Titolo: Come un sacco di pomodori
Fandom: Axis Powers Hetalia
Pairing: Antonio/Lovino
Rating: NC-17
Conteggio parole: 4672 (W)
Prompt: Axis Powers Hetalia, Spagna/Sud Italia, gelosia @
P0rn Fest #3 (
fanfic_italia)
Note: Ambientazione storica assolutamente random. Da qualche parte intorno al '600, direi.
Davvero, Antonio non avrebbe dovuto fare tutta quella scena solo per un cambio di lenzuola. Certo, non era cosa di tutti i giorni che Lovino sbrigasse le faccende di casa - questo Lovino era anche pronto a concederlo; ma cos'era Lovino, la sua cameriera? E anche se lo era, nessuno aveva chiesto il suo parere e non aveva firmato da nessuna parte quando lui e Roderich se l'erano passato come un sacco di pomodori, quindi se gli piaceva così, bene, sennò a la mierda - ma davvero, la sua reazione era stata esagerata. Per un attimo, solo per un attimo, Lovino aveva avuto l'impressione che si fosse arrabbiato davvero. Cioè, davvero davvero. Aveva stretto gli occhi e contratto la faccia e nel pronunciare il nome di Lovino la sua voce non assomigliava neanche alla sua. Lovino si sarebbe fatto appendere a testa in giù per i testicoli prima di ammetterlo, ma per un attimo - uno solo - aveva avuto paura.
“... che significa?”
Lovino incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo stipite della porta, ostentando noncuranza. “Non lo vedi da solo? Ti ho lavato le lenzuola, coglione. Potresti anche ringraziarmi.”
“Forse ho battuto la testa e non ci vedo più bene. Sarà per quello.”
“Ti sarai fatto troppe seghe” offrì Lovino, utile.
Antonio sembrava frastornato, ma oltre la confusione la rabbia gli stava montando negli occhi, Lovino lo vide chiaramente. Fece un passo indietro.
“È uno scherzo, giusto?”
“Ehi, se mi devi ringraziare così te lo scordi che ti rifaccio un fav...”
“Lovino.”
La falsa sicurezza del ragazzo andò in pezzi come una vetrata in un terremoto. Strinse i denti. Ma che aveva? Il bastardo se l’era presa davvero. Cazzo. Fece un altro passo indietro.
“Di che colore sono le mie lenzuola?”
“Non lo so. Il solito” borbottò Lovino, poco convincente.
“Sono rosa. Perché sono rosa?”
“Ma che vuoi che ne...”
“Lovino!”
Non aveva mai alzato la voce con lui. L’aveva rimproverato una volta o due - più di una o due - ma non aveva mai davvero alzato la voce e non l’aveva mai, mai, guardato così. Lovino sentì una stretta allo stomaco.
“È... è stato un incidente, claro? Le ho lasciate ammollo c-con altra roba e... Insomma, lasciami stare! Te le ho lavate, no? Che cazzo vuoi?”
Pian piano la rabbia gli si asciugò dagli occhi, e asciugandosi sembrò portar via con sé anche l’onnipresente scintilla gioiosa che li riscaldava dal profondo. Lovino non aveva mai visto Antonio così fuori di sé quando lo sentì domandare, a voce bassa e con lentezza: “L’hai fatto apposta?”.
Che domanda idiota, pensò Lovino. Perché avrei dovuto... Ma non fece in tempo a dirlo.
“Capisco.” Antonio andò a sedersi sul letto. Passò una mano sulla stoffa e si guardò il palmo, come a controllare che non stingesse ancora. “Non fai altro che combinarmi cose come questa, quindi a questo punto è inutile che ci prendiamo ancora in giro. Tu mi odi. Forse Francis ha ragione, staresti meglio con qualcun altro.”
Un ago sottilissimo sembrò trapassare il petto di Lovino, e il dolore diffondersi dal cuore come veleno in ogni vena e arteria nel suo corpo. Chissà come, nonostante uno strano torpore fosse disceso sui suoi sensi, notò qualcosa che prima gli era sfuggito.
“Sei ubriaco come una scimmia. Perché cazzo sei andato a bere con quel pervertito, eh? Lui ti... lui... non mi piace!”
Antonio si distese sul letto, appoggiando il braccio sugli occhi. “Vai a giocare fuori, Romano. Ho bisogno di dormire.”
“Non mi hai neanche ascoltato, idiota! Ti ho detto che è stato un...”
“Buenas tardes, Romano.”
Alla fine obbedì, ma solo perché il respiro di Antonio si era fatto lento e regolare e Lovino si convinse che se pure non stava dormendo stava fingendo di dormire, che era la stessa cosa, perché in entrambi i casi Antonio non lo voleva lì. Tornò in cucina. Il tramonto dava un’aria sanguinante a Madrid, che si accordava stranamente col suo umore. L’avrebbe ammazzato, pensò. L’avrebbe ammazzato, quel bastardo pervertito. Non subito, magari - la vendetta è un piatto che va gustato freddo, come la cassata, e nessuno lo sapeva meglio di lui. Ma prima o poi... prima o poi...
Gli sembrò di sentire la voce di suo fratello nella testa, impegnata in un bizzarro dialogo con la sua.
Ma perché vuoi fare male a Francis, fratellino?
Perché è un bastardo pervertito ed è colpa sua se Antonio è tornato ubriaco come una scimmia e ha detto quelle cose.
Che cose?
Quelle cose. Quelle idee. Gliele ha messe in testa lui. Il bastardo.
Che idee?
Che io... che lo faccio apposta a... creargli tutti quei casini. Che lo odio.
E tu non lo fai apposta, vero, fratellone?
Oh, sta’ zitto.
Che ho detto di male?
Non usare quel tono con me.
Ve?
Quel tono... ironico.
Ma tu non lo odi, vero?
Francis? La prossima volta che lo vedo gli tiro un calcio nelle palle che se lo ricorda fino al prossimo secolo.
Antonio!
Ah. No.
No?
No.
Perché sei arrossito, fratellone?
Non... sono affari tuoi. Non sono arrossito!
Non c’è niente di male. Io arrossisco sempre. La signorina Ungheria dice che è una cosa carina quando un ragazzo...
Tu sei piccolo. Ah, ma perché ti sto ascoltando? Tu non esisti neppure. Sei solo nella mia testa.
Veee, che cosa cattiva!
Ora non metterti a piangere. Finiscila. Finiscila, ho detto!
Si era fatta l’ora di cena, e visto che Antonio non sembrava intenzionato a uscire dalla camera da letto e cucinare, Lovino accese il fuoco e preparò la paella. Il profumo avrebbe stanato l’idiota, pensò, e poi avrebbero fatto finta che non fosse successo nulla - non era successo nulla - e Antonio gli avrebbe detto che era buonissima e Lovino avrebbe risposto “Certo, idiota, l’ho fatta io”, e poi magari si sarebbero seduti sulla panchina nel patio e avrebbero guardato un po’ le stelle assieme, visto che era una bella serata, e sarebbe stato davvero come se non fosse successo nulla.
Ma Antonio non scese per cena.
Normalmente Lovino avrebbe scrollato le spalle e mangiato da solo, lasciando che l'altro se la vedesse da solo con la sua cena fredda, ma quella sera il cibo non aveva sapore (controllò: il sale c'era) e faticava a scendere lungo la gola. Con un sospiro, mise via il piatto e inforcò le scale.
Non era preoccupato. Conosceva Antonio come il palmo della sua mano; stava solo facendo scena perché era ubriaco, e Antonio ubriaco diventava una donnina sentimentale. E dire che non si ubriacava facilmente. Distrattamente, Lovino si chiese quanto avesse bevuto, e il pensiero lo rese ancora più furioso col bastardo mangiarane.
La stanza era in penombra. Antonio dormiva, all'apparenza, voltato su un fianco in direzione della porta. Lovino pensò di svegliarlo saltandogli addosso o urlando “Coglione, la cena è pronta”, ma nessuna delle due gli parve una grande idea, date le circostanze. Si avvicinò cercando di raggiungere un buon compromesso tra il suo normale passo spavaldo e uno che fosse il più silenzioso possibile.
Antonio aprì gli occhi.
“Umpf” sbuffò Lovino, arrossendo. Beccato. Incrociò le braccia al petto con aria seccata. “È pronto. Ho cucinato io, visto che tu non ti degnavi di scendere. Se vuoi mangiare freddo, fatti tuoi. E se non vuoi mangiare, uguale.”
Antonio lo studiò per un attimo, poi riabbassò le palpebre. “Grazie. Non ho fame. Tu mangia.”
“Ho già mangiato” mentì Lovino. “Pensi che stia ad aspettare i tuoi comodi?”
Non era preoccupato. Ciò nonostante, quando Antonio non disse niente Lovino sentì una strana ansia montargli dentro.
“Senti...” cominciò, e fallì.
“Senti” riprovò. “Te l'ho detto che è stato un incidente. Sai che me ne frega di rovinarti le lenzuola. Mi...”, prese un respiro, “mi dispiace. Va bene? Mi dispiace. Non c'è bisogno di fare il coglione per uno stupido paio di lenzuola.”
Gli occhi di Antonio si riaprirono. “Non è per le lenzuola.” La sua voce suonava strana, rallentata e come soffocata contro il cuscino, ma non sembrava più ubriaco. “Ho capito... oggi ho capito che tu non stai bene con me. Forse non mi odi, ma è uguale, perché non ti piace stare con me... ti ci sei abituato, mi sopporti magari, ma non ti piace. Quando eri un bambino non ci ho mai pensato, ma ora sei grande e... le cose non sono più come una volta. Francis ha ragione. Tu dovresti stare con qualcuno che ti piace.”
Lovino si sentì avvampare, dentro e fuori. Era incredibile la sfilza di stronzate che un solo uomo poteva mettere in fila, dato un po' di alcool in corpo. “E chi sarebbe questo qualcuno? Eh?” gridò. “Hai già deciso a chi mi vuoi regalare? Magari a quel porco che vuole solo mettermelo nel...”
“No!” Antonio lanciò un grido strozzato e si sollevò dal cuscino, ma i due gesti combinati gli procurarono una fitta di dolore lancinante. “Ay, mi cabeza...“
“Sei un coglione” disse Lovino, rauco. Con sua suprema disdetta, si rese conto che le lacrime avevano cominciato a uscire, e non c'era verso di fermarle. Ne succhiò un po' tra le labbra mentre parlava, la voce deformata in una parodia mostruosa e ridicola: “Sei un bastardo. Che ti hanno offerto in cambio? Che ti sei preso per darmi al miglior offerente? Ti odio!”
Attraverso un velo di lacrime, vide Antonio tirarsi in piedi e sollevare un braccio. Alzò una mano per riparare la faccia, ma il colpo non arrivò; si sentì invece circondare le spalle e tirare verso il letto. Caddero insieme, in un groviglio di braccia e gambe, la camicia di Antonio stretta contro la sua faccia, e Lovino si sentì assalire dal suo odore e la cosa, per qualche motivo, non fece che aumentare il nodo di tensione nel suo petto, finché scoprì di non riuscire più a respirare.
“Ehi. Ehi. Chico. Respira. È tutto a posto. È tutto a posto, giuro che non vai da nessuna parte, da nessuna parte, entiendes?, ma adesso respira. Respira. Così.”
La gola continuava a dolere, ma pian piano l'aria gli tornò ai polmoni e il respiro si normalizzò, anche se il cuore non smise di battere a un ritmo furioso. Antonio osò tirarlo un po' più vicino, anche se non se lo tenne stretto al petto come prima.
“Come puoi pensare che ti darei via? A Francis, poi” mormorò sulla sua fronte. “Non ti darei a nessuno, mai.”
“Tu hai detto che...”
“Sei sempre arrabbiato e scontento. Pensavo che fosse una questione di carattere e che ti sarebbe passata crescendo, ma è solo peggiorata. Ho pensato che magari preferivi stare da un'altra parte.”
“Io non sono sempre...” iniziò Lovino, poi ci rinunciò. “Sei un... coglione.” Tirò su col naso. “Quando me ne vorrò andare t-te lo dirò in faccia. E ti darò un pugno.”
“Perché?”
“Così te lo ricorderai.”
Antonio rise. Il bastardo! Lo sentì ridacchiare, i piccoli sbuffi d’aria calda rimbalzargli sulla fronte.
“Finiscila.”
“Sono contento” rispose Antonio, a mo’ di spiegazione. La risata si spense in un lungo respiro profondo. “Sono contento che non te ne vuoi andare. Ti sono sembrato un cojon, vero? A dirti tutte quelle cose. Avevo... avevo paura. Che mi odiassi. Perché ti tengo qui.”
“Quando ti farai odiare te lo dirò” mormorò Lovino. “Per ora sei solo fastidioso.”
“L’hai detto, prima.”
“Mi hai fatto incazzare. Quello non vale.”
Antonio si tirò un po’ indietro per guardarlo in faccia, anche se nella penombra non si vedeva molto. Gli asciugò le guance con un pollice, poi le baciò. “Sei caldo” sussurrò. “Scommetto che sei tutto rosso come un...”
“Dillo e ti spacco la faccia.”
“... pomodoro” disse Antonio, prendendogli la mano nella sua prima che potesse stringerla a pugno, e gli posò un bacio sulle labbra. “Mi piacciono i pomodori. Mi piacciono un sacco.”
“Non sono un ortaggio del cazzo, brutto idiota.”
“Mmm-mm.” Antonio si portò la sua mano alla bocca e ne baciò il palmo, poi se l'appoggiò sul cuore, tenendola ferma sotto la sua. Il battito era calmo ed energico come i rintocchi delle campane la domenica mattina. Apparentemente soddisfatto, Antonio chiuse gli occhi.
“Che stai facendo?”
“Dormiamo. Tu hai già cenato, no?” Antonio allungò un braccio intorno alle sue spalle. “Stai con me.”
“Non hai dormito finora?”
“Mmm, no. Pensavo.”
Lovino sbuffò. “Chissà che fatica.”
Antonio sorrise senza riaprire gli occhi e non rispose.
Lovino continuò a guardarlo, aspettando che da un momento all'altro gli dicesse che aveva cambiato idea e facesse quello che faceva di solito, ma Antonio sembrava aver preso molto sul serio questa cosa di dormire. Lovino spostò un piede, a disagio. Non che il letto non fosse comodo o la posizione fosse particolarmente fastidiosa - anche se di solito preferiva dormire senza un pachiderma buttato addosso, e allungarsi invece che stare rannicchiato in un angolo. Ma questo atteggiamento di Antonio era... strano. Sentì un po' di ansia tornare ad aggrovigliarsi nel petto.
“Ti sei fatto mettere le mani nelle mutande da Francis, non è vero?”
“Eh?”
“Non fare il santarellino. Lo so che non bevete soltanto.”
Antonio lo guardò con un'improvvisa ruga di preoccupazione tra le sopracciglia. “Saranno almeno tre secoli...”
“Non ti scomodare a inventare una balla” replicò Lovino. “Non mi interessa. E comunque hai il suo profumo addosso, che tra parentesi fa schifo.”
“Anche tu avresti il suo profumo addosso, se ci avessi passato due ore insieme in una stanza. Se n'è versato addosso una distilleria intera, lo fa sempre.”
Per una volta, Lovino non trovò niente di sarcastico da replicare.
“Sei carino quando fai il geloso” mormorò Antonio, sfiorandogli la punta del naso con la sua.
“Ti piacerebbe” sibilò Lovino, a denti stretti.
“Sto per darti un bacio. Non mordere, de acuerdo?”
“Non ci provare nem-mmm!” In teoria, Lovino avrebbe potuto opporsi, spingerlo via, o anche mordergli la lingua, ma in pratica questo era il vero Antonio, e anche se non ne era sicuro al cento percento e un giorno sicuro come la morte se ne sarebbe pentito, Lovino pensava di preferirlo alla sua copia musona e letargica.
Il bacio fu un po' troppo lento e sdolcinato per Lovino, che al contrario di suo fratello preferiva arrivare al dunque senza l'impressione che l'altro l'avesse preso per una bambolina di porcellana, ma era un inizio, e onestamente non poté dire che gli dispiacque più di tanto. Aveva appena iniziato a spostare una mano verso il basso, quando Antonio lo lasciò con un secondo bacetto sulle labbra e si tirò indietro.
“Buenas noches“ mormorò, dolce come una carie, e si girò dall'altra parte.
Lovino fissò la sua schiena come se si fosse trasformata in una bestia particolarmente bizzarra e disgustosa.
“Cos'è, ora fai il prezioso?” sputò.
“Que?“
“Mi pigli per il culo? Che stai facendo?”
Antonio lo guardò con aria confusa. “Dormo. Te l'ho detto prima...”
“Tu... tu non...” Lovino annaspò, mentre un'ondata di sangue bollente gli saliva al cervello. Montò sul suo stomaco, una gamba da ogni lato, schiacciandogli il respiro. “Tu non dormi, brutto idiota col cervello spappolato. Tu non mi ficchi la lingua in gola e poi dormi, stupido... sottosviluppato... bastardo imparentato coi mangiarane!” Punteggiò il discorso afferrandogli un polso e poi l'altro e inchiodandoli entrambi sul cuscino sopra la sua testa.
Antonio corrugò la fronte, e per una manciata di secondi Lovino temette che la stupidità abissale dell'altro l'avrebbe costretto a essere più esplicito di così. Ma poi Spagna lentamente sorrise. “... quieres hacer el amor?“
“Levati dalla faccia quel sorriso da ritardato, che sei già abbastanza brutto.”
“È che non pensavo ti piacesse.”
“Cristo santo, ma sei proprio un...”
“Voglio dire,” riformulò Antonio, “non pensavo che ti piacesse molto. Non sei mai stato tu a, uhm, cominciare, e anche dopo non sembravi... molto felice.” Lovino batté le palpebre, cercando di capire che cosa l'altro intendesse esattamente per “essere felice dopo”. “... Lovino, querido? Pesi.”
“Vuoi fatte le coccole?” chiese il più giovane, vagamente sbalordito. “Per farti capire che mi è piaciuto?”
“... no, no” rispose Antonio, dopo un fatale secondo di defaillance.
“Tu sei... davvero...” Lovino si passò una mano tra i capelli, trattenendosi per un secondo, poi scoppiò a ridere fragorosamente.
“Sì” mormorò Antonio, bonario. Gli appoggiò la mano libera sulla guancia, accarezzandogli piano uno zigomo. “Lo sé.” Lovino sentì la pelle dell'altro sfregarsi contro la sua leggera barba non fatta. “Sono contento che mi ami lo stesso.”
“Non mettermi le parole in bocca, stronzo” mormorò Lovino.
“Quello che vuoi.” Antonio gli prese il viso tra le mani e lo tirò a sé, baciandolo con passione. Dopo tutto quello che l'altro gli aveva fatto passare, Lovino aveva le difese abbassate e perciò rispose subito, e a ripensarci si sarebbe vergognato di essergli saltato addosso in quella maniera, ma sul momento il pensiero non lo sfiorò. Quando Antonio lo rovesciò di schiena sul letto, il più giovane rimase un attimo senza fiato. “Quello che vuoi” ripeté Antonio, mordicchiandogli l'orecchio. “Ti metto in bocca tutto quello che vuoi.”
“Porco.”
“Sai,” disse l'altro, “dopo tutti questi secoli ho smesso di offendermi quando mi insulti. In effetti “continuò, facendo una breve pausa per accarezzargli la conchiglia dell'orecchio con la punta della lingua, “ho cominciato a trovarlo... erotico.” Si leccò le labbra, e Lovino arrossì per l'effetto congiunto delle sue parole e delle carezze. Antonio sorrise, passandogli le dita tra i capelli e sfiorando - per caso? - il suo ricciolo. Un brivido attraversò tutto il corpo del ragazzo, accumulandosi nel basso ventre e facendogli formicolare le dita dei piedi.
“Romano” mormorò Antonio, dritto nel suo orecchio. Una mano scese, accarezzando frettolosamente, lungo il suo torace e lo stomaco, cercando l'orlo dei pantaloni. Senza forzarlo per il momento, risalì un poco, infilandosi sotto la larga camicia di cotone grezzo. Lovino sentì la punta delle dita sfiorargli l'ombelico e disegnare la scia di leggera peluria scura che s'infittiva poco più sotto.
“Ah...” fece Lovino, mordendosi la lingua. Antonio si era spostato leggermente, cosicché la sua erezione ora premeva con fermezza tra le sue gambe.
“Lovi...?” Antonio mosse il bacino, strappandogli un altro suono. Gli prese le mani, inchiodandole al materasso come Lovino aveva fatto con lui qualche minuto prima. “Così non puoi colpirmi” rispose al suo sguardo interrogativo, “mentre ti dico che sei troppo carino quando ti scaldi tutto per me.” Lo baciò di nuovo, ma stavolta nulla lo salvò da un morso ben piazzato sul suo labbro inferiore.
“Sei un vecchio pervertito come Francia” ringhiò Lovino, liberando una mano per afferrargli una manciata di capelli.
“Francis non ha un amante così car-ahi! Che ho detto?”
“Non ce l'ha” disse Lovino, cupo. “E non ce l'avrà mai. Claro?”
“Claro.” Cautamente, Antonio gli prese la mano e iniziò a districarla dai suoi capelli. “Non l'ho detto prima? Tu sei solo mi-ahi!”
“Smettila di dire stronzate!”
“Ma che ho fatto?”
Lovino gli strattonò le ciocche un'altra volta, ma non troppo forte. “Io non sono di nessuno. Sto a casa tua, perché... perché sì. Ma io non sono...”
“Aaaah.” Antonio sospirò, lasciandosi andare col capo sul suo petto. Distrattamente, gli slacciò il collo della camicia, scoprendo la pelle più chiara sotto la stoffa. “Volevo solo dire che ti amo.” Non ricevendo risposta, alzò gli occhi. “Lovi...?”
Lovino ringraziò un certo numero di santi per l'oscurità che nascondeva il colore della sua faccia. Solo Antonio poteva dire una cosa del genere in un tono così... così...
“Finiscila, me lo stai facendo ammosciare. Coglione.”
“¿De verdad? Non posso permetterlo!” Il momento che seguì fu piuttosto confuso, perché prima di rendersene conto Lovino sentì l'aria fresca sulle gambe, e un attimo dopo anche le sue mutande erano andate, lasciandolo nudo dalla vita in giù.
“La felicità del mio querido è la prima cosa per me” mormorò Antonio, posandogli una lenta serie di baci per tutta la lunghezza del pene, e soffermandosi più a lungo sulla punta. La prese tra le labbra, massaggiandola accuratamente con la lingua. Lovino si chiese come facesse a dire stronzate anche mentre gli succhiava l'uccello.
Poi, per un po' Antonio smise di parlare, dedicandosi apparentemente al solo compito di tramutare le gambe di Lovino in due ammassi di gelatina tremante. Lovino si interrogò sul perché lo strano effetto collaterale non avesse ancora smesso di manifestarsi dopo tante volte, ma dovette abbandonare il pensiero - quello e tutti gli altri - per concentrarsi sul proposito di non gemere come una verginella.
“... Lovi” sussurrò Antonio, baciandogli l'interno della coscia. “Ti va di...? Per festeggiare.”
“Che c'è da festeggiare?” ansimò Lovino.
“Che abbiamo fatto pace.”
“... è passata un'ora in tutto, idiota.”
“Sì” ammise Antonio, baciando a memoria il piccolo neo di Lovino sotto l'ombelico. “Mi è sembrato di più.”
Lovino si passò una mano sulla faccia, scostando i ciuffi dagli occhi. Antonio era un idiota, e questo lo sapevano pure le capre di mezza Europa, ma a volte lo guardava in certe maniere, o gli diceva certe cose, che gli facevano attorcigliare lo stomaco, e il peggio è che non era neppure una sensazione sgradevole. Se lo fosse stata, avrebbe potuto cercare di evitarla e dimenticarsene.
Con una mano ancora distrattamente affondata tra i capelli di Antonio, Lovino sollevò una gamba e gliela caricò sulla spalla.
“Vedi di non farmi pentire, grazie” borbottò.
“Ti sei mai...”
“Vuoi parlare o andiamo avanti?”
Antonio si chinò su di lui per baciarlo, spingendogli la gamba al petto. La sensazione dei muscoli della coscia che si tendevano e allungavano gli procurò un calore piacevole, che aumentò quando Antonio lasciò scorrere le dita tra le sue gambe. Lovino gli prese il volto tra le mani, tirandolo a sé per baciarlo meglio e soffocando nel bacio i suoni idioti emessi dalla sua gola traditrice. Ad Antonio sarebbe piaciuto sentirli, ma Lovino non aveva intenzione di fare tanto chiasso per una scopatina di riconciliazione. (Senza contare che, se avesse cominciato ad assecondarlo, un giorno o l'altro li avrebbe sentiti pure Feliciano da casa sua.)
“Mmm... Lovi...” mugolò Antonio, riempiendogli il collo e il petto di baci man mano più appassionati e violenti. Domani il suo corpo sarebbe stato un campo di battaglia, pensò Lovino, un capezzolo stretto piano tra i denti dell'altro, senza osare respirare - e scoprì che non gliene importava niente.
“Daaai” sospirò, un po’ impaziente, un po’ desideroso. “Prendi quella...” ansimò, a frasi smozzicate, la bocca di Antonio ovunque. “Nel... ‘ntonio, porca puttana, non...” Risucchiò un respiro in gola quando Antonio fece una cosa con la lingua che gli tolse per un attimo ogni voglia di protestare. Di certo a un orecchio non doveva essere permesso di sentirsi così emozionato. (Si domandò se in Puglia ci fosse stato un terremoto o qualcosa del genere.)
Il buio si era fatto completo, caldo e avvolgente nell’aria di scirocco come pasta messa a lievitare sotto un lenzuolo. Lovino fece appena in tempo a percepire la distanza tra sé e Antonio che quello era già tornato, il suo peso di nuovo in parte sulla coscia piegata. Una mano calda gli sollevò il bacino dall’altra parte, solcando la base della sua schiena con quattro dita, e Lovino trattenne deliziosamente il fiato e si contrasse quando sentì il pollice scorrergli ruvido tra le natiche e divaricarle con gentilezza. Con abbandono sollevò anche l’altra gamba e la portò a penzolare dalla sua spalla. Al rumore del tappo del vasetto svitato, arricciò istintivamente le dita dei piedi.
“Perché devi sempre fare finta che non ti piace” borbottò Antonio dalle parti del suo inguine, in tono divertito.
“Io non faccio...” iniziò Lovino, ma poi la punta di un dito fresca e untuosa iniziò a toccarlo e dovette portarsi una mano alla bocca per soffocare un rumore imbarazzante a metà tra l’aspettativa e la sorpresa.
Chissà come, nel buio, Antonio intuì il movimento e alzò la mano pulita per afferrargli il braccio e allontanarlo dalla bocca. Camminò fino alla mano e la strinse, tenendola ferma, e con l’altra continuò a fare quello che stava facendo. Lovino sospirò in maniera profonda ma, gli sembrò, dignitosa. Almeno fino a quando Antonio non decise di tornare a impegnare la bocca, organo assolutamente inutile a ogni altro scopo, e Lovino ebbe la netta sensazione che qualcosa accartocciasse e bruciasse i margini del suo campo visivo, risalendo e allargandosi in una vampata dalle guance. Si sentì fluttuare per un secondo, sull’onda di un brivido, e forse gemette forse no, non gli sembrò più tanto importante.
La pressione aumentò e si fece dolorosa di un dolore aspettato, quasi piacevole, e nel quasi c’era un mondo intero ma perché pensarci ora? Ricordò, a caso, le parole di una filastrocca spagnola (Un, dos, tres, chocolate inglés), e gli apparvero improvvisamente oscene, così oscene che seppe che sarebbe arrossito ogni volta che le avesse sentite da quel momento in poi. Non riuscì, per quanto si sforzasse, a ricordare come facesse in italiano, eppure giurava che... (*)
“Coglione” lo chiamò, quando si sentì in bilico. No che non gli tremava la voce. “Falla finita. Vieni qui e scopami.”
“Aaahhh” sospirò Antonio, sollevandosi sulle ginocchia. “Quanto mi piaci quando parli sporco, querido.”
“Non mi chiamare così, co...”
“Mi vida?”
“Non ti azzardare.”
“Amorcito!”
Lovino sbuffò, schiaffeggiandosi la fronte con una mano. “Vaffanculo. Ti muovi?”
“Vaffanculo non mi sembra molto rom...”
Antonio doveva avere la guardia abbassata, perché pur con tutta la sua idiozia, normalmente non si sarebbe lasciato atterrare così facilmente. (E perché no, stavano scopando dopotutto, non c’era nessuna dichiarazione di guerra formale tra i loro governi - non al momento.) Comunque, Lovino non poté trattenere uno rumorino soddisfatto quando l’ebbe sotto, supino e comodo come un cuscino pieno d’ossa, cioè non molto. Si fece forza sulla ginocchia e allungò indietro una mano per aiutarsi. Sentì le dita di Antonio sui fianchi, ai margini e delicate, come in attesa. Per un solo istante Lovino si chiese se non l’avesse fatto apposta a provocarlo perché finisse proprio così com’era finita, ma si rispose che no, Antonio era troppo stupido per una cosa del genere.
Per un po’ ci fu solo disagio, il buio caldo e appiccicoso intorno ai loro corpi e una fastidiosa paura che la manovra non fosse destinata a riuscire, anche se naturalmente era ridicolo perché non era affatto la prima volta, non era la prima in generale né in quella posizione in particolare, e non c’erano mai stati problemi, ma Lovino ansimò frustrato e per un attimo si sentì schiacciare dal fallimento imminente. Antonio prontamente strinse la mano intorno alla sua e lo aiutò senza parlare, tirandolo a sé con una mano ancora sul fianco, e strappandogli un sospiro di fastidio e sollievo allo stesso tempo.
“Così” mormorò Antonio. “Pianino.”
“So come si fa.”
Dopo questo non parlarono più. Felice di averlo zittito, anche se un po’ sorpreso lui stesso perché gli era parso troppo facile, Lovino si dedicò con audacia compiaciuta al solo movimento, la perfetta sequenza di contrai-tendi-allunga-rilascia che andava facendosi più rapida e meno languida, i gesti troncati in scatti sempre più netti, la disperata ricerca dell’angolazione perfetta. Sentì le dita di Antonio chiuderglisi intorno e sospirò, mugolando un apprezzamento che non gli si sarebbe strappato in nessun altro caso. E se in qualche momento in mezzo a tutta la faccenda gli scappò un “ti amo” invece di “così, stronzo”, Lovino credeva che lo si potesse pure giustificare.
Notte fonda, e fuori dell’attutimento sudato del sesso, Lovino sentì le cicale frinire selvaggiamente dai campi di pomodoro e decise che si sarebbe messo a dormire lì dove si trovava, senza lavarsi né niente, e domani Antonio ci avrebbe pensato da sé al suo bucato - ché tanto non meritava altro, lo stronzo.
“Tu culito es la cosa más deliciosa del mundo entero“ si sentì sussurrare tra i capelli. Mollò un pugno alla cieca, raggiungendo una spalla, ma troppo piano. Si sentiva molliccio come un pomodoro troppo maturo e soddisfatto in maniera imbarazzante, come non avrebbe dovuto, come un gatto che ha mangiato il canarino di casa.
“Dormi, coglione” mormorò, la voce già impastata, come sbronza.
“Sì, sì” disse Antonio. “Te quiero también.”
“Io non ho... Vabbè, va’. Mpf” borbottò, prima di lasciarsi andare al sonno. O qualcosa del genere.
(*) In italiano è "Un due tre, stella".