[Sherlock Holmes] Venti buoni motivi

Dec 31, 2010 17:12

Titolo: Venti buoni motivi
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson
Rating: R+
Conteggio parole: 3.386 (W)
Note: Pre e post-STUD. POV Holmes.
Scritta per: P0rn Fest #4, prompt "I've never thought of you as ordinary".

Nei suoi racconti delle mie avventure, come ama chiamarle, il mio amico Watson ha spesso e volentieri mistificato la realtà in favore di uno scioglimento più consono alla sua ferrea morale, di un effetto estetico complessivamente più gradevole, o anche solo per attribuirmi meriti maggiori di quelli che mi spettavano. È uno dei suoi difetti, non il più insignificante, e uno per il quale l’ho spesso rimproverato. Ad ogni modo, ho tollerato - o forse dovrei dire ignorato - la quasi totalità di queste mistificazioni perché, di volta in volta, mi divertiva la discrepanza con la realtà o ci era utile che certi fatti restassero accuratamente coperti da un velo di prosa di maniera. C’è però una larga sezione della nostra prima convivenza che Watson ha passato sotto silenzio, per ignoranza dapprima, per discrezione dopo, ed è a tale mancanza che questa mia intende porre rimedio.

Il mio coinquilino di nemmeno un mese scriveva liste su di me, sulle mie qualità e i miei difetti. Ne ha inserita una nello Studio in rosso, ma ce n’erano molte altre, sulla maggior parte delle quali non arrivai mai a posare le mani. Un giorno intercettai, felicemente, una lista che avrebbe potuto intitolarsi “Sherlock Holmes - Ragioni per odiarlo” e raccontava nel dettaglio le mie peggiori abitudini. Una voce, se ricordo ancora bene, recitava: “Perché tormenta quel violino come un eretico nelle mani dell’Inquisizione quando lo so capace di far piangere gli angeli”. Fervida immaginazione a parte, la trovai molto ricreativa.

Quello che il mio coinquilino non poteva sapere è che anch’io avevo scritto una lista sul suo conto. Come titolo aveva solo il suo nome, e riassumeva tutte le ragioni per le quali a nessun costo potevo permettermi che John Watson lasciasse le stanze a Baker Street, e me, in cerca di una sistemazione migliore. Il suo unico scopo era stato di ricordarmi, nella brutta serata seguita a un brutto litigio (il primo tra noi, credo), che non avevo alcun desiderio di tornare allo stato di cose che aveva preceduto Watson, per una serie di ottimi motivi. Diceva così:

1. Perché da solo non puoi permetterti l’affitto.

2. Perché dovresti cercare un altro alloggio e non puoi permetterti di sottrarre tempo al caso Perkinson.

3. Perché, non potendo permetterti l’affitto e non potendo permetterti di cercare un altro alloggio, dovresti chiedere ospitalità a Mycroft, e ciò è da evitare assolutamente.

4. Perché tolleri la sua presenza e perfino la sua compagnia.

5. Perché fuma sigarette di ottima marca e ha buon gusto per i liquori.

6. Perché ama la buona conversazione ma non parla troppo.

7. Perché non è avido né maleducato né attivamente irritante in alcuna maniera.

8. Perché non è un ubriacone.

9. Perché non è un oppiomane.

10. Perché ha un solo vizio (scommesse) e l’hai già convinto a limitarlo in misura significativa.

11. Perché non porta donne a casa.

12. Perché non porta uomini a casa.

13. Perché un dottore torna sempre utile.

14. Perché si preoccupa per la tua salute ma è troppo educato per fartelo pesare.

15. Perché ha capacità di deduzione mediocri, ma osserva instancabilmente. (Quattro Cinque liste finora.)

16. Perché è rassicurante e il caos tace quando egli è nella stanza.

17. Perché è di gran lunga il male minore tra i quattro che Stamford ti ha presentato.

18. Perché ha amato degli uomini in passato - almeno uno nell’esercito (indagare) - e se anche dovesse accadere il peggio, non ti denuncerà.

19. Perché sospetti che non ti denuncerebbe in ogni caso.

20. Perché è un brav’uomo, per quanto ordinario e prevedibile fino al ridicolo.

Ero arrivato al punto 19 quando Watson si era affacciato alla base delle scale in camicia da notte e vestaglia per domandarmi scusa per quell’assurdo litigio. Ora non ricordo più per cosa avessimo discusso; so per certo però che entrambi avevamo bevuto un bicchiere di troppo, e che entrambi avevamo detto cose delle quali ci eravamo già pentiti. Gli avevo stretto la mano, e Watson era tornato in camera. Poi avevo aggiunto l’ultima voce in fretta e, soddisfatto della lista, l’avevo chiusa a chiave nel mio cassetto.

Non avrei ripensato alla lista fino a un anno da quella sera. Giacché io solo avevo le chiavi del mio cassetto, e la cosa era essenziale alla nostra convivenza (per questa ragione, per esempio, il libretto degli assegni di Watson riposava lì e non altrove), non avevo pensato a distruggerla. Dopotutto la lista aveva, per me, un certo valore sentimentale. Una sciocca imprudenza da parte mia, come presto avrei imparato.

Watson dormiva nel mio letto. Nulla di strano in questo; lo faceva ormai da qualche tempo, da quando, bontà sua, aveva avuto l’idea insensata di dichiararsi mio in una serata piena di colpi di scena ai quali l’alcool non era stato del tutto estraneo. Dormiva, dunque, ma quando feci un movimento per prendere la bottiglia d’acqua sul comodino, per quanto cauto, si svegliò all’istante. Il mio Watson aveva, ed ha ancora, buoni riflessi da soldato e il sonno leggero. Forse l’avevo destato da un brutto sogno, perché alzò una mano di scatto ad afferrarmi il braccio e lo strinse per un attimo, prima di svegliarsi del tutto.

“Mm,” mormorò, lasciando ricadere la mano sul cuscino. “Buongiorno.”

“Buongiorno,” risposi, togliendo il tappo alla bottiglia. “Hai dormito bene?”

“Ho dormito?” ribatté. “Non me ne sono accorto.” Aprì un occhio e accennò una risata a bocca chiusa, un piccolo suono gutturale che mi riempì di muta ammirazione per nessuna ragione in particolare.

“Hai dormito ampiamente, e russato. Mi hai impedito di prendere sonno per quasi un’ora.”

“Ora questa è certamente una bugia. Ricordo alla perfezione l’ora a cui ti riferisci, ed ero sveglio. Eravamo svegli entrambi. Era quello il punto, mi pare.”

“Dopo,” lo corressi, ridacchiando silenziosamente. “Parlo dell’ora dopo.”

“Non ti seguo,” ribatté. “Di che dopo parli? Dopo che ti ho posseduto fino a farti dilaniare il cuscino coi denti, o dopo che sei venuto nella mia bocca e non hai detto parola per quindici minuti? Il secondo precede il primo, mi pare, dunque dovremmo immaginare una pausa di un’ora nel mezzo…”

“Oh, sta’ zitto,” lo mandai al diavolo, ora ridendo apertamente. Mi calmai per bere qualche sorso dalla bottiglia, e gliela passai. Watson si mise a sedere contro la testiera. Aveva i capelli arruffati e il segno dei miei denti sulla spalla, quella sana. “Sembri sfuggito a una battuta di caccia,” commentai, allegramente.

“Credo, ma non ne sono sicuro, di preferirti a una muta di cani,” considerò prendendo un sorso.

“Sono meno aggressivo?”

“Meno costoso.”

Appoggiai una mano sul suo torace, muovendola verso l’addome in una pigra carezza. Era una giornata eccezionalmente bella, o così mi pareva. Watson mi lanciò uno sguardo con la coda dell’occhio, giacché ero troppo vicino, e poi inclinò il capo per baciarmi.

“Buongiorno,” mormorò sulle mie labbra.

“L’hai già detto.”

“Quello era un saluto. Questa è un’affermazione.”

“Una stima ottimistica,” replicai, e poi: “Stavo pensando qualcosa di simile”.

“Vedi, non sei il solo dotato del potere di leggere nella mente.”

Per qualche secondo nessuno dei due parlò, e nel silenzio sentii la pioggia ticchettare fuori dalla finestra, oltre le tende tirate, e vidi - chiaramente come se fossero state aperte - Baker Street grigia e bagnata sotto un diluvio di pioggia fina. Mi rallegrai, ma allo stesso tempo pensai che la gamba gli avrebbe dato problemi come sempre faceva col tempo umido, e la mia allegria si asciugò in parte.

Watson stava tastando tra le coperte intrecciate alla ricerca della vestaglia che, lo ricordavo anch’io, era stata lì la sera prima. Poi, con un sospiro di resa, smontò dal letto e mi donò una visione del suo fondoschiena nudo mentre cercava l’indumento sotto il materasso. Si infilò le braghe, contrariando le mie speranze, e la vestaglia senza null’altro sotto.

“Dove vai?” domandai prima di osservare meglio, perché talvolta Watson, soprattutto se completamente nudo, ha questo effetto su di me.

“Deducilo,” mi rispose infatti, dirigendosi alla porta.

“La pantofola per me,” gli gridai dietro, e Watson mi gridò di rimando che avrei fumato oneste sigarette britanniche o mi sarei alzato a prendere il mio tabacco bruciato da solo.

Non tornò subito. Dal momento che dalla mia camera da letto al soggiorno non ci sono scale e le sigarette erano in soggiorno, non vedevo ragione di metterci tanto.

“Watson?”

“Ma dove le hai messe, di grazia?”

“Ah, le ho finite. Ne ho lasciato un pacchetto nuovo nel mio cassetto.”

Watson riemerse sulla soglia. “La chiave?” Gli indicai il mio gilet posato sulla sedia ed egli recuperò la chiave e tornò in salotto, stavolta lasciando la porta semiaperta alle sue spalle. Lo intravidi raggiungere la mia scrivania e aprire il cassetto, poi soffermarsi un po’ troppo a lungo e infine tornare sui suoi passi lentamente, le sigarette in una mano e un foglio nell’altra.

“Cos’è?” domandai.

Watson fece schioccare la lingua contro il palato. Sembrava divertito, e il divertimento, insieme a una vestaglia aperta sul torace nudo, lo rendeva una visione. “Dimmelo tu. ‘John Watson. Uno. Perché da solo non puoi permetterti l’affitto’. Cos’è, la lista delle ragioni per le quali mi porti a letto?”

Il divertimento, la vestaglia aperta, i capelli evidentemente disordinati da un amante feroce e ora quel linguaggio da casa di malaffare mi avrebbero certamente perduto, se la mia attenzione non fosse stata catturata in gran parte dalla lista.

“Domanda stupida. Se osservassi, sapresti che quel foglio ha più di un anno,” risposi, tendendo la mano per prenderlo, ma Watson vi depositò invece le sigarette e i fiammiferi. Sedette di sbieco sul bordo del letto, piegando una gamba sul materasso.

“Chi è Mycroft?” chiese, senza alzare lo sguardo.

“Un amico.”

“Non sapevo ne avessi.”

“Hai ragione, ‘amico’ non è la definizione migliore.”

Alzò gli occhi. “Amante?”

“Mio Dio, no,” risi. “Non lo penseresti se lo conoscessi.”

“Lo conoscerò volentieri, se me lo presenterai,” rispose, amabile.

“Un giorno,” promisi.

Tornò a leggere, un vago sorriso sulle labbra. “Devo dire, Holmes, eri in vena di complimenti quando hai scritto questa lista. Non sono… leggo bene?... ‘attivamente irritante’?”

“Potrei riconsiderare questa osservazione,” replicai. Le due ali aperte della vestaglia gettavano un’ombra aguzza sul suo addome. Scivolai più vicino, le lenzuola sulle gambe.

“‘Perché non porta uomini a casa’. Un anno fa, hai detto?”

Studiai la sua espressione. “L’avrei saputo.”

“Oh, sì, indubbiamente. Questo mi era già chiaro al tempo.”

“Perché sorridi?”

“Mm? Oh, nulla, una sciocchezza. Ero talmente infatuato che non mi sarei accorto se un ragazzo da bordello mi avesse sfilato i pantaloni in mezzo a una strada, figuriamoci portare qualcuno a casa.”

Era una delle cose più romantiche che mi avessero mai detto, in una maniera non proprio convenzionale, ma d’altra parte non sono solito reagire al romanticismo convenzionale. Gli appoggiai le labbra sulla spalla, sul segno del morso, risalendo da lì in una lenta progressione fino al collo. Tuffai una mano tra le ali della vestaglia, accarezzando con le punte delle dita il solco tra i pettorali.

“Oh, lieto di sapere che posso sempre tornare utile,” commentò Watson, continuando a leggere. Inclinò leggermente il capo per lasciarmi accesso alla sua gola, e veramente per un attimo lo paragonai a una preda vinta che si offre per il colpo di grazia al suo aggressore. Le mie dita scesero sull’addome, sfiorarono l’orlo di lana delle braghe e lo oltrepassarono.

“‘Il caos tace quando sono nella stanza’? Non ho idea di cosa… ah, Holmes… di cosa tu voglia dire, ma credo sia una delle cose più romantiche che mi abbiano mai detto.”

Alzai il capo. Dopo un anno, a tratti mi illudevo di avere ormai visto tutto ciò che c’era da vedere di John Watson, e poi accadevano cose come questa ed io ero costretto a ripensare tutte le mie convinzioni. Fu un momento glorioso, a modo suo, e dovetti concedermi una piccola celebrazione privata prendendogli il viso tra le mani e baciandolo finché non fummo entrambi accaldati e ansimanti l’uno contro l’altro. A questo punto Watson aveva poggiato la lista sul letto e se ne sarebbe forse dimenticato se, nel togliergli la vestaglia, non l’avessi lasciata cadere sul foglio stesso, che crepitò.

“Lasciami finire,” disse Watson, ripescandolo con destrezza. Io gli montai sulle gambe nello sfacelo delle lenzuola, e ripresi esattamente da dove avevo lasciato un momento prima sulla sua gola. Non vidi perciò la sua espressione cambiare, ma lo sentii irrigidirsi sotto di me.

“Watson, cosa c’è?” domandai all’istante, temendo per un assurdo momento di avergli fatto male, forse schiacciato un nervo, perché la ferita alla coscia era ancora recente. Ma non era la ferita; Watson stava ancora guardando il foglio. Abbassò gli occhi e lo richiuse lungo la piega, lasciandolo volare nell’angolo più lontano del letto.

“Niente. Dov’eravamo rimasti?” domandò con un bel sorriso che non mi convinse, appoggiandomi le mani sui fianchi.

I miei occhi saettarono verso la lista; i suoi evitarono di seguire i miei. “Cos’hai letto? Non ricordo più…”

Mi spinse disteso sulla schiena, allontanandomi mille miglia dalle scempiaggini che avevo scritto senza pensare un anno prima, e senza pensare avevo deciso di conservare.

“Tu hai ragione,” mormorò sulla mia bocca. “Sono una persona estremamente ordinaria. E prevedibile. Non ne ho mai fatto mistero, e comunque non posso essere più di ciò che sono.”

“Non puoi perché non è possibile,” obiettai rapidamente. “Sarebbe un traguardo senza precedenti per l’umanità. Watson, davvero, quelle cose…”

“Non sono offeso. Ho l’aria d’esserlo? Giuro che non lo sono. Ti amo. E tu hai tremendamente ragione, e sappiamo entrambi che è vero, e dunque a che pro offendermi?”

“Perché non è vero,” replicai, ora sinceramente allarmato. “Ero ubriaco, e ti conoscevo da un mese. Avevamo litigato. Ho pensato che avresti chiesto scusa per primo, e l’hai fatto, ed ero così ubriaco che la cosa mi è piaciuta e ho aggiunto quella riga. Watson, non ti ho mai creduto una persona ordinaria. Non tu, sarebbe da idioti.”

Mi baciò, con gentilezza. “Non sono offeso,” ripeté. “Smetti di parlare.”

“E tu smetti di ripeterlo, se è vero. Non credi a una parola di quello che ti ho detto.”

“No, ma non importa. So perché sono qui, e anche se ancora non capisco perché ci sia tu - a parte il fatto che non bevo e non porto prostitute a casa - ho sempre saputo che le tue ragioni dovevano essere completamente differenti dalle mie. So che non potresti stare con una persona eccezionale. Questo non significa che non vorrei essere qualcosa di meglio. Per te. Ma non mi è possibile, e davvero, Holmes, non sono…”

“Un perfetto idiota,” borbottai. “Ecco cosa sei. Ed io peggio di te, per non aver bruciato quella cosa la sera che l’ho scritta. Watson, vuoi concedermi che non sprecherei mai il mio tempo con una persona che non lo valesse?”

“Holmes…”

“C’è una riga che ho scritto un anno fa, quando a malapena sapevo il tuo nome e credevo di aver capito tutto quel che c’era da capire. E ci sono io, qui, e ti dico che l’ho conservata perché in capo a una settimana sapevo che non avrei mai potuto scrivere un’idiozia più grossa di quella, e l’ho tenuta a monito imperituro di quanto sia pericoloso teorizzare senza dati, sempre come regola generale, e specialmente quando ci sei tu di mezzo.”

Sorrise, piegando il capo nell’angolo più squisito del creato, e una ciocca gli ricadde sulla fronte come il gambo stanco di un fiore.

“Non credi a una parola, non è vero?”

Mi baciò di nuovo. Watson non è una persona scarsamente affettuosa, di solito, ma non ha l’abitudine di usare il suo corpo per evitare un discorso.

“Non mi credi,” ripetei, allontanandolo. Cominciavo a irritarmi e la cosa non ci avrebbe portato da nessuna parte, ma la triplice consapevolezza di aver commesso un’imprudenza, di averlo ferito, e di essere costretto nella posizione di dover confutare me stesso mi dava sui nervi.

“Tu, un errore di valutazione così grossolano?” obiettò Watson, gentilmente.

“Ne commetto cento al giorno.”

“Non scommetterei su uno.”

“Questo è perché non osservi.”

“Instancabilmente, hai detto.”

“Quando si tratta di te non faccio altro che cadere in contraddizione. Hai un effetto deleterio sul mio cervello.”

“Oh, no,” sussurrò, scherzando, e vidi che l’amarezza si stava dileguando lentamente.

“Oh, sì. La tua presenza è altamente nociva.”

“Questa non è la cosa più consolante che mi sia stata detta.”

“Mi dispiace, ho poca pratica. Ma nessun altro ha questo potere su di me. Nessuno.” Feci una pausa per guardarlo assorbire l’informazione. Mi sembrò di vederla fisicamente penetrare nei pori e diffondersi sulle guance sotto forma di un leggerissimo rossore. “Baciami come si deve, ti dispiace?” suggerii.

Fu in mezzo al bacio che capii davvero in che razza di situazione mi fossi andato a cacciare, cominciando questa liaison con John Watson. Avevo scelto, per un futuro indefinito ma possibilmente lungo, di accompagnarmi a un uomo che sarebbe morto senza rimorsi al mio comando, ma avrebbe sofferto tremendamente (e per quanto, non potevo saperlo) per una cosa di nessuna importanza che avevo appuntato durante una sbronza; che mi venerava come una divinità ma rifiutava di credere che non desiderassi una persona altrettanto eccezionale al mio fianco; che non sapeva nulla di me ma mi mandava in confusione per il semplice fatto di esistere; un uomo del quale ancora, dopo un anno, sapevo a malapena qualcosa di più delle preferenze in fatto di sartoria.

Era stata una pessima idea, decisi. Di certo mi avrebbe ucciso prima della fine dell’estate, o l’avrei lasciato io per non vedere più quello sguardo che diceva: Ti amo. Non sono offeso, perché sarebbe stupido da parte mia, e non posso, non devo, a nessun costo mai ti permetterò di pensare che io sia uno stupido, perché quello sarà il giorno che mi lascerai per una persona migliore.

Qualcosa andava fatto, pensai, combattendo per conservare ossigeno al cervello mentre Watson mi prendeva in bocca con avidità furiosa, e la stanza tremava sulle sue fondamenta. Qualcosa di drastico. Qualcosa che impedisse a lui di uccidermi e a me di lasciarlo. Era necessario; non potevo correre il rischio.

“Sei un idiota,” boccheggiai, torcendogli crudelmente le ciocche tra le dita. “È ovvio. Lo capirebbe anche un bambino. Non sarei, non saresti qui.”

Watson si ritrasse lentamente, continuando come se non avesse sentito, ma sentii la sua mano stringermi il fianco.

“John,” ansimai, pregai, soffocai un gemito.

Watson mi accolse nuovamente intero, mi fece sentire la superficie del palato e poi le pareti della gola. Mi tirai su in uno spasmo di piacere forte come un brivido, incurvando la schiena, e subito mi lasciai ricadere sul cuscino.

“Ti amo,” confessai. “Ti amo e per Dio, è l’idea peggiore che mi sia mai venuta. Tu sarai la mia morte. È chiaro.”

Furono gli ultimi suoni coerenti che riuscii ad articolare, prima che Watson me ne togliesse completamente la facoltà. Mi spensi nella sua bocca, incapace di oppormi, di dirgli di aspettare, perché a letto Watson è più un soldato che un medico, e c’è un piacere perverso, noto a molti uomini, nell’essere dominati dal proprio compagno.

“Ti diverti, scommetto,” borbottai qualche momento dopo, quando si distese al mio fianco con un vago sorriso.

“Oh, grazie a Dio. Credevo che avrei dovuto attendere un altro quarto d’ora.”

Gli appoggiai una mano sulla tempia, stringendo i capelli sottili in una presa salda. “Tu,” ripetei, “sarai la mia morte.”

“Sì, ho sentito.” Mi baciò, la sensazione non gradevolissima, ma d’altra parte non era neppure la prima volta. Portai una mano tra le sue gambe. “Grazie,” sussurrò, lasciando scivolare cinque dita ruvide sulla mia schiena.

Non era una situazione ideale, certamente. Prima o poi l’avrei ucciso, o mi avrebbe lasciato, e allora avrei dovuto cercare qualcun altro per pagare metà dell’affitto o - Dio non volesse - chiedere aiuto a Mycroft. Ridacchiai al pensiero. L’ultima volta mi aveva letto addosso tutti i segni del passaggio di John Watson, lo sapevo dal modo in cui aveva bruscamente distolto lo sguardo.

“Perché ridi?”

“Nulla. Una sciocchezza.”

Avrei cercato di farla durare il più possibile. In capo a un mese o due, Mycroft avrebbe smesso di distogliere lo sguardo, e in capo a un anno o due avrei potuto presentarglielo. Con calma. Con un buon pretesto. Se John Watson fosse stato ancora lì.

Avevo una lunga serie di buoni motivi per sperarlo.

fic, pairing: holmes/watson, language: italian, fic: sherlock holmes, challenge: p0rn fest

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