe e sguardo penetrante.
Quando un amico mi chiese come fosse la ragazza dei miei sogni, descrissi questa donna - lui mi rise in faccia e mi domandò cosa mi fossi fumato, per volere una bi-colore. Da questo capii che non tutti sognano la stessa persona o cosa ogni santa notte, comprese nelle notti insonni dove nel riflesso di uno specchio o persino tra la gente vedevo la donna, per un istante soltanto. Più avanti che quasi tutti sognano persone di un unico colore, ma non mi disturbava. Non mi interessava.
Non avevo mai avuto problemi di alcun tipo con lei, d’altra parte era anche vero che mai mi aveva parlato; restava solo in silenzio, a osservarmi amichevolmente. Si comportava come un’amica dei miei genitori che li stava aspettando, ma che non sapeva come relazionarsi con il loro figlio, limitandosi quindi a guardarmi sorridendo. Non mi faceva paura né mi infastidiva, di conseguenza non sussistevano problemi di sorta.
Era tutto normale.
Mi svegliai alle cinque di mattina e uscii di casa, per non doverla accompagnare a scuola. Non riuscii a concentrarmi sulle lezioni e quel peso sullo stomaco non sembrava sul punto di diminuire. Mi sentivo uno straccio.
Nel pomeriggio mio padre mi chiamò dicendo che dovevo andare a prendere Laura; lui e la mamma erano a lavoro, non potevano muoversi, e le mie scuse balbettate su altri impegni non funzionarono.
All’uscita delle medie ero parcheggiato in doppia fila con il cuore in gola. La vidi avvicinarsi con un’amica, salutarla, ed entrare in macchina. Non aveva ancora allacciato la cintura che già ero partito: volevo separarmi da lei il più presto possibile, ma il traffico cittadino non sembrava dare una mano.
“Mi stai evitando come se fosse colpa mia.” disse.
“Cosa? No!” mi voltai a guardarla, per tornare subito dopo a controllare la strada: “Non è assolutamente colpa tua, Laura, tu non hai fatto nulla, sono stato io a-” Dio, mi sentivo un verme: “A sbagliare. E mi dispiace, davvero, io non-”
“Le mie amiche mi hanno detto che non sembravo nemmeno io.”
“Come scusa?”
“Le mie amiche. Dicono che ero strana.”
“…”
Non capivo perché mi stesse offrendo quella via di fuga. Per quale ragione mi stesse giustificando.
“Hanno blaterato roba tipo che risplendevo di luce, una stronzata così. E hanno detto che tu eri molto, molto ubriaco.”
“Non è una scusa.”
“Uhm, Vinci, sono ancora viva. Sto bene. Non mi hai accoltellata alla schiena. Lo sai, vero?”
“Ho fatto una cosa orrenda.”
“Oh, andiamo, non era neanche il mio primo bacio!”
Le lancia un’occhiataccia.
“Vincenzo, sei mio fratello e ti voglio bene, non voglio perderti per uno stupido errore da niente. Ok?”
Sì, ero commosso dalle sue parole, sì, avevo provato un moto d’affetto nei suoi confronti, no, non mi sentivo affatto meglio. Mi sembrava che Laura non avesse la maturità per comprendere quanto quel gesto fosse grave. O che non capisse quanto avrei voluto spingermi oltre, quella notte. E se fosse successo di nuovo? Tutta la vita passata a proteggerla dagli estranei quando il vero pericolo ero io.
“Vinci, sai una cosa?” si allungò sul sedile, le sue labbra sfioravano il mio orecchio: “Baci molto bene.”
Ho sempre creduto, erroneamente, che Laura avesse acquisito le sue particolarità dalla famiglia di mamma.
Di Clara, nostra madre, sapevo solo che aveva perso i genitori molto presto, prima di conoscere papà, che non aveva né fratelli né sorelle, conoscevo quale scuola aveva frequentato e quali erano i suoi fiori preferiti: il resto restava un buco nero.
Non aveva mai dimostrato o detto di amare qualunque tipo di cibo, vestito o altro oggetto, non sembrava interessata a nulla al di fuori delle relazioni sociali - con noi e qualche amico in comune con papà -, a volte neanche sembrava vera, quando si soffermava su un pensiero o guardava lontano.
Fin da bambino ero certo che qualcuno mi avrebbe portato via Laura, come ero certo che la mamma appartenesse ad un altro luogo, molto lontano, e che presto o tardi vi sarebbe tornata. Fin da piccolo mi ero abituato alla possibilità che lei ci abbandonasse.
Eppure era una madre amorevole, ci preparava la colazione ogni mattina, faceva turni impossibili a lavoro ed era presente, per i compiti e per ascoltare i nostri problemi. Non capivo né cercavo di capire da dove saltasse fuori quella idea di abbandono: si trattava soltanto di istinto. Ed era vero. Se se ne fosse andata di punto in bianco non l’avrei odiata.
Infatti quando scoprimmo la sua vera natura non la odiai affatto.
Natura che la portava a sapere chi stesse telefonando - afferrava il cellulare senza nemmeno guardare il display e salutava con gioia chi l’aveva chiamata -, ci consigliava sempre gli abiti giusti a seconda di come sarebbe stato il tempo - beh, lo diceva a me, Laura già sapeva - e mai l’ho vista guardare il meteo in televisione o sui giornali - non ne aveva bisogno, ovviamente -, sapeva quanti compiti avevamo e si organizzava di conseguenza senza che noi le avessimo detto nulla. Ed era sempre d’accordo con papà.
La moglie e madre perfetta, creata su misura, letteralmente.
Ovviamente dovevo trasferirmi da qualche parte, molto lontano, per non nuocere mai più in alcun modo Laura, che non si rendeva conto, che non capiva. Ero nervoso e avevo litigato con mamma e papà su questo argomento: avevo tirato fuori l’idea di cercare un appartamento da qualche parte, ed era scattato il putiferio. “Dove pensi di trovarli i soldi?”, “Ti rendi conto della responsabilità che richiede avere una casa da accudire?” “E come farai con la scuola?”, “Ma se nemmeno riesci a stirarti le camice!”
Avrei dovuto immaginarlo, vero? È stato così sciocco da parte mia sperarlo.
Le cose non migliorarono affatto. Laura mi trattava normalmente, questo significava essere continuamente toccato e baciato da lei… anche se non sono certo che tutti i suoi gesti fossero completamente innocenti. C’era della malizia, solo che non volevo ammetterlo.
In tutto questo ricordo l’assenza dei nostri genitori, mi sembrava di vivere con due fantasmi ciechi e sordi. Eppure, lo giuro, amavo mia sorella, amavo la mia famiglia, non avrei voluto per nessuna ragione al mondo distruggerla.
Se avessi saputo che non era in alcun modo colpa mia, che era cominciata molti anni fa… no, le cose non sarebbero migliorate affatto.
Mi avrebbe distrutto prima del tempo, prima che potessi adempiere al mio ruolo.
Così, ogni giorno, mi arrendevo un po’. Alla sua bellezza, al suo sorriso, al modo che aveva Laura di reputare quell’avvenimento ridicolo - se non piacevole e giusto. Mi baciava continuamente sulle labbra, baci a stampo, leggeri, mi sfiorava con quelle mani delicate. E io la lasciavo fare.
I nostri genitori avevano organizzato una serata fuori. Non ero particolarmente felice di dover restare solo con Laura in casa, ma dato il poco tempo di preavviso non ero riuscito a organizzare di meglio - nessuno ha voglia di uscire fuori il martedì sera, dopo una giornata scolastica troppo lunga e una verifica per l’indomani. Annuivo docilmente ad ogni raccomandazione, poi mio padre disse: “E fai attenzione a Laura. È già scappata sul tetto?”
Rabbrividii. “Scenderà prima o poi.”
“Valla a chiamare tra quindici minuti.”
Sospirai e mi morsi le labbra mentre chiudevo la porta.
Non potevo disubbidire agli ordini di mio padre, sapete. Ero il figlio perfetto, con una pagella scolastica decente, sportivo, sempre ubbidiente e d’accordo con gli ordini e le idee date. Ero un figlio su misura.
Mi aspettava, e lo sapevo; allungò le mani verso di me e non potei fare altro che raggiungerla.
I baci, certo, vorrei averli dimenticati, vorrei fingere di non averla spogliata e accarezzata in quel modo, vorrei che lei non avesse ricambiato ogni mio gesto con altrettanta passione, vorrei che non fosse mai successo. E la luna, sapete, era enorme, dietro di noi. Si avvicinava. Lo notavo senza esserne minimamente spaventato. Ad un certo punto la accetti, l’anormalità, nella tua vita; o la accetti o impazzisci (quale strada io abbia percorso non lo so).
Laura fu sopra di me e la Luna era talmente vicina da sfiorare la sua schiena, rendendo le gocce di sudore brillanti. Non mi interessava nulla se non il piacere che stavo provando. Chiusi gli occhi per un secondo e riaprendoli vidi Laura cambiare. Le sue labbra si stavano allargando, il suo viso diventava sempre più ovale, e quando ribaltai le posizioni finendo sopra di lei le mani che mi toccavano, il corpo che accarezzavo, era diventato nero.
Quando la penetrai di mia sorella non era rimasto nulla.
Mi sentivo leggero. Ero sul tetto, e voltandomi vidi quello che dovevo essere stato io - ma un essere completamente diverso, dalla pelle chiara e gli occhi scuri - mentre faceva l’amore con quella che era stata mia sorella.
“Chi sono?” domandai, a nessuno in particolare.
“Mi sembra evidente.” Mi voltai: Laura era lì, di fianco a me, con lo sguardo fisso sui due.
“A me no, per niente.”
Lei alzò le spalle: “Capirai.”
L’orgasmo mi prese all’improvviso - anche perché improvvisamente fui ricatapultato nel mio corpo, dentro la mia pelle - le unghie di Laura ben infilzate nella schiena.
“Lei ne è felice.” Sussurrò.
Vomitai nel bagno e mi rifiutai di uscire per tutta la notte. Sentivo i passi di Laura e i suoi movimenti: era andata in sala, a guardare la televisione, poi in camera sua. Ogni tanto rideva, forse perché leggeva qualcosa, forse perché Lei le parlava.
Volevo solo morire.
(Ma non era questo il piano: non me lo avrebbero permesso).
La mattina dopo avevo due occhiaie da paura e una faccia che non doveva essere delle migliori. Mio padre mi diede due pacche sulle spalle, ridendo, e dicendo che i veri uomini sanno affrontare qualsiasi problema da soli.
“Sì, papà.” Dissi, a fatica. E lo odiai.
Non sapevo di essere così bravo ad indossare maschere finché non cominciai a farlo: a scuola, con la compagnia, persino a casa. Dopo quel sì, papà avevo ricominciato a comportarmi come la persona che non ero più. Sorridevo e mi dimostravo gentile, giocoso, socievole. Poi tornavo a casa e la farsa continuava finché non restavo solo con Laura, finché lei non mi prendeva per mano, portandomi in camera sua. Episodi come la prima volta non capitarono più, perché lei non ne aveva bisogno.
Non stavo affatto bene, ovviamente, mentre Laura si comportava come se nulla fosse successo. Oh, anch’io, ma per me si trattava di una cosa soltanto esterna. Lei stava bene anche dentro, capite?
Io non riuscivo a farmene una ragione, invece. Cercavo una spiegazione che rendesse tutto più chiaro, tutto meno sporco.
La cercavo nel presente e nel passato, provando a dare un senso a gesti e parole completamente innocenti. Però qualcosa trovai, sapete: il mio primo ricordo.
L’avevo sempre custodito perché non potesse ferirmi, ma mai dimenticato in previsione di quando ne avrei avuto bisogno.
Si trattava di mia nonna. Laura era appena nata e lei per l‘occasione era venuta a trovarci; c’era una stranissima atmosfera tra lei e papà. Non sembravano affatto felici.
Era la prima volta che la vedevo, o così mi sembrava, e l’unica cosa che desideravo era che ci salvasse. Volevo che prendesse in braccio Laura e per mano me, volevo che ci proteggesse da un nemico che non riuscivo ad individuare. Neanche la salutai tanto era forte la mia apprensione.
Stavo affogando con davanti un salvagente che non riuscivo ad afferrare.
“La bambina non avrà una vita facile.” Disse, guardando la culla da lontano.
“Mamma, smettila con queste stronzate.”
“Se solo chiedessi perdono-“
Ricordo la voce di mio padre che si trasformò: divenne come il verso di un animale pericoloso e arrabbiato.
“Vattene.”
La donna ci osservò per l’ultima volta.
“Pagheranno le tue colpe.” affermò, andando via. Mi sentii perso, abbandonato in balia del mostro.
La nonna poteva salvarci; di questo ero convintissimo. Avrei voluto parlarne con mio padre, perché almeno mi dicesse dove abitava la nonna, solo che sapevo di toccare un nervo scoperto, sapevo che a lui non sarebbe affatto piaciuto affrontare l’argomento. Non potevo irritarlo. Era contro le regole.
Dovetti inventare una bugia - oh, certo, i figli perfetti mentono solo se la menzogna in questione rende migliore la vita del proprio padre: è meglio una balla piacevole per tutta l’esistenza piuttosto che affrontare una verità scomoda -, così semplicemente uscii di casa, senza avere la minima idea di dove andare.
“Pensi di trovarla?”
Mi voltai. Era sul tetto, mi sorrideva. Sembrava molto divertita dalla cosa. Non avevo la minima idea di cosa potessi dirle. Era l’essere che donava i poteri a mia sorella, la stessa che mi aveva costretto - invogliato? - a… beh.
“Io… devo fare qualcosa.”
Rise di me, e scomparve. Però immediatamente seppi dove dovevo andare.
Presi il motorino e comincia a seguire quella scia di sensazioni, mi sembrava di avere in mano un gomitolo di lana (rosso, ero convintissimo che fosse rosso, e non perché), a cui l’estremità era legata la mia destinazione. Quindici minuti - solo quindici - per trovare una nonna che non vedevo da tredici anni, e che non avrei dovuto nemmeno sapere dove abitasse.
Era un condominio; salii le scale fino al quarto piano, arrivato al pianerottolo c’era una porta aperta, con una soffusa luce arancione che proveniva dall’interno. Entrai senza bussare.
“Ben arrivato.” mi salutò, dal salotto, prima ancora di potermi vedere. “È stato un viaggio lungo?” superai la porta di ingresso e mi ritrovai sull’uscio della stanza dove mia nonna stava leggendo un libro.
“Abbastanza.”
Posò il libro sulle ginocchia e mi sorrise. Era un sorriso triste.
“Beh. Ne vuoi parlare?”
Ma parlò solo lei.
Mi servì del tè buonissimo, spiegandomi un sacco di cose.
“Tuo padre, sai. Ha fatto degli errori.”
Questo lo sapevo anch’io, c’era nel mio ricordo. Ma quali errori? Come potevo rimediare?
Lei cominciò a innervosirsi, scosse la testa e borbottò qualcosa.
“A volte il rimedio non c’è e basta, Vincenzo.”
Doveva esserci. Io non avevo colpa.
“Lo so, tesoro. Lo so.”
E allora?
“C’era una ragazza.”
C’era una ragazza molto bella. Come la nonna, faceva cose molto particolari - così direbbe un membro della mia famiglia -, e non erano le sole. C’era un gruppo di persone, a fare queste cose particolari. Si riunivano in certi giorni per ringraziare quelli che davano loro il potere di fare queste cose particolari, il quale trasmetteva queste cose particolari anche ai figli dei seguaci. Anche papà faceva cose particolari, mi disse. Tanto tempo fa.
Poi c’era una ragazza molto bella.
Papà non amava per nulla le cose particolari, odiava essere diverso e guardava male la nonna che si dispiaceva del suo modo scontroso. Avrebbe preferito un atteggiamento più aperto, ma papà si limitava ad accettare quel mondo senza farne parte. Comunque la nonna non gliene faceva una colpa. A volte le cose speciali spaventano la gente.
Papà era molto giovane. E la ragazza molto bella.
Sempre puntuale e con una pelle profumata, aveva riso spesso con lui e parlato tanto. Un giorno papà si offrì di darle un passaggio.
La nonna si fermò.
E poi?
Le usò violenza, disse. Lo disse così, guardandomi negli occhi, senza cercare giustificazioni di sorta per l’atto del figlio. Era ubriaco. Aveva interpretato male i desideri della ragazza. Era giovane. Era stupido. Niente. Niente che potesse alleviare il fatto di aver vissuto una vita accanto ad un mostro, nessuna scusante di sorta. La colpa era solo di mio padre.
Lei era speciale, piena di potere, mi disse ancora. Ma tuo padre pensava che fossimo tutti allo stesso livello, che non potessimo essere poi così forti - ci sottovalutava molto. Ma a qualcuno non piacque quello che fece, sai. Venne maledetto da lei, ogni sua lacrima diventò una menzogna nella sua futura vita.
La nonna sospirò, si strinse nelle spalle.
E poi?
In quel momento la ragazza era triste e debole, sai. Riuscì a compiere un gesto potente, ma si sarebbe limitata a questo, se qualcuno non l’avesse aiutata.
Chi?
Già lo sai.
Labbra larghe.
La vendetta, però, è sempre stata una cosa complicata. La ragazza non sapeva come gestire tutto quell’odio, preferì ignorarlo, nasconderlo, lasciando a tuo padre una misera illusione impossibilitata a ferirlo. Ma la ragazza, da quel male, ebbe un figlio.
Lui crebbe, sano e forte… e sognava delle cose. Sognò anche di suo - tuo - padre. È stato lui a risvegliare l’odio sopito, a riprendere dove sua madre aveva lasciato.
“È sua la colpa.” sussurrai.
“No. È di tuo padre.” mi corresse, giustamente.
“Vaffanculo.”
Laura era sull’uscio della porta, ci guardava come se ci odiasse.
“Oh. Benvenuta, ragazza triste.” la salutò la nonna.
“Che ci fai qui?” domandai, alzandomi di scatto.
“Tu cosa ci fai qui! Papà non vuole che tu sia dalla nonna! E nemmeno lei!”
“È vero.” annuì la nonna: “Preferirebbe sapermi lontana.”
“Tu puoi salvarci?” mi avvicinai, inginocchiandomi. “Ti supplico. Non voglio farle del male! E lo sto facendo, ogni giorno, e non riesco a fermarmi e-” le lacrime mi bruciavano gli occhi: “Ti supplico. Non abbandonarci.”
La nonna sospirò, mi accarezzò la fronte. “Non posso andare contro i suoi voleri. L’unica, sarebbe…” mi osservò un po’ stranita: “Non sarà molto d’aiuto.”
Con le unghie, fece un piccolo taglio sulla mia fronte, in mezzo alle sopracciglia. “Per te non posso fare nulla, piccola.” disse, guardando Laura. “La tua anima è troppo legata alla sua.”
“Non importa. Il suo piacere è il mio.”
“Ma adesso… finirà?” chiesi, deglutendo.
Non rispose.
“Nonna?”
“…”
“Qual era l’illusione di cui stavi parlando? Cosa ha fatto la ragazza a nostro padre?”
“NON DIRGLIELO!”
“… un regalo.”
“STAI ZITTA!”
Laura restava ferma sulla soglia. Non poteva nemmeno entrare.
“Che regalo?”
“Vostra madre.”
L’urlo di Laura rimbombò per tutto l’appartamento, e fuori cominciò a tirare forte il vento.
Pianse per dieci minuti buoni prima di decidersi ad entrare in casa. C’era la mamma che ci aspettava in salotto. Aveva comprato la spesa.
“Ho preso l’affettato, vorrei provare una nuova ricett-”
Smise di parlare quando ci vide.
“Oh. Ve lo ha detto. Voi sapete.”
“… sei vera?”
“Se per vera intendi fatta di carne e ossa, più o meno. In realtà sono nuvole e schiuma dell‘oceano.”
Sempre così ben vestita. Sempre così perfetta. Appartiene ad un altro mondo, vero?
“Ma almeno ci ami?” chiese mia sorella, con un singhiozzo strozzato.
“No. Non è un sentimento adeguato al mio ruolo. Devo preoccuparmi ed essere carina, tutto qui.” sbatté le ciglia. “L’importante è questo: devo fare in modo che stiate bene e che quindi non disturbiate vostro padre, perciò niente carenze affettive o problemi familiari.”
Laura scivolò per terra e ricominciò a piangere.
Trovai la forza di domandarle: “E noi siamo come te?”
“Un po‘ sì.”
“Non è vero.” singhiozzò Laura. “Tu devi amarci.” si rialzò a fatica: “Deve importarti di noi!”
Clara non muoveva un muscolo. “Non funziona così.”
Credo che fosse arrabbiata e spaventata, per questa ragione mi prese il viso e mi baciò davanti a lei - un bacio vero.
“E ora?!” chiese, urlando.
“… mi aiutate con la nuova ricetta?”
Sarebbe stata la cena più lunga di tutta la mia vita, se mia nonna non avesse avuto compassione di me. Quando mio padre entrò in casa, abbandonai il mio corpo: ero qualcosa di diverso, che poteva nascondersi in un angolo mentre il mio corpo agiva per conto proprio, mentre la metà irreale di me interpretava la parte di figlio modello. Il tempo scorreva in maniera diversa per me e loro. Mi dispiacque per Laura.
Tornai solo quando il falso me già dormiva, e anch’io riuscii a dormire.
Era come essere un palloncino. Non potevo distaccarmi troppo dal mio corpo, perché ero ancora in vita, ma lui agiva senza problemi di sorta. Pare che non avesse bisogno di un’anima per sopravvivere.
Le notti che dovevo passare con mia sorella, però, lei mi impediva di andarmene. Voleva che ci unissimo noi due, non Laura e un’illusione.
Il nostro fratellastro ci aspettava in un bar vicino alle scuole. Lo potevo sentire senza bisogno dell’aiuto di labbra-larghe, era una cosa troppo forte e precisa. Indirizzata a noi.
Era seduto ad un tavolino, mescolava un cappuccino. Non sembrava molto più grande di me, massimo due, tre anni. Alzò lo sguardo verso di noi solo quando ci sedemmo.
“Ciao.”
Non avevamo un bell’aspetto. Eravamo distrutti, sia fisicamente che psicologicamente.
“Sei tu che ci fai questo.”
Strinse le labbra. Sembrava dispiaciuto.
“Non pensavo che sareste stati coinvolti. È cominciata prima della mia nascita… non so come sia stata impostata. Avrei dovuto accertarmene.” abbassò la testa. Una persona che si prendeva le proprie responsabilità, una sorta di miracolo.
“Dimmi che puoi fermarlo.”
Si morse il labbro inferiore e scosse la testa. “No. Ma quando finirà sarete lasciati in pace.”
“…”
“Lo so, io…” ci guardò per qualche istante, poi allungò la mano verso la mia testa, afferrando una ciocca di capelli. Quelli caddero da soli, senza che lui avesse bisogno di staccarli, e ripeté la cosa con Laura.
“La strada non è molto lunga. Presto tutto sarà finito. La prossima eclissi di luna è vicina.”
Laura mi prese la mano e la strinse forte. Aveva paura.
Per me era relativamente semplice: la maggior parte del tempo lo spendevo lontano dal mio corpo, senza bisogno di fingere o affrontare le persone. Avevo anche cominciato ad andare a trovare la nonna. Da lei potevo piangere. Mi accarezzava i capelli, mentre mi sfogavo. Persino Laura, vinta l’ostilità iniziale, cominciava ad apprezzare la sua presenza. Forse perché ormai stare con i nostri genitori era diventato nauseante.
La mattina prima dell’eclissi lunare, mia sorella si svegliò di cattivo umore. Rispose male ai nostri genitori, fu sul punto di litigare con papà per cose frivole. Io non avevo forze, mi sentivo uno straccio e non riuscivo ad allontanarmi dal mio corpo così malmesso.
Nostro fratello ci aspettò davanti a casa.
“Volevo vederlo.” disse.
“È come lo immaginavi?” domandai, tanto per fare.
“Vi ho portato una cosa.” ci porse due fiale, cambiando argomento. C’era un liquido trasparente all’interno.
“Cosa c’è dentro?”
“Le ceneri dei vostri capelli, l’acqua del fiume Lete e… altre cose. Vi farà dimenticare tutto.”
Lo guardammo stupiti.
“Ogni cosa… sarà cancellata. Niente più problemi. Ma usatela al momento giusto, è difficile da preparare e non sono sicuro di poterlo ricreare così potente ed esatto. Mi hanno aiutato delle persone che non mi aiuteranno una seconda volta, cercate di capire.”
“Per una dose così piccola?”
“È la dose giusta.” ci guardò preoccupato. “Fate attenzione.”
Il sole tramontò presto.
Papà era in giardino a bere una birra, solo a osservare il cielo con una sorta di incuranza sfacciata: lui, il cielo e l’orrore che aveva commesso. Nessuno di noi - né io, né Laura e neppure la mamma - riuscivamo a smettere di fissarlo. Ma papà non si accorgeva di nulla.
“Hai sbagliato.” disse mia sorella. Lui si voltò.
“Come?”
“Hai sbagliato. Hai fatto una cosa orrenda.”
L’uomo sospirò: “Non so di cosa tu stia parlando.” una goccia di sangue cadde dal cielo - dalla luna, così rossa - sulla sua guancia. Si alzò a sedere stranito.
“Non lo sai.” bisbigliò Laura. “NON LO SAI!”
All’urlo, nostro padre si voltò nuovamente, stupito.
“Noi stiamo pagando per il male che hai fatto!” corse dentro casa.
“Ma è impazzita?” mi domandò.
“… no. Siamo fatti di schiuma del mare e di nuvole, non ci è permesso impazzire…” borbottai, seguendola, lasciandolo con quel fantasma di donna e il male di cui era pieno.
Non era stata una volta sola. La madre di mio fratello, se fosse stato per lei tutto sarebbe rimasto sopito, distrutto dal tempo, ma qualcosa aveva risvegliato l’odio. Un nuovo dolore.
“Che sta succedendo?”
Mio padre era sull’uscio della casa. Laura, davanti alle scale, pareva furiosa. Le sue gote, di solito pallide, erano rosse.
“Tutto quello che hai è una menzogna. Una vendetta! Siamo qui per mettere fine a ciò che avevo iniziato anni fa.”
“Laura? Cosa stai dicendo?”
“Il destino è cosa complicata e crudele.”
La porta sbatté dopo che Clara entrò.
“Adesso basta con questa storia. Filate subito a letto, tutti e due!” brontolò. Laura sbatté le palpebre. I suoi occhi divennero nocciola. Scrollò la testa, i capelli cambiarono colore, diventando neri, e il suo viso mutò completamente la fisonomia, più allungato e adulto.
“Oh mio dio…” sibilò lui.
“Ciao. Sono il fantasma del male passato. Ti ricordi di me?”
La mamma si era sistemata alla sinistra della ragazza, mentre io ero alla sua destra.
Mio padre fece un passo indietro e cadde a terra. “Non può essere vero. È solo un sogno.”
“Se fosse un sogno potresti svegliarti, e ti assicuro che non succederà.” indicò mia madre: “Colei che chiami moglie! La creai io per te, con delle nuvole, schiuma di mare e tutto l‘odio che provavo.”
“Ma di cosa… sei pazza.”
“Mio caro, stai parlando con una morta. Il pazzo sei tu.” schioccò le dita, e mia madre divenne vapore per qualche istante, ricomponendosi immediatamente.
“Oh, che cosa divertente!”
Mio padre cominciò ad urlare.
“Cosa le hai fatto?!”
“Ti ho mostrato la verità. Abbiamo mandato questa illusione perché ti unissi a lei, perché procreassi. In modo da poterti ferire.” mi indicò: “Lui! Non è altro che uno schiavo della lussuria e dell’amore sbagliato.”
Comparve mia sorella, dietro di me, che mi toccò leggermente la spalla. Era… era la cosa più bella del mondo… non l’avevo mai desiderata così tanto.
“Loro! I tuoi figli!”
“Non li toccare!”
“Li abbiamo distrutti nella tua casa, senza che tu abbia mai mosso un dito per proteggerli. Sei il colpevole.”
La baciai, sentendo in sottofondo l’urlo di mio padre. Non mi importava. Volevo solo Laura. Ci spogliammo velocemente, continuando a baciarci.
“BAMBINI!”
Strillò lui, ma non riuscì nemmeno a raggiungerci. Scivolammo per terra, ormai nudi.
“No… no…”
“È sempre stato così. Non hai sposato un essere umano, non hai dato alla luce dei veri bambini, non hai mai difeso le persone che amavi, nulla di quello che hai è reale.” si avvicinò a lui, con il viso a pochi centimetri: “Ne valeva la pena, per una scopata negata, stronzo?”
Il mostro la fissò per un istante prima di gridare e cercare di attaccarla, ma quella svanì in una nuvola di nulla.
L’urlo non si fermò: guardò la moglie-nuvola sorridere pacata, guardò noi che ci univamo, sul pavimento.
“NOOO! NOOO!”
La donna-fantasma rise dalle scale - comparve lì. Soffiò e nella mano di mio padre ci fu un coltello. Lui si voltò furente verso Clara.
“TROIA! BUGIARDA!”
Mentre le saltava addosso per accoltellarla, lei disse solo: “Se vuoi che muoia, morirò.”
Raggiunsi l’orgasmo quando lui finì con mia madre. Mi spostai esausto di fianco a Laura proprio nel momento in cui partì contro di noi. Ci osservò disgustato, Laura ne rise e lui caricò.
Riuscii a riprendere controllo di me. Afferrai Laura, spostandola immediatamente, ma lui si fermò prima di colpire il pavimento. Si alzò subito e così io, tentò di ferirmi ma schivai qualche colpo. Piangeva.
Riuscì ad afferrarmi il collo con la mano libera, a sbattermi contro il muro e a puntarmi contro l’arma.
“Era tutto perfetto!” piagnucolò. “Tutto così perfetto!”
Mia sorella gli infilzò una forbice dietro al collo prima che potesse ferirmi.
I suoi occhi si spalancarono, cominciò a boccheggiare… e mi allontanai. Lasciai posto a lei. Lei voleva essere l’ultima cosa che lui potesse vedere.
“Non sapevo nemmeno il tuo nome…” bisbigliò, gli occhi fissi sulla sua vittima che lo guardava senza provare pietà.
“Il mio nome era Laura.”
I vestiti ce li aveva donati per pietà. Erano macchiati nei punti giusti, così potemmo chiamare la polizia. I giorni terribili di interrogatori e interviste si susseguirono, ma la conclusione fu una: padre di famiglia impazzito, i figli costretti a ucciderlo per salvarsi. Questo perché mia sorella volle così.
C’erano ancora gli investigatori all’interno della nostra abitazione, e i giornalisti fuori dal giardino.
“Basta, sono stanca.” disse. “Venite con me.”
La seguirono tutti. All’esterno tutte le telecamere erano fisse su di lei. Io la tenevo d’occhio da lontano, vicino al cancelletto dei nostri vicini. Riuscivo persino a vederli davanti alla televisione. Stavano guardando il telegiornale, dove c’era mia sorella.
“Ora ascoltatemi tutti bene.” disse: “Non voglio più sentir parlare di questa storia. Le cose sono andate così: nostro padre è impazzito e ha cercato di ucciderci. Noi ci siamo difesi. Non c’è altro e nessun’altra congettura infastidirà le vostre menti. Non ci saranno interviste o interrogatori: la storia è chiusa, la vostra curiosità morbosa finita. Questo è tutto.”
Rimasero imbambolati a guardarla, nessuno che fiatasse. Diedi un’occhiata ai vicini: avevano la stessa espressione. Piano piano ricominciarono a recuperare. Gli investigatori per primi, parlottarono tra di loro e si incamminarono verso i giornalisti che ora ripresero a parlare alle telecamere. Osservai i vicini: il loro rimbambimento durò qualche istante di più. Laura mi trascinò dentro.
Ora siamo sul tetto. Guardiamo la luna crescente, con le fiale in mano. Non riusciamo nemmeno a parlare. Proviamo a brindare, ma i due contenitori emettono un suono sordo. Laura sbuffa, io ridacchio.
E infine beviamo.