Titolo: Metodo sperimentale
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson
Rating: R+
Conteggio parole: 814 (W)
Prompt: Sherlock Holmes, Holmes/Watson, Al lume di una candela @
P0rn Fest #3 (
fanfic_italia)
Nella mia fantasia, poiché ne possiedo una piuttosto capace, mi permetto di immaginare un corso diverso per le cose che sono avvenute. Non posso eliminare il litigio: c'è stato perché c'è stato, perché doveva esserci, perché egli è ciò che è e, anch'io, in bene o in male, non posso essere altro da ciò che sono. Non cancello il litigio. Ma in questa particolare fantasia l'attesa e il silenzio in salotto, tra la rabbia e l'irritazione e l'incapacità di comunicare, contengono promesse che non saranno tradite; in questa fantasia, non mi aspetta una notte insonne di fronte al fuoco. Devo impegnarmi per non saperlo già quando egli si avvicina, perché le mie reazioni siano le più genuine possibili: non sarebbe credibile altrimenti, e non porterebbe alcuna soddisfazione.
"Tutto è estremamente semplice, per te. Ogni persona è descrivibile come la somma delle sue parti. Invidio la facilità con la quale riduci ogni problema ai minimi termini. Noi mortali..."
No, non funziona. Il concetto è buono - nulla che non gli abbia già sentito esprimere con altre parole - ma la voce non è la sua. Forse:
"Holmes, non puoi pretendere di ridurre una persona a un insieme di dati. Per l'amor del Cielo."
L'imprecazione aggiunge qualcosa; qualcos'altro si perde.
Forse sto tentando la via sbagliata. Più semplice:
"Holmes."
Ha preso la candela dal tavolo, segno che si sta ritirando per la notte. Non c'è altra luce nel salotto, a parte il fioco morire del camino coi suoi deboli scoppiettii.
Non mi ha perdonato, ma è stanco di litigare. Abbiamo avuto diverbi più lunghi e logoranti, a dire il vero, ma mai così personali. Non vado fiero delle cose che ho detto, e neanche lui.
"Mi dispiace di aver perso la calma in quella maniera. È stata una giornata faticosa, ma non avrei dovuto sfogarmi su di te. Ti chiedo di perdonarmi, e vorrei che dimenticassimo le cose che ci siamo detti." Mi porge la mano con un gesto deciso, virile. Vuole concludere l'accordo e farlo al più presto, per dormire tranquillo.
La stringo. Dovrei lasciarla, adesso; i suoi occhi mi guardano con perplessità.
"Dormi con me" dico piano, ma chiaramente, senza lasciare un secondo il suo sguardo.
Watson si ritrae, ed io non trovo la forza di inseguirlo. No, non così. Di nuovo:
"Resta."
Un leggero miglioramento.
"Con me" aggiungo. "Lasciala. Non ha bisogno di te. Nella sua vita saresti solo un grazioso surplus."
Sto forzando le sue reazioni? Watson serra la mascella ma non si muove. Mi sollevo dalla poltrona, tirandolo a me con lo stesso movimento. Sto forzando le sue reazioni? Le sue labbra sono dischiuse e prive di sorpresa contro le mie; morbide e asciutte, col leggero solletico provocato dai baffi. Dovrei fargli dire qualcosa, credo: il dottore sa essere un insopportabile logorroico nei momenti meno appropriati.
“Ma non nella tua” mormora, inutilmente, perché ha un talento per sottolineare l’ovvio.
“Grazioso” ribatto. “Quello non potrei negarlo.”
Non ci sono altre parole. Nella realtà, se mai giungessimo a questo punto, Watson si tirerebbe indietro e pretenderebbe di discuterne; capire; sentirsi spiegare i punti che gli sono oscuri finché tutto non è limpido ai suoi occhi. Ma giacché è una fantasia, posso permettermi di correre avanti. Le mani di Watson armeggiano coi miei calzoni, le mie coi suoi, impacciandosi a vicenda. In lontananza è la vaga promessa di un amore decente, su un letto, dietro tre porte chiuse a chiave e una rampa di scale; invece ci accontentiamo di un incontro frettoloso sulla poltrona, tanto più desiderato perché imprevisto, tanto più emozionante perché illecito. In nessun momento, neanche nella fantasia, Watson promette che resterà. Non lo fa la sua voce, non lo fanno le sue mani. Se mi sento amato è perché so di esserlo, a un livello cerebrale, sovrapposto. È insoddisfacente, ma è tutto ciò che ho.
In qualche modo ci siamo stretti di traverso nella poltrona, e anche se mi manca il suo peso addosso, sento davvero ogni bitorzolo e ogni asperità torturarmi la schiena. L’intelaiatura scricchiola. Watson mi mangia il fiato lasciandomi stordito per un secondo, boccheggiante. La sua mano è larga e ruvida intorno alle nostre virilità strette insieme. Se mi chiedesse altro, l’avrebbe. Se fossi in grado di dargli qualcosa che desidera, qualsiasi cosa in mio potere, lo farei. Ma il dottore non chiede, non l’ha mai fatto, e non posso costringerlo neppure nella fantasia, sapendo che non sarebbe lui. Ho un ginocchio schiacciato tra lo schienale della poltrona e il suo fianco. Darei via la gamba intera perché egli giurasse di restare.
Alla fine è un piacere amaro quello che mi prende, e la fantasia si dissolve nell’attimo esatto in cui la trama dei miei pensieri si sfilaccia, lasciandomi solo in preda al tremore e poi a una desolata sonnolenza, che non mi reclamerà del tutto.
Sopra la mia testa, Watson ha smesso di passeggiare da almeno mezz’ora.