FanFic (ITA): Family portrait - PG

Feb 27, 2010 15:14

Titolo: Family portrait
Autore: freezing_82 
Personaggi: Edward e Rosalie principalmente. Menzioni di Carlisle ed Esme. Edward POV.
Pairing: Nessuno in particolare a parte Carlisle/Esme. La fanfiction è pre-Twilight.
Rating: PG.
Spoilers: Nessuno. La fanfiction è pre-Twilight, ma potrebbero esserci vaghi riferimenti a Midnight Sun.
Warnings: Riferimenti a violenza ed abusi.
Summary: I Cullen sono una famiglia non troppo convenzionale.
Word count: 4978


Aurora, Colorado - Settembre 1938

Carlisle stava leggendo il giornale nel suo studio quando entrai, dopo aver bussato piano.
“Esme e Emmett sono appena rientrati. Io e Rosalie pensavamo di uscire a caccia” dissi semplicemente “sta facendo buio” continuai indicando, fuori dalle grandi finestre, il pallido bagliore del sole ormai del tutto tramontato dietro le montagne.
Lo vedevo pensieroso, quindi feci qualche passo dentro la stanza e richiusi la porta alle mie spalle.

“Lisbeth McFadden si è sposata due anni fa” mi informò alzando gli occhi dal giornale.
Il mio sguardo dovette sembrargli piuttosto confuso, perciò continuò.
“Il marito è il figlio di un armatore molto ricco e influente di Southampton che sta già prendendo in mano gli affari della famiglia.
Si trasferiranno in inghilterra appena la sorella di Lisbeth avrà finito il collegio. La porteranno con loro e avrà la possibilità di studiare nelle migliori università”.
Non mi ero ancora mosso di un millimetro dalla mia posizione.
Guardando nuovamente verso Carlisle notai che aveva una busta in mano. Era color crema. Si alzò dalla scrivania e richiuse uno dei cassetti da cui aveva tirato fuori la busta e me la porse.
“Me l'hanno mandata dall'ospedale di Ashland. Quando Lisbeth ha spedito la partecipazione per il matrimonio, noi eravamo già qui da quasi un anno, lei non ha mai ricevuto risposta e l'invito purtroppo è andato perso.
Soltanto tempo dopo le hanno detto che mi ero trasferito in Colorado con la famiglia ma non potendo sapere con precisione dove lavorassi ha mandato telegrammi a tutti gli ospedali dello stato finchè ho ricevuto questa.
Mi ha scritto una lettera in cui mi ringrazia per essermi rpeso cura di lei e in cui dice di pregare ogni giorno per l'angelo misterioso che l'aveva salvata da quell'essere orribile in una mattina di Dicembre. E' arrivata oggi”.
Quando finì il racconto mi accorsi che Carlisle mi stava sorridendo.
“Carlisle, io non credo..” cominciai, non essendo nemmeno sicuro di ciò che avrei voluto dire.
“Edward, se ti sto dicendo tutto questo, è per farti comprendere che ci può essere della luce anche dove tu riesci a vedere solo ombra”. Mi esortò ad aprire la busta dalla quale tirai fuori un paio di fogli ripiegati con cura e una fotografia nei toni seppia che ritraeva tre persone.
La donna sorrideva entusiasta verso l'obiettivo.
Un braccio dell'uomo, anche lui dal viso sorridente, sebbene più composto, le circondava la vita e l'altro sorreggeva assieme alle mani intrecciate della donna, un fagottino di pizzo bianco. La didascalia recitava “Lisbeth e Andrew Carpenter danno il benvenuto alla piccola Lilian, 3 mesi”.
“E' felice”. Non era un semplice commento, era una certezza che traspariva da ogni centimetro di quel piccolo ritratto.
“Voglio che la tenga tu, Edward” mi disse Carlisle scuotendomi dai miei pensieri. “Lisbeth vorrebbe di sicuro che l'avessi tu” concluse poggiandomi, come faceva spesso, la mano sulla spalla.

“Pensavo fossimo pronti per uscire, Edward” ci interruppe Rosalie apparendo sull'altra porta dello studio aperta che dava sul salotto. “Chi è Lisbeth?” domandò poi, sul volto un'espressione sospettosa con le sopracciglia corrucciate. “Perdonatemi, non volevo origliare, ma la porta era aperta..”.
Feci per rispondere ma Carlisle mi precedette.
“Questa è una storia che ti racconterà Edward, se vorrà, mia cara” disse. Poi, passandole accanto per uscire aggiunse “siate prudenti”.
Rosalie mi guardò facendo qualche passo nella mia direzione, ma senza parlare.

Sapevo che la sua indole curiosa e soprattutto testarda era già stata messa all'erta da quello che aveva sentito e potevo leggere nella sua mente che si stava ponendo mille domande. Chi era Lisbeth. Di chi era la lettera che ancora tenevo tra le mani. Perchè sembravo scosso.
“E' una vecchia e lunga storia” mi risolsi di dire, alla fine.
“Ho intenzione di stare fuori a caccia per un bel po'” fu la sua risposta.

Restammo entrambi in silenzio per qualche istante mentre uscendo di casa ci inoltravamo nel bosco.
Rosalie era con noi solo da pochi anni e preferiva non andare a caccia da sola, per ogni evenienza, anche se poteva e sapeva controllarsi benissimo, anche meglio di tutti noi messi assieme. Aveva resistito al richiamo della sete quando aveva trovato Emmett ridotto ad una massa sanguinante con il corpo devastato dopo l'attacco di un orso, e nemmeno da neonata aveva mai bevuto una sola goccia di sangue umano. Era una cosa di cui andava fiera e tutti noi l'ammiravamo per questo. Era una cacciatrice molto precisa e metodica. Particolarmente attenta a coprire le proprie tracce. Carlisle riteneva che dipendesse dal fatto che la trasformazione di Rosalie era stata estremamente dolorosa e penosa. Non scorderò mai la notte in cui Carlisle la portò a casa e quello che lessi nella sua mente sulle circostanze in cui l'aveva trovata.
Ad un certo punto lei stessa ci aveva raccontato tutta la storia perciò sapevo che era tornata a vendicarsi sei suoi aggressori prima che lasciassimo Rochester per trasferirci in Tennessee, quindi decisi che se era una parte del mio passato che voleva conoscere, non mi sarei tirato indietro per questa volta.
“Lisbeth è una giovane donna di Ashland”.

Rosalie aveva già prosciugato un paio di daini quando mi raggiunse nuovamente. Io stavo ancora fissado quel che restava del leone di montagna che avevo rincorso per alcuni minuti tra gli strapiombi rocciosi del piccolo canyon, prima di attaccarlo e ucciderlo senza alcuna fatica.
“Ho dato dei dispiaceri ad Esme e Carlisle in passato e non ne vado fiero. Prima che ci trasferissimo a Rochester, e che tu..” esitai, ma Rosalie non battè ciglio. “Prima che io morissi” concluse. “Sai bene che la parola morte non mi sconvolge. Sarebbe dovuta essere la mia fine”.
A volte la freddezza e il cinismo così sincero di Rosalie mi infastidivano ancora.
Pensavo che fosse molto crudele da parte sua insinuare nelle sue parole un dispiacere che sfiorava il ribrezzo per essere stata trasformata.
Per Carlisle sarebbe stato un dolore sapere che la decisione di salvarla e accoglierla nella nostra famiglia veniva vista solo come un ostacolo al naturale corso degli eventi che lui aveva deliberatamente interrotto, deviato.
Cacciare gli animali, berne il sangue, nascondersi nelle giornate di sole e non poter avere una famiglia nel senso comune del termine, con un marito e dei bambini era il suo più grande rimpianto.
Per come la vedevo io, gli anni mi avevano portato alla conclusione che se fossi stato nei panni dei suoi genitori, avrei preferito saperla scomparsa, piuttosto che vederla stesa in mezzo alla strada, tutta insanguinata con il vestito strappato e il suo corpo esposto alla mercè di ogni passante accorso dopo il grido disperato di chi l'avesse trovata per primo e dato l'allarme.

La stavo ancora guardando, da quando aveva finito la frase per me. Mi fece cenno di proseguire. Non mi avrebbe più interrotto.
“Prima che Carlisle ti portasse in famiglia” ripresi mettendo particolare enfasi sul suo nome, “vivevamo ad Ashland, in Wisconsin. Anche se io non ci sono rimasto abbastanza a lungo per poter dire di averci davvero vissuto. Me ne sono andato quasi subito, dopo che Esme aveva superato i primi difficili anni da neonata.
Discutevo già da un po' con Carlisle e non riuscivo più ne a capire ne ad accettare quel suo modo di vivere.
Come se compiere buone azioni, stare a contatto con gli essere umani fingendo di essere ancora parte della stessa razza potesse garantirci il paradiso o roba simile.
Se ero diventato un mostro, tanto valeva che mi comportassi di conseguenza”.

Rosalie mi ascoltava in silenzio, seduta immobile su una roccia.
“Così ho passato quasi quattro anni lontano da loro e mi vergogno di quello che ero diventato.
Più rimuginavo e più mi rendevo conto che Carlisle aveva riposto troppa fiducia in me e non potevo permettermi di deluderlo più di quanto avessi già fatto andandomene.
Senza contare il dolore che avevo causato ad Esme sparendo così senza preavviso.
Così ho deciso di tornare e anche se non me lo meritavo mi hanno accolto a braccia aperte come se fossi stato il figliol prodigo.
Sapevo che Carlisle non si sarebbe mosso senza di me quindi ero sicuro che fossero ancora ad Ashland”.

Ma c'era un'ultima cosa che dovevo fare prima, e sulla via del ritorno mi fermai a Chicago.
Tuttavia quello era un capitolo della mia vita da mortale che non ero ancora pronto ad affrontare con nessuno. E Rosalie non faceva eccezione.

Chicago, Illinois - Dicembre 1930

Quella notte avevo vagato sotto la pioggia battente, avvolto in un pesante cappotto di lana scura con il colletto alzato nell'intento di coprire almeno parte del mio viso mentre mi dirigevo verso est.
Chicago era la città dov'ero nato e dove entrambi i miei genitori erano morti uno dopo l'altro stroncati, come migliaia di altre persone, dall'epidemia di Spagnola nel 1918.

Nel cuore della notte avevo scavalcato il cancello di ferro battuto, che cigolò ed oscillò al mio passaggio, ed ero entrato nel luogo più silenzioso e solitario di tutta la città.
Passando tra gli ordinati vittoli ricoperti di ghiaia avevo trovato quasi subito quello che stavo cercando,
Mi ero inginocchiato davanti alle ultime lapidi ricavate nell'angusto spazio a disposizione all'interno della cappella di quella che era stata la famiglia Masen, la mia famiglia.
Era molto più stretta e molto meno poetica di quanto mi ricordassi dall'ultima volta che ero stato lì, il giorno del funerale della madre di mia madre, circa venti anni prima. Ma ero solo poco più di un bambino allora e la percezione di spazi e grandezze era deformata ai miei occhi.
Adesso vedevo tutto più chiaramente.

Sfiorai una ad una le lastre di marmo che portavano incisi i nomi di mia madre e di mio padre, i loro volti ancora dolorosamente vividi nella mia ora acutissima memoria. Toccai appena la scritta in rilievo sull'ultima lastra di marmo, Edward Anthony Masen, e sorrisi amaramente al pensiero che la bara in quel terzo cubicolo in realtà era vuota perchè il mio corpo non era stato trovato in mezzo all'inferno di vittime dell'influenza.
E non avrebbe mai potuto essere trovatodal momento che Carlisle mi aveva portato via con sé approfittando del caos e del poco personale medico presente e mi aveva strappato alla morte almeno tanto quanto la malattia mi aveva strappato alla vita.
Nessuno, in quei giorni frenetici, aveva fatto caso al fatto che il mio letto fosse vuoto. Avevano dato per scontato che qualche becchino troppo zelante avesse già portato via il mio corpo esanime per fare posto a qualche altro malato.

Avevo deciso di rialzarmi solo poco prima dell'alba perchè non potevo farmi cogliere di sorpresa da un prematuro raggio di sole o dal custode nel suo primo giro di ronda della giornata.
Dovevo assolutamente evitare di andarmene in giro nel bel mezzo della città in pieno giorno.
Qualcuno avrebbe potuto riconoscermi, infondo erano passati solo pochi anni dalla mia morte e non potevo rischiare che qualche amico di famiglia, un conoscente o perfino uno dei dottori che aveva assistito me e i miei genitori in ospedale in quei giorni di agonia mi vedesse. Inoltre sarebbe stto tragicomico anche solo pensare di poter spiegare la reazione della mia pelle alla luce naturale del sole. Mantenere il segreto era essenziale per il bene di tutti. Il mio e quello degli ignari cittadini di Chicago.
Seguire i binari della ferrovia fino fuori del centro abitato e poi proseguire verso nord a nuoto fu semplice. L'apnea per quelli come noi non è un problema, così come non lo sono i crampi della fatica. Avevo comunque la sensazione che non avrei incontrato anima viva fino ad Ashland.
Negli ultimi tredici anni avevo imparato a fidarmi ciecamente dei miei istinti, dei miei cinque sensi amplificati.
Gli odori, i rumori, i riflessi..ogni cosa si era elevata all'ennesima potenza.
Ma forse dovrei aggiungere che pur essendo un uomo - un ragazzo a dire il vero - godo di un senso tutto particolare.
La capacità di leggere nella mente delle persone. Non parlo di semplice empatia o di preveggenza. No, io posso sapere esattamente che cosa passa nella testa di chi mi sta intorno in ogni momento semplicemente concentrandomi sulla loro voce più silenziosa, la voce della mente.

Aurora, Colorado - Settembre 1938

Rosalie mi stava osservando, chiaramente perplessa dal mio silenzio. Ritornare indietro con i ricordi mi incupiva sempre.
Il tempo era variabile sulla costa del lago Michigan, troppo incerto per garantirmi discrezione e protezione p
perciò passai le prime ore del giorno, era una domenica, nei pressi di una raffineria in cui le grandi macchine a vapore erano sempre in funzione e dove potevo approfittare del calore per far in modo che i miei vestiti si asciugassero.
Era quasi mezzogiorno quando guardando fuori dell'edificio notai che si era formato un soffice strato di nuvole che coloravano di grigio il cielo e che aveva cominciato a cadere una fitta pioggia.
Provvidenziale.
Dato che mi era stata concessa una momentanea protezione dal sole, mi decisi a rivestirmi ed uscire dalla zona industriale e proseguire verso la periferia dove avrei avuto più opportunità di rimanere nascosto data la variabilità del tempo.
Stavo proseguendo spedito, oltre il centro della città.
In quel momento una voce silenziosa mi colpì in pieno petto per la ferocia e l'avidità con cui si era espressa, così potente da sovrastare tutte le altre che normalmente riuscivo a ridurre ad un brusio sopportabile quando mi trovavo nelle vicinanze di piccole folle.
“Questa si che è interessante!” esclamò eccitata.
Rimasi in ascolto, attento, non potendo far a meno di ritornare sui miei passi e farne qualcuno in direzione della piccola piazza dove c'era più gente e più possibilità di scoprirne la fonte.
C'era parecchio movimento nonostante la giornata non particolarmente serena, dovuto principalmente ai parrocchiani che attendevano alla messa. Un paio di bar erano aperti ma i garzoni si davano da fare per togliere i tavolini all'aperto in balìa dell'umidità. Un piccolo gruppo di donne stava uscendo dalla chiesa dopo la funzione. Una delle due donne più giovani aveva salutato le altre due - che compresi essere la madre e la sorella - con un gesto della mano facendo un cenno ad indicare il banco multicolore del fioraio poco più avanti.
Le margherite che acquistò erano di un arancione pallido e la carta color senape che ne avvolgeva i lunghi steli era ruvida e grezza, in pieno contrasto con il vestito e i guanti di tulle e seta color crema che indossava e che l'avvolgevano in un morbido susseguirsi di balze.

Avevo visto e sentito tutto ciò molto chiaramente pur essendo ancora discretamente lontano, perchè lo stavo osservando con occhi che non erano i miei.
La mente della persona di cui stavo leggendo gli intricati movimenti era molto attenta e concentrata.
Quindi cercai di fare altrettanto, sforzandomi di capire da quale delle persone presenti nella piazza provenisse quella voce.
“Stupido moccioso, levati di mezzo!” l'udii ancora e stavolta la mia testa si voltò di scatto nella direzione giusta.
Si trattava di un uomo seduto su una panchina. Non sembrava disturbato dalla pioggia, ma più che altro da un ragazzino che giocava a palla proprio davanti a lui.
Mi concentrai di nuovo sull'uomo e ne seguii lo sguardo.
Stava fissando la giovane donna di poco prima che con il suo mazzo di margherite sotto braccio stava aprendo l'ombrello per ripararsi.

Ma quell'uomo, mi accorsi ben presto con una fitta di incredulità, prima, e rabbia successivamente, non sapeva vedere la delicatezza nei lineamenti fini del viso della giovane donna, né sapeva apprezzare la grazia quasi ultraterrena con la quale aveva sorriso al fioraio non appena sceso l'ultimo gradino per tornare sulla strada principale.
Il profumo che emanava dai suoi capelli neri, raccolti in un'elaborata acconciatura sotto al cappellino, in quel momento, era fresco e dolce, come di fresia e mi investì in pieno, portato dalla brezza.
Ma ancora una volta fui sorpreso di notare nei pensieri di quell'individuo, solamente un profondo, insano desiderio di avvicinarla. Ben più sinistro e meschino del mio.
La ragazza aveva attraversato la strada e l'uomo, che fino ad allora era rimasto seduto immobile, si voltò per seguirla con lo sguardo.
“Sei mia, bambolina!” esultò di nuovo, stavolta vittoriosa, la voce silenziosa.
Si alzò e seguì i passi della ragazza dal marciapiede opposto a quello che lei aveva lasciato solo una manciata di secondi prima, passandomi abbastanza vicino perchè potessi sentire molto più chiaramente l'odore di sudicio misto a liquore scadente.

Fu in quel momento che avvertii per la prima volta la scarica di adrenalina che pompava frenetica nelle mie vene, spinta da un tipico istinto umano che inspiegabilmente era rimasto intatto dentro di me anche dopo la trasformazione: dovevo accertarmi che quella donna non corresse pericoli.
Ed ero così preso a meravigliarmi della mia umanità latente che non avevo fatto caso al fatto che la pioggia era diminuita e che le nuvole sopra di me sembravano sul punto di aprirsi di nuovo per far spazio ai deboli raggi del sole di mezzogiorno.
Stavo guardando in basso, pensieroso, finchè non mi accorsi del cono di luce che strisciava sul mio corpo, dalla punta delle scarpe verso il ginocchio e fin quasi a sfiorare la punta delle dita della mano che tenevo lungo i fianchi.
Imprecai. Un po' contro il tempo così variabile, un po' contro me stesso per non aver fatto più attenzione.
Così facendo però persi contatto visivo sia con la ragazza con i fiori, sia con l'uomo che l'aveva seguita. Entrambi erano spariti dalla mia seppur acutissima vista.
Rimasi fermo per un po', minacciato dal sole che ancora faceva capolino, cercando di concentrarmi.
Strisciai contro i muri dei palazzi, in mezzo ai vicoli in penombra, vicoli poco trafficati, allontanandomi dal centro finchè l'odore acre e salato del suo sudore mi condusse di nuovo in periferia, dalle parti del porto commerciale.
Il porto, già. Il genere di luogo che la gente cosiddetta per bene evitava. Un po' per dettami di classe sociale, un po' perchè qualcosa nella loro mente scattava e gli ordinava di stare alla larga.
Lo chiamerei istinto di sopravvivenza, lo stesso impulso che in genere tiene gli umani lontano dai pericoli.
Lontani da quelli come noi.
Ad esempio, la ragazza che adesso ansimava impotente schiacciata a terra dal peso del corpo del suo aggressore, probabilmente non sarebbe mai venuta qui di sua spontanea volontà.
Implorava quell'uomo di lasciarla andare, ripetendo con voce rotta che non avrebbe fatto parola con nessuno dell'accaduto.
Il genere di nenia che un condannato a morte ripete religiosamente, molto spesso credendo follemente che possa funzionare, che possa risparmiargli la vita.
Strepitava e si contorceva goffamente tra i pizzi dell'ingombrante vestito della domenica. Mugolò un po' per il dolore fisico, ma principalmente per il genuino terrore che potevo leggere nella sua mente e perfino respirare dall'angolo buio e maleodorante dietro al quale mi ero momentaneamente nascosto. In attesa del momento giusto.

A giudicare dal grugnito scomposto dell'uomo però, ero stato l'unico a sentirlo.
“Sta zitta! Vedrai che ci divertiamo io e te, ma sta ferma!” le stava intimando il suo aguzzino. Le strappò il capello dalla testa e le annusò grezzamente i capelli, inspirando a fondo.
Adesso la grazia sul bel viso della ragazza era del tutto sparita e i suoi capelli avevano perso ogni compostezza, il delicato profumo di fresia era distorto dal sudore che le appiccicava varie ciocche alla fronte e al collo.

Non potevo espormi apertamente. Tremavo per l'impazienza, ma perfino per noi ci sono delle regole che vanno rispettate. Anche se in quel momento ero disperatamente assetato.
Però non avevo sete di un sangue qualunque. Io reclamavo il suo sangue. La sua vita. Il sangue e la vita di quell'essere disgustoso che sentivo ansimare e bestemmiare mentre con il suo corpo lurido e pesante sovrastava la figura esile e delicata della ragazza.
“No, ti prego! Non voglio morire!”
Quell'urlo disperato interruppe i miei pensieri e mi ricordai del perchè stavo accucciato, esitando.

Il cielo pareva essersi cristallizzato sopra di me. Niente più nuvole, niente più nascondigli una volta che avessi messo piede allo scoperto.
“Ti ho detto di stare zitta!” l'uomo aveva grugnito rabbiosamente, colpendo forte al viso la ragazza che smise all'istante di dimenarsi. Un rivolo di sangue le usciva dal naso tumefatto.
L'odore metallico e dolce mi arrivò chiaro e penetrante e in un istante mi stavo preparando a balzare in avanti e a fare di lei la mia preda. Realizzai che era il momento perfetto.
Nessuno che lavorava al porto, era domenica.
Nessuno che passeggiava nelle vie vicine, era ora di colazione.
Il momento ideale. Il migliore che potessi mai sperare.
Ringhiai.

Forse, se fossi stato cresciuto da una persona diversa da Carlisle, se un po' della sua compassione non avesse finito per instillarsi in me durante tutti gli anni passati al suo fianco come un discepolo diligente, a quest'ora quella ragazza sarebbe davvero stata una preda perfetta per me.
Giovane, bella, totalmente indifesa e con un sangue dal bouquet così appetibile..
Le mie parole, la mia voce e il mio aspetto, però, l'avrebbero invitata ad avvicinarsi spontaneamente ed a buttarsi ignara tra le braccia del suo carnefice, del predatore più temibile al mondo.
Non mi sarebbe servito usarle alcuna violenza come stava facendo quel bruto.

Guardai davanti a me e in quel momento non vedevo più la giovane donna dai capelli neri, ma un viso familiare, contornato da morbidi boccoli biondi. Indossava abiti simili, ma era sovrastata da più uomini che la sbeffeggiavano, la toccavano e la picchiavano.
Urlava. Usava le unghie e i denti per difendersi. Fu tutto inutile.
“Rosalie aveva tre costole rotte, il viso pieno di tagli ed ematomi, gli occhi tumefatti. L'hanno lasciata in mezzo alla strada a morire dissanguata. Aveva il vestito a brandelli..le cosce insanguinate..” le parole del crudo resoconto di Carlisle mi rimbombavano nella testa come martellate.

Mi dissi che se in vent'anni ancora non avevo capito quale fosse la mia strada, che tipo di persona volevo diventare, allora il minimo che potevo fare era morire.
Perchè se di una cosa ero certo, era che i Volturi non mi avrebbero concesso altra clemenza se non quella di una morte rapida, se mi fossi rivelato ad un qualsiasi umano nella mia vera natura, seppur in seguito ad una cosiddetta buona azione.
Alzai gli occhi nell'istante stesso in cui quel mostro strappava la sottogonna di tulle pregiato, già macchiata di fango, olio di motore e altra sporcizia.
Ringhiai più forte.

Sebbene tutti quei macchinosi ragionamenti erano sembrati durare un'eternità, per me, potevo vedere quell'uomo con in mano un brandello di stoffa, il braccio ancora alzato, le orecchie tese verso l'ignota fonte, per lui, di quel verso animalesco. Pochi secondi di esitazione, ed erano tutto ciò che mi serviva.
Erò già accucciato, pronto a scattare. Gli arrivai alle spalle in una frazione di secondo, senza dargli possibilità di reagire.
Gli cirdondai il collo con il braccio sinistro e poggiai l'altra mano sulla sua tempia destra.
Uno strappo violento, il rumore di ossa spezzate e il quintale abbondante di quel cadavere mi scivolarono contro accasciandosi poi a terra, poco lontano dal corpo immobile della giovane donna.
Era viva, ma respirava a fatica e sapevo che se non fosse stata portata subito in ospedale i danni avrebbero potuto essere ben più gravi.
Allungai una mano per tirarle giù la gonna - o per meglio dire quello che ne restava - e le mie dita scintillarono come se fossero cosparse di diamanti e la ritrassi subito.
Una rapida occhiata alle vicinanze mi bastò per ricordarmi che l'ospedale, e quindi la salvezza per lei, era a pochi kilometri, verso ovest.
Incredulo della mia stessa resistenza al sangue umano, che forse era stata amplificata dall'eccitazione euforica dell'omicidio di quel vile rifiuto della società, presi la ragazza in braccio e mi incamminai senza sforzo lungo i confini della zona portuale, al riparo della quale potei permettermi di prendere velocità e coprire la distanza in brevissimo tempo.

“Proprio mentre stavo per adagiarla su una delle panchine di legno all'entrata del pronto soccorso e suonare la campana delle emergenze, lei aprì gli occhi sbattendo le palpebre un paio di volte prima di mettere a fuoco le immagini, per quanto il gonfiore glielo permettesse.
“Sono morta? Sono già in paradiso?” il suo sguardo era strano, quasi sognante.
“Deve essere così, vedo la luce..posso toccarla” aveva aggiunto sussurrando sforzandosi di alzare una mano verso il mio viso ora debolmente colpito dai raggi di sole che filtravano dai rami degli alberi.
Fui sconvolto da quelle parole al punto che scattai in piedi e mi aggrappai disperatamente alla catena della campana prima di fuggire a nascondermi dietro al muro coperto di edera.
Potevo sentire le urla delle infermiere accorse all'ingresso.
“Carichiamola sulla barella, presto!”
“Chiamate il Dr Cullen, presto!”
“Oh povera ragazza..”
Voci che si sovrapponevano, confuse e sempre più lontane mentre Lisbeth veniva portata dentro”.

“Mi sentivo esausto, anche se sapevo che non era fisicamente possibile. Tornai sui miei passi e mi diressi verso quella che per convenienza chiamavo casa e da quelli che, con rinnovato rispetto, chiamavo genitori.
Non feci in tempo a girare la maniglia che un fiume di pensieri mi riempì la testa.
Dove ero stato? Ero ferito? Ero tornato per restare?
Esme se ne stava sulla porta con un'espressione che era un misto tra il sollievo e l'angoscia dipinta sul suo volto solitamente pacifico e materno.
“Edward” disse soltanto, con un filo di voce. Un orecchio umano non avrebbe mai potuto sentirla e perfino io ebbi difficoltà, tanto aveva susurrato piano.
Se la nostra razza avesse avuto la capacità di versare lacrime, sono certo che il viso di Esme ne sarebbe stato rigato.
“Mi dispiace, mamma” le risposi con sincerità.
Era la prima volta che la chiamavo così e sebbene negli anni passati avesse dimostrato più e più volte di essere a tutti gli effetti una figura materna per me, per Rosalie e per Emmett, non mi aveva mai realmente colpito quanto le mie azioni o le mie parole potessero condizionarla. Fino ad ora.
Era stata in pensiero per me, l'angoscia nel non sapere dove fossi e se stessi bene, per tutto questo tempo, l'aveva spenta.
Mi gettò le braccia al collo e le sfuggì un piccolo gemito.
“Sei a casa, il resto non importa. Non mi importa” la sua voce era attutita dal mio cappotto, dove lei aveva affondato il viso e non potei fare a meno di abbracciarla a mia volta.

Attesi il rientro di Carlisle, quella sera.
Non appena lo sentii entrare nello studio mi affacciai sulla porta.
“Non ho aspettato. Mi dispiace. Non potevo aspettare. Sapevo che eri di turno. Avrei rischiato, con il sole, avrei rischiato di..” ma fu Carlisle stesso ad interrompermi.
“Va tutto bene, Edward. Avremo tempo di parlare di tutto ciò che ti tormenta più tardi ma..sono fiero di te, figlio mio” annuì poggiandomi una mano sulla spalla, comprensivo e compassionevole come sempre è bello riaverti a casa”.
Ed ero davvero a casa.

Nel raccontare tutto questo a Rosalie, le avevo volutamente risparmiato i dettagli più raccapriccianti, comprese le vivide immagini di quello che Carlisle mi aveva raccontato sul suo ritrovamento.
Ma l'avevo vista trattenere comunque il fiato con forza fino alla fine del mio monologo.
Pareva aver perso gran parte di quella sua solita freddezza, quel malcelato distacco che facevano parte dei tratti dominanti della sua personalità.
“Mi spiace, so che non è il miglior argomento di conversazione..” cercai di spiegarle. Sapevo che l'aveva colpita molto nonostante indossasse la proverbiale maschera con cui camuffava le vere emozioni che provava.
“No. Sono stata io a voler sapere. Va bene così, non preoccuparti” mi aveva interrotto alzandosi dalla roccia e venendomi incontro con una mano alzata per segnalare che non aveva concluso.
“Non immaginavo che ti fossi trovato in una situazione del genere e credo che dovresti smetterla di considerarti indegno di ringraziamenti”.
Annuiva tra se e se e per qualche ragione teneva i suoi pensieri ben chiusi nella mente lasciandomi solo intravedere immagini della battuta di caccia appena consumata.
Notò il mio smarrimento.
“Scusa Edward, ma non è facile cercare di scusarmi nel modo migliore se tu anticipi le mie parole, non ti pare?!” sorrise brevemente.
“Avrei voluto che quella notte qualcuno mi trovasse prima che fosse troppo tardi.
Quello che sto cercando di dire è che Lisbeth sarebbe potuta finire molto peggio di me. E' stata fortunata ad incrociare il tuo cammino. Quindi dovresti accettare la sua benevolenza senza soppesare ogni minima cosa come fai sempre”.
Era tornata seria e si stringeva le mani mentre finiva di parlare. Era stato difficile per lei aprirsi.
“So di risultare sgradevole e so che tu pensi che io sia ingrata nei confronti di Carlisle. So anche che questa vita ha portato qualche cosa buona sulla mia strada”.
Sorrise di nuovo, più dolcemente ora, la barriera che aveva alzato poco prima nella sua mente era svanita e potevo sentire tutta l'emozione che la pervadeva pensando ad Emmett.
Non ero abituato a questo grado di confidenza con lei e dovetti distogliere lo sguardo, un po' a disagio.
“Ma io non sono come voi. Non accetterò mai questa esistenza..O non-esistenza, chiamala come ti pare” fu ancora una volta Rosalie a rompere il silenzio.
“Ce la fai ad occuparti di questa carcassa..” disse indicando quel che restava del leone di montagna, che era stato la mia cena, ancora immobile ai miei piedi, “o tutto questo chiacchierare ti ha provato troppo?”.
Aveva il sopracciglio alzato, una mano puntellata contro il fianco, una'aria vagamente straffottente sui lineamenti del viso.
Il tempo delle confidenze era finito e la vecchia, cara Rosalie era tornata.

fandom: twilight, fanfic (ita)

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