[Sherlock Holmes] My Infinite Variety (A Case of Identity) 1/5

Dec 01, 2010 00:15

Titolo: My Infinite Variety (A Case of Identity)
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson
Rating: R
Conteggio parole: 41.410 (W)
Parte: 1/5
Warning: Slash, what if, qualcos'altro che ora non mi viene in mente
Note: What if su EMPT.
Scritta per: bigbangitalia, seconda edizione.
Introduzione: 1894. Un uomo si presenta allo studio del dottor Watson: è Sherlock Holmes, avventurosamente sopravvissuto allo scontro con Moriarty a Reichenbach, e ora tornato per sgominare il resto della banda. Watson reagisce in maniera imprevista.
Gift: _izu_, bontà sua, mi ha donato questa cosa meravigliosa per la quale non ci sono parole abbastanza emozionalpiagnucolose. Andate e commentatela tutti!



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My Infinite Variety

A Case of Identity

I had no idea that such individuals exist outside of stories.

John H. Watson, A Study in Scarlet

Tornavo a casa, in quella sera di primavera del 1894, con una strana sensazione addosso - un presentimento, se vogliamo, che qualcosa di estremamente sbagliato avesse preso il mondo intero, e Londra in particolare, e non avrebbe lasciato l’uno e l’altra finché qualcuno non fosse intervenuto a risistemare le cose. Non credevo al tempo che ci fosse alcunché di misterioso in questa sensazione. Essa era di certo dovuta, almeno in parte, alla notizia dell’omicidio di Ronald Adair, che da più d’un mese teneva avvinto l’interesse di Londra tutta e sgomentava l’alta società per le sue circostanze inusuali e inesplicabili; e per l’altra parte era la conseguenza di un lutto personale. Quel giorno, il sei maggio, ricorreva l’anniversario della morte della persona a me più cara al mondo.

Camminavo perciò pieno di grevi pensieri, e fu loro la colpa se, nel voltarmi bruscamente, andai a urtare un vecchio storpio e feci cadere molti dei libri che portava. Li raccolsi, scusandomi, ma mi apparve chiaro che i libri che avevo maltrattato gli erano preziosi e lo sguardo che mi lanciò fu a un tempo severo e intensamente concentrato. Scorsi due occhi grigi sopra un naso bitorzoluto e una bocca dalle labbra sottili, deformata di lato da una paralisi. Pensai che volesse dirmi qualcosa, ma si limitò a volgere le spalle e incamminarsi con un borbottio di disappunto. Vidi la schiena curva e le grosse basette bianche allontanarsi tra la folla.

La casa mi accolse con lo spaventoso silenzio che ormai le era proprio. Lasciando il cappotto a Beth, ripercorsi stancamente l’atrio e le scale familiari. Nello studio mi attendeva, seduta sulla scrivania, una vecchia pipa di radica che conteneva in sé più ricordi di un libro intero. Invero avrei dovuto spostarla. La cosa migliore sarebbe stata gettarla in un cassetto o riporla in una scatola, tutto purché non dovessi vederla ogni mattina quando aprivo le visite e ogni sera quando le chiudevo, e ogni singolo momento tra l’uno e l’altro. Ma il dolore rende insensibili al dolore, e quando non riusciamo a sentirne abbastanza ne desideriamo ancora, e che sia forte e continuo, perché la paura di smettere di sentirlo è più lacerante del dolore stesso.

Ero nel mio studio da neanche cinque minuti, quando la cameriera entrò a informarmi che una persona desiderava vedermi. Con mia sorpresa, altri non era che il vecchio, lo strano collezionista di libri; il suo volto affilato e raggrinzito faceva capolino da una cornice di capelli bianchi, e i suoi preziosi volumi - almeno una dozzina - erano assicurati sotto il braccio destro.

“Lei è sorpreso di vedermi, signore,” disse con una strana voce rauca.

Ammisi di sì. Gli occhi dello sconosciuto ebbero un guizzo in direzione della pipa sulla mia scrivania, e si leccò frettolosamente le labbra. Indispettito mio malgrado, desiderai intensamente che la conversazione fosse già finita, e l’uomo alla porta.

“Il punto è, signore, che intendevo scusarmi se le mie maniere sono state un poco maleducate, prima, in strada. Non avevo niente contro di lei, volevo dirglielo, e ringraziarla per aver raccolto i miei libri.”

Annuii, sbrigativo. “È stata una sciocchezza, non se ne dia pena.” Poi, perché l’uomo continuava a fissare la pipa con un’insistenza che trovai francamente inappropriata, lo incalzai: “Posso chiederle come sapeva chi sono?”

L’uomo, che aveva alzato una mano nell’aria in direzione del mio tavolo, la ritrasse all’istante, come riscosso da un sogno. Cominciai a pensare che ci fosse qualcosa di instabile nella sua mente, forse una forma di demenza senile.

“Ecco, sono un suo vicino, signore. Ho una piccola libreria all’angolo di Church Street. Forse anche lei colleziona, signore…”

“No,” risposi, più bruscamente di quanto avessi inteso. “Nient’affatto.”

L’uomo sorrise un sorriso storto con la bocca semiparalizzata. “Vedo che questa stanza è piena di libri. Certamente lei è un uomo di approfondite letture.”

Si era frattanto avvicinato alla mia scrivania passo dopo passo, e con una mossa repentina catturò la pipa nelle dita sottili e stranamente delicate della mano sinistra.

“Signore, se non le dispiace…”

“È un ricordo,” mormorò il vecchio, passando l’indice sul cannello e guardandosi poi il dito. “Inutilizzata da anni. Oh, ma il fornello è pulito esternamente, invece. Non la usa, ma…”

Mi allungai da dietro la scrivania per strappargliela dalle mani. “La prego di andarsene.”

“Di una persona che non c’è più,” continuò il vecchio, impietoso, guatandomi con quegli occhi grigi che sembravano non appartenere al resto della faccia. “Quando…? Oh.” Fissò per un momento lo sguardo sul muro, e in tutta onestà non so cosa vide, ma le sue parole seguenti furono: “È oggi. Naturalmente. Stupido da parte mia”.

“Signore,” scandii, incapace di sopportare la sua presenza ancora per un altro istante, “abbia fede che, se non lascia questa stanza e questa casa all’istante, provvederò a buttarla fuori di peso. Non creda che la sua età costituirà un ostacolo. Ora, se non le dispiace…”

“Sono mortificato,” ribatté l’uomo, prontamente. “Non so cosa mi sia preso. Importunare un gentiluomo come lei - e così gentile, per giunta. Mi perdoni. No, mi creda, non intendevo irritarla. Solo, non ho potuto fare a meno di notare quello spazio vuoto sulla seconda mensola. Con cinque volumi sarebbe riempito. Non ha un aspetto trasandato, così? Non le sembra?”

“No,” risposi, senza voltarmi. “Fuori.”

“Ho tutto, sa? Uccelli inglesi, e Catullo, e La guerra santa…”

“Oh, per l’amor del cielo. Se ne vada!”

Credo che dovetti distogliere lo sguardo per un secondo al massimo - qualcosa attirò la mia attenzione fuori dalla finestra, o forse semplicemente alzai gli occhi al cielo in un moto di esasperazione. Quando li riportai sulla stanza, il vecchio era sparito, e un altro uomo stava al suo posto e mi sorrideva dall’altra parte della scrivania.

Era eccezionalmente alto e magro, con il volto scavato da più di una notte senza sonno, un naso aquilino e terribili, infiniti occhi grigi.

“Non so come abbia fatto,” dissi lentamente, stringendo le dita intorno al pomello del cassetto nel quale tenevo il mio vecchio revolver d’ordinanza, “e non voglio sapere perché. Signore, lei adesso si volterà e se ne andrà. All’istante.”

L’uomo corrugò la fronte in una ruga profonda, e la sua espressione serena si spezzò in una di preoccupazione genuina. “Mio caro Watson,” mormorò, “ti devo mille scuse. Non credevo che avresti reagito in questa maniera.”

“La porta,” intimai, estraendo la pistola dal cassetto. Era scarica, ma l’intruso non aveva modo di saperlo. “Adesso.”

Lo sconosciuto rimase perfettamente immobile - così immobile, difatti, che credetti non mi avesse sentito. Ma quando aprii la bocca per ripetere l’ordine, mi precedette.

“Watson,” disse, come se il mio nome gli facesse male al solo pronunciarlo. “Non mi riconosci?”

“Non l’ho mai vista prima in tutta la mia vita. E me lo lasci dire, se il suo intento è rapinare, avrebbe potuto escogitare uno stratagemma migliore.”

Alzò una mano, ma con la pistola seguii il suo gesto ed egli la ritirò subito. Aveva d’un tratto un’aria estremamente addolorata.

“No,” mormorò. “Non intendo rapinarti.” Poi si riscosse, come un uomo che ha preso una decisione, e con un balzo in avanti appoggiò entrambe le mani sulla mia scrivania e si tese verso di me. D’istinto gli premetti la pistola contro il petto e feci un passo indietro. “Non farai fuoco,” disse, scuotendo la testa. Oh, quegli occhi. Sentivo che avrebbero potuto uccidere, se solo avessero voluto. “E ora guardami. Concentrati e guardami. Watson, davvero non sai chi sono?”

Esitai. La certezza assoluta non è di questo mondo. Per un istante sospettai un compagno di scuola, un collega d’università. Un paziente. Un commilitone. Ma no, avrei potuto dimenticare il resto delle sue fattezze, ma quegli occhi, come avrei potuto?

“Non ne ho la più pallida idea,” scandii, “e vorrei che rimuovesse la sua presenza da casa mia. Non voglio spararle, è vero, ma per Giove, mi sta lasciando pochissime alternative.”

“Non è possibile,” mormorò, abbassando lo sguardo per un istante. Subito lo rialzò con uno scatto. “Mio caro, se è un terribile scherzo… per punirmi, certamente, per tutti questi anni, per non averti detto… Watson, giuro che mi farò perdonare in ogni maniera possibile e inventerò l’impossibile se necessario, Dio sa se non merito questo ed altro, ma adesso ti prego di cessare questa farsa all’istante. Non posso sopportarla. Non da te.”

C’era una nota di disperazione talmente reale e straziante nella sua voce che sentii il fastidio abbandonarmi. Un lunatico, senza dubbio, ma il dolore era genuino. Il dottore prese il sopravvento sull’uomo, perché ci sono richiami che non si possono ignorare.

“Signore,” dissi con più gentilezza, appoggiandogli una mano sulla spalla, “lei è confuso. È comprensibile. Probabilmente mi ha scambiato per qualcun altro. Un caso di omonimia…”

“Saprei riconoscerti da un centimetro della tua pelle,” sussurrò l’altro, livido.

“La prego, si sieda,” dissi girando intorno al tavolo e offrendogli una sedia. “Mr…?”

L’uomo mi guardò, inamovibile. “Sherlock Holmes.”

Oh, Dio del cielo.

“Va bene,” annuii, cercando di non tradire alcuno dei miei pensieri. “Mr. Holmes, le sarei grato se volesse sedersi, per favore.”

Si lasciò condurre alla sedia, tutta l’energia che era sembrata crepitare sotto la sua pelle quando era balzato nella mia direzione improvvisamente spenta. Io presi l’altra sedia, e posai il revolver sul tavolo perché, nonostante tutto, restasse di monito.

“Mr. Holmes…”

“No.”

“Prego?” replicai, confuso.

“No,” ripeté l’uomo, recisamente. “Non usare quel tono. Non… assecondarmi.”

“Signore, le assicuro che se il suo nome è davvero Sherlock Holmes, la cosa mi sta benissimo. Ma cerchi di capire la mia posizione. Lei piomba in casa mia sotto falso aspetto, e adesso dice di essere Sherlock Holmes. Ammetterà che non è una situazione usuale.”

“No,” concesse l’altro. “No, non c’è nulla di usuale in questa situazione. Non ho mai sbagliato un calcolo in maniera così grossolana in tutta la mia vita. Evidentemente lo shock… il lutto… Sì, non c’è altra spiegazione.” Levò su di me uno sguardo febbrile. “Ti prego di credere, se non vuoi credere nient’altro, che sono tremendamente dispiaciuto per tutto quello che è successo.”

Annuii. “Accetto le sue scuse, anche se non so di cosa stia parlando.”

“La mia morte.”

Forse a questo punto dovrei ricordare che non era la prima volta che mi capitavano episodi del genere. Dalla morte di Holmes avevo subito un vero e proprio assedio da parte di simpatizzanti e lettori dello Strand desolati per la sua scomparsa. Giovani ammiratori avevano attraversato Londra per giorni con un nastro nero al cappello in segno di lutto. E c’era stata la posta, naturalmente, e qualche lunatico aveva tentato di offrirsi per prendere il posto di Holmes. Ma questo, questo livello di follia non mi era mai accaduto.

“Lei non mi sembra morto,” dissi cautamente.

“No, naturalmente. Non davvero. Ma avevo bisogno che tutti, specialmente tu, lo credeste. Watson, non capisco. Tu conosci Sherlock Holmes, non è così?”

“Sì, certo,” risposi. “Tutta Londra lo conosce.”

“Ma non credi che io sia Sherlock Holmes.”

Sospirai. “Questo, signore, mi sembra francamente impossibile.”

“Perché?”

Aveva l’espressione sincera e smarrita di un bambino, completamente fuori posto su quel volto. Ora che lo guardavo meglio scorgevo la somiglianza, gli occhi certamente, ma anche il naso, la bocca sottile, i capelli. E la postura. Se solo la si cercava, la somiglianza era straordinaria.

“Non voglio sconvolgerla. Sono certo che lei è sincero nelle sue affermazioni, ma…”

“Mio caro Watson, non è così facile sconvolgermi,” rispose lui, con un sorriso debole. Questo, per qualche motivo, mi colpì.

“Va bene, allora,” risposi. “È molto semplice. Lei non può essere Sherlock Holmes perché Sherlock Holmes non esiste.”

Le sopracciglia dell’uomo - lo chiamerò Holmes d’ora in poi, per comodità - si sollevarono drammaticamente.

“Mio caro, caro Watson,” mormorò, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e tendendosi così nella mia direzione. “Che cosa ti è successo.”

“Nulla, glielo posso assicurare,” replicai, mio malgrado intenerito dalla sua preoccupazione per me, per quanto ridicola fosse. “Ascolti. Ho un collega… un amico, per la verità. È giovane ma brillante; può anche darsi che abbia sentito il suo nome. Trevelyan, Percy Trevelyan. È uno specialista di…”

“Il dottor Trevelyan non è e non è mai stato un tuo amico,” ribatté Holmes, con decisione. “L’abbiamo conosciuto insieme, quando ho accettato di venire a capo dell’incresciosa faccenda dell’assassinio di Mr. Blessington.”

“No, no. Lei sta confondendo…”

“Volevi dargli un titolo ridicolo, qualcosa come Il mistero di Brook Street, ma ti ho fatto cambiare idea.”

“Mr… Holmes. Non è così. Percy Trevelyan è il nipote di un vecchio amico. È vero che ne ho fatto un personaggio in quel racconto, per scherzo, ma le circostanze in cui ci siamo conosciuti non hanno nulla a che vedere con quelle. Non è mai esistito un Mr. Blessington, né c’è mai stata una banda di rapinatori di banche che si facessero chiamare Worthingdon, né - mi perdoni - né è mai esistito alcuno Sherlock Holmes. È letteratura. Niente di più.”

Subito temetti di essere stato eccessivamente brusco. Il pover’uomo aveva una mente disturbata, e doveva essere trattato con garbo e per nessun motivo agitato ulteriormente. Tuttavia, egli non mi parve scosso neanche la metà di quanto mi sarei aspettato. Rimase in silenzio per qualche momento, poi rialzò la testa e si batté una mano sul ginocchio.

“Posso provartelo.”

Scossi la testa. “Non credo che…”

“Questa pipa.” Allungò una mano sulla scrivania per recuperare l’oggetto da dove l’avevo appoggiato. “È inutilizzata da tre anni. Corretto?”

“Sì,” ammisi.

“Perché dovresti tenere una pipa sul tavolo e non utilizzarla mai? Guarda le linee della polvere. Il cannello è impolverato, ma non il fornello. La prendi spesso in mano, ma non lasci che la cameriera la spolveri insieme alle altre suppellettili della stanza, che invece sono immacolate. Cos’altro? C’è un calendario al muro, ma quella è la pagina del quattro aprile: il giorno di oggi è già strappato. Un errore? Non tu. Sei meticoloso nelle tue abitudini. Ogni sera strappi la pagina del calendario prima di chiudere lo studio e coricarti. Una volta hai strappato due fogli per sbaglio, e hai incollato il secondo al suo posto perché non tolleravi di avere sotto gli occhi la data sbagliata per un giorno intero. Allora perché? C’è una sola altra data che non sopporti, ed è il ventisette luglio. Maiwand. Che cosa può essere paragonabile a Maiwand? Ah, ma siamo in aprile. Ed è stato il sei maggio che io…”

“Mia moglie è morta,” lo interruppi, con forza. “Il sei maggio del 1891. È il giorno in cui è morta mia moglie.”

“Tua moglie?” ripeté, piano. “Tua moglie Mary?”

Annuii, passandomi una mano sugli occhi stanchi. “Tubercolosi. La pipa era un suo regalo.”

“Non è possibile,” mormorò. “Questa è mia. È stato un tuo regalo.”

“Le assicuro di no.” Presi un respiro, sbirciando l’ora nella pendola alle sue spalle. “Mi ascolti. Lei ha bisogno di aiuto. So che adesso è molto confuso, ma non deve necessariamente essere grave. Qualche anno di terapia con un bravo alienista potrebbe rimetterla a posto completamente, e allora questa giornata le sembrerà solo un lontano ricordo. Come le dicevo, questo mio collega è uno dei migliori nel suo campo. Sarei lieto di presentarglielo.”

“Mio fratello,” ribatté, come se non avesse udito una parola. “Mio fratello Mycroft.”

“Non esiste,” risposi. “Non esiste alcun Diogenes Club. Si può verificare facilmente.”

“L’appartamento di Baker Street. Il 221B di Baker Street. Mrs. Hudson!”

“Non c’è il 221B a Baker Street, né il 221A, né il 181 né il 142, se è per questo. L’ultimo numero civico è il 100.”

“Che mi dici della polizia? Lestrade, Gregson?”

“Esistono entrambi,” ammisi.

“Ah!”

“Ma non hanno alcun legame con le persone che lei crede di conoscere. Hanno altri nomi, per dirne una, e il loro temperamento, per quanto possa assomigliare… Diciamo solo che ho esagerato alcuni dei loro difetti. Per ragioni letterarie.”

“Sì,” borbottò. “Sì, conosco questa tua tendenza al drammatico.”

“Lei non capisce,” sospirai, esasperato. “Lei non mi conosce, lei crede di conoscermi. Io non sono la persona di cui ha letto. Certo, ci sono delle somiglianze evidenti, dei tratti autobiografici. Mia moglie si chiamava Mary, come Mary Morstan. Sono stato a Maiwand. Avevo un amico che riusciva a trarre deduzioni sorprendenti da dettagli infinitesimali. Ma il suo nome era Joseph Bell, non Sherlock Holmes, ed io non ho mai abitato a Baker Street, né ho mai collaborato a un’indagine di polizia. Mi creda, sono mortificato. Se avessi pensato che un giorno i miei racconti potessero avere questo effetto…”

Holmes si raddrizzò con uno scatto violento. “Che mi dici di Adair? Con Sebastian Moran - Moran, il braccio destro di Moriarty! - impegnato a giocare a carte con la vittima neanche un’ora prima della sua morte?”

“Moriarty non…”

“Ora mi dirai che neppure Moriarty esiste?”

“Mi dispiace, no. Quanto a Moran, è un rispettabile veterano dell’Esercito indiano, personalmente decorato da Sua Altezza il principe Albert, e al di sopra di ogni sospetto.”

Holmes lanciò il giornale sul tavolo in quello che mi parve un moto di pura disperazione. Cominciavo a provare una pena intensa per l’uomo e per la sua mente deviata. La portata della sua follia era incredibile, eppure egli appariva assolutamente convinto e sicuro di sé. Se non avessi saputo che il mondo in cui credeva era uno di pura fantasia, non l’avrei mai creduto pazzo, perché non mostrava alcun segno esteriore di tale malattia.

“Posso aiutarla,” riprovai, azzardando appoggiargli una mano sul ginocchio. “Mi creda, in un caso come il suo, la cosa migliore è agire subito. Forse ricorda di avere dei parenti a Londra? Degli amici? Qualcuno che potremmo contattare?”

Scosse la testa, accennando un sorriso straziante. “Solo un fratello che, mi informi, non è mai esistito. Mi dispiace, dottore. L’unico indirizzo che potresti contattare è quello di Bedlam.”

“Non dica così,” replicai. “Certamente non è grave neppure la metà di quanto sembra. Faccia uno sforzo. Che cosa ha fatto in questi ultimi giorni?”

“Non molto. Sono tornato dalla Francia ieri. Sono stato a Baker Street, dove ho procurato un attacco isterico a Mrs. Hudson. Suppongo che, se l’appartamento davvero non esiste come tu dici, neanche la cara… Ah! Ho ancora un telegramma di Mycroft in tasca!”

Ammetto che seguii con interesse il suo frenetico scavare tra le numerose tasche della sua giacca. Disperato di non trovare quello che stava cercando, Holmes si gettò sul pavimento e ficcò le mani nel cappotto del vecchio libraio, che aveva lasciato cadere quando aveva abbandonato il travestimento. Poi d’improvviso si fermò, le spalle curve. Mi accoccolai sui talloni al suo fianco.

“A casa,” mormorò, a denti stretti. “L’ho dimenticato a casa. Non ho mai… Proprio questa volta, che era così essenziale…”

“Mi lasci chiamare il mio amico,” dissi gentilmente, toccandogli il braccio. “Non si angusti e vedrà che le cose si sistemeranno.”

Holmes si drizzò in piedi con uno scatto. “Devo verificare alcune cose, Watson.”

“Non da solo, certamente!” esclamai.

Egli mi guardò con un’aria che non so definire, se non - per quanto strano possa suonare - intenerita. “Mi piacerebbe che tu mi accompagnassi, ma non questa volta. Le risposte che cerco, devo cercarle da solo. Non preoccuparti. Non farò nulla di strano. Se sono pazzo, credimi, non se ne accorgerà nessuno.”

“Holmes…”

“Avrai mie notizie.”

E con questo inforcò la porta in una falcata e se la richiuse alle spalle. Gli corsi dietro, ma con un fatale attimo di ritardo. “Holmes!” lo chiamai dalla cima delle scale, appena in tempo per vederlo attraversare l’ingresso e aprire la porta di casa. Quando mi precipitai in strada, era già scomparso.

+

Sarei stato incline a ritenere l’incontro niente più che un sogno bizzarro, se il cappotto del libraio e i suoi dodici volumi abbandonati sul pavimento non avessero testimoniato il contrario. Tuttavia, quando ormai era passato un intero giorno senza notizie dell’uomo che si credeva Sherlock Holmes e un altro si avviava al termine, ero più che certo di aver incontrato nient’altro che un povero pazzo, e che questi doveva essere stato ritrovato dalla famiglia, o fermato dalla polizia, e messo in condizione di non nuocere.

La sera del secondo giorno, Beth si affacciò nel mio studio e mi annunciò che un uomo di nome Bjørn Sigerson, un nordico di aspetto e d’accento, desiderava vedermi.

L’uomo entrò con passo determinato, senza una parola, ma quando la porta si fu richiusa dietro di lui le spalle gli si curvarono e un’espressione della più abietta infelicità gli attraversò il volto. Passando una mano tra i capelli scostò quella che apparve una parrucca bionda, rivelando una massa corvina e ben pettinata, e si sfilò gli occhialetti tondi dal naso.

“Holmes? Che bisogno aveva di quest’altra mascherata?” domandai, non trovando altro da dire oltre la sorpresa di rivederlo nel mio studio.

“Ha ragione lei, dottore,” disse lentamente.

Esitai. “Ha trovato le sue risposte?”

L’uomo annuì, domandomi con un cenno il permesso di sedere, che subito gli accordai. “Sembra che lei abbia ragione. La spiegazione più logica è che sono completamente pazzo.”

“Mi dispiace molto,” mormorai. “Ha scoperto qualcosa sulla sua famiglia? I suoi amici?”

“No. Il denaro che avevo con me l’ho speso principalmente per un viaggio di andata e uno di ritorno dal Sussex; quel che ne rimaneva, per un paio di carrozze e un annuncio sul giornale.”

“Sussex? Perché proprio in Sussex?”

“La mia famiglia…” Scosse la testa. “Quella che credevo essere la mia famiglia era originaria del Sussex. Avevamo una villa e un po’ di terra - non molta, per la verità. Mycroft ha venduto tutto dopo la morte dei nostri genitori.”

“Non ho mai scritto nulla del genere,” commentai, confuso.

“Non ha importanza. Non c’è nessuna villa, ad ogni modo. Nessun Mycroft Holmes. Nessuna Mrs. Hudson. Nessun - Dio mi aiuti - nessun 221B a Baker Street.” Si coprì il volto con le mani, restando immobile in questa posizione per quasi un minuto. Poi alzò il volto, deglutendo. “Ho messo un annuncio sul giornale. Uscirà domattina, per questo non l’ha ancora visto. Ho pensato… Ho pensato che avrebbe voluto sapere che non avevo ferito un passante in un accesso di follia o procurato la mia stessa morte gettandomi sotto una carrozza. Se lei somiglia all’uomo che conosco, ho pensato che le sarebbe importato.”

“Naturalmente,” risposi, con calore. “Naturalmente mi importa. Mi sento responsabile per quello che le è successo.”

“Non deve. È evidente che tutto questo è solo il frutto della mia mente malata. Se i suoi racconti mi hanno fornito uno spunto per coltivare qualsiasi disturbo sia quello di cui soffro, la colpa non è certamente sua. Bene.” Si alzò in piedi con un gesto risoluto, spolverando distrattamente il cappotto con una mano. “Tolgo il disturbo.”

“Aspetti, aspetti,” dissi, raggiungendolo. “Dove va?”

“Ho una notte pagata in una pensione qui vicino.”

“E poi?”

“E poi vedrò. Non sono del tutto privo di talenti. Se solo le raccontassi dei miei anni universitari… Ah, non ha importanza.” Mentre parlava, aveva rimesso in testa la parrucca bionda e inforcato gli occhialetti. “Buona…”

Non finì la frase, perché gli avevo afferrato un braccio prima che potesse dileguarsi di nuovo. Holmes scrutò la mia mano con interesse e leggera sorpresa, poi mi rivolse uno sguardo interrogativo.

“Credo ancora che dovrebbe farsi vedere da uno specialista.”

“Sì,” rispose, con un sorriso lieve. “Ma a parte il mio scarso rispetto per gli specialisti, come pagherei la parcella? Qualche anno di terapia, ha detto. L’unico lavoro che ricordi di aver mai svolto che mi procurasse introiti più consistenti di una manciata di penny per volta è l’unico che non posso riprendere.” Appoggiò la mano sulla mia in due rapide pacchette. “Ha visto da sé che non sono pericoloso. Aspetterò che mi passi.”

Si voltò, ma rifiutai di lasciarlo. “Se venisse domani…”

“Cosa?” replicò.

“Se venisse domani, domani pomeriggio. Percy è un amico, non dovrà pagare un penny. Ma la prego, si lasci visitare.”

“Se venissi domani,” ripeté, “il suo amico Trevelyan constaterebbe con maggiore autorevolezza quello che io e lei già sappiamo. E poi, dato lo stato delle mie finanze, non ci sarebbe che una soluzione. Dottore, lei è stato a Bedlam. Se davvero le importa, non mi farà questo.”

“Holmes,” mormorai, stringendolo più forte. “Lei ha bisogno di cure.”

“Perché? Credo di essere una persona che non esiste. Ebbene? Sono in possesso di tutte le mie facoltà. Sono in grado di lavorare. Non sono violento o pericoloso. Posso fingermi qualunque altra persona al mondo. Mi inventerò un nome e una storia e reciterò la parte. Perché, dottore, mi dica, perché dovrei essere curato?”

“Perché forse domani crederà di essere un altro, o forse crederà qualcosa di ancora più assurdo, e si metterà nei guai,” risposi, animatamente. “Potrebbe succedere qualsiasi cosa. Potrebbe credersi un uccello e buttarsi dal quinto piano di un palazzo. Non lo capisce? L’andamento di questi disturbi non è prevedibile!”

“La sua preoccupazione mi commuove,” disse Holmes, spostando gentilmente la mia mano, “ma cerchi di domandarsi cosa farebbe il suo amico Sherlock Holmes al posto mio, e scoprirà che, per quanto mi sforzi, non posso fare a meno di agire nello stesso modo.”

“Lei non è Sherlock Holmes, e non è costretto a imitarlo. Compatisco la persona che sarebbe Holmes se esistesse veramente. Ma non è lei. Lei può decidere da solo.”

“Buona notte, dottore.”

“Domani,” ripetei alla sua schiena. “Venga a trovarmi domani, verso le cinque. Le do la mia parola d’onore che non sarà costretto a fare nulla che non voglia.”

Holmes rimase fermo. “È molto gentile da parte sua.”

“Sono sinceramente preoccupato per lei.”

“Non si illuda,” mormorò. “Non farà differenza.”

“Nondimeno, mi rassicurerebbe molto se lei acconsentisse.”

Mi gettò uno sguardo di sbieco, da sopra la spalla. “Ci penserò.”

E in un attimo era sparito.

+

La terza volta comparve nei panni di un giovane lavorante col pizzetto e una valigia, la quale conteneva, mi disse, i suoi pochi indumenti e i suoi ferri del mestiere. Questi ultimi consistevano in un piccolo kit di attrezzi da scassinatore, che senza dubbio gli sarebbero valsi più di un sopracciglio alzato da parte di un poliziotto, e un set da trucco per i suoi travestimenti.

“Ma perché continua a travestirsi?” gli domandai, mentre lo osservavo rimuovere con cura il pizzetto e i filamenti della colla dal mento.

“Non voglio essere visto,” rispose semplicemente.

“Perché? Nessuno vuole farle del male.”

La cameriera entrò col vassoio del tè e un telegramma. Holmes era di nuovo se stesso, e si era anche cambiato d’abito. Se Beth si stupì di trovare in salotto un uomo diverso da quello che vi era entrato, fu abbastanza accorta da non mostrarlo.

“Ah,” dissi, dopo aver scorso il telegramma fino al fondo.

“Sono desolato che la nuova terapia non abbia procurato giovamento alla sua spalla,” commentò Holmes, ignorando il tè.

Alzai lo sguardo. “Prego? Cosa…?”

“Ad ogni modo, uno sarebbe incline a credere che uno specialista in malattie nervose non abbia grandi occasioni di stirarsi il quadricipite femorale,” aggiunse.

Lo guardai, per un momento senza parole. Mi attraversò il pensiero assurdo che egli c’entrasse in qualche maniera - che in qualche modo, per qualche motivo, avesse sabotato l’arrivo di Trevelyan.

“Niente del genere,” rispose Holmes, rabbuiandosi. “E mi offende che lei mi pensi meno di un gentiluomo, dottore.”

“Non… ho detto nulla. Mi scusi. Ma come fa a sapere…?”

Allungò una mano imperiosa nella mia direzione. “Permette? Grazie.” Rigirò il foglio tra le mani, senza degnare il contenuto di un’occhiata, e studiando invece il lato esterno. “Ufficio postale di South Molton Street. Il suo amico risiede ancora a Brook Street, presumo?” Fece un sorriso sbiadito.

“Ma la spalla…? E l’incidente di Percy?”

“Una deduzione delle più stupide. Ha aperto il telegramma, che abbiamo appurato dal timbro postale essere del suo collega, e ha fatto una smorfia all’apprendere la notizia in esso contenuta. Subito la sua mano è corsa alla coscia e ha stretto l’interno del quadricipite in un gesto inconscio di simpatia. Uno stiramento o una frattura? Ah, ma lei è un medico, e abituato alla precisione anatomica. Per una frattura mi sarei aspettato un gesto diverso, qualcosa del genere…” E si premette il pollice al centro della coscia, stringendone l’esterno con le altre dita. “Uno stiramento, dunque. E veniamo alla spalla. Il gesto è stato incauto, perché ha risvegliato il dolore della vecchia ferita di Maiwand, e le ha ricordato quello ben più consistente di cui soffre la sua spalla.”

“Ma non mi sono toccato la spalla,” ribattei, affascinato.

“No, ma ha fatto questo movimento, vede,” piegò leggermente il capo da un lato e poi lo raddrizzò, “che è stato altrettanto eloquente. Di certo non occorre un maestro dell’osservazione per constatare che la spalla le fa ancora molto male. Conseguenza di queste giornate umide, presumo. Una lettera aperta sulla scrivania del suo studio ieri mi ha detto che lei è in contatto col professor Aeschelmann, allievo del celebre Mark Busch, del quale Aeschelmann ha seguito le orme nello studio della terapia del calore per - tra le altre cose - alleviare i dolori cronici. Come le dicevo, sono desolato che la terapia non faccia effetto.”

Presi il telegramma che Holmes mi porgeva e lo ripiegai come un ubriaco, in preda allo stupore più profondo. “È… incredibile,” dissi alla fine, molto piano.

“Niente affatto,” rispose Holmes, sollevando un angolo della bocca. “Potrebbe riuscirci anche un bambino.”

“No. È stupefacente. Chiunque lei sia, è certamente un uomo dall’ingegno eccezionale.”

Holmes inclinò leggermente il capo in segno di ringraziamento, e per un istante mi parve quasi imbarazzato.

“Beva il suo tè,” lo invitai. “Ha pranzato, voglio sperare.”

“No. E la ringrazio, non ho fame. Non mangio mai quando…” Si interruppe. “Diciamo solo che in questi giorni ho poco appetito.”

“Deve mangiare, lo sa,” gli dissi, riempiendogli la tazzina. “Prenda. E non meno di due sandwich. Non accetto discussioni.”

“Watson…” iniziò, con una leggera nota esasperata.

“Lei non è lui,” gli ricordai, dolcemente. “Non deve essere testardo senza ragione o consumarsi di fame per il diletto dei suoi lettori. È magro da fare paura. Mangi, e le giuro che allo Strand non lo sapranno mai.”

Holmes accettò la tazzina e si tese con riluttanza a prendere un sandwich dal vassoio. “Devo dire che lei è estremamente simile a come la ricordo,” commentò con un guizzo ironico negli occhi.

“Temo sia vero il contrario,” replicai.

Dopo questo restammo in silenzio per qualche minuto, impegnati a mangiare. Holmes masticava lentamente, sprofondato nei propri pensieri, ma senza l’aria di gustare alcunché. Mi domandai se fosse la preoccupazione per la sua situazione corrente - che da sola sarebbe bastata a giustificare qualsiasi perdita d’appetito - o se davvero, coscientemente o meno, si fosse tanto immedesimato in Sherlock Holmes da assorbirne anche i vizi e difetti. Per un attimo provai la curiosità bruciante di sollevargli la manica e cercare le cicatrici dell’ago, ma la scacciai come morbosa.

“Ho pensato una cosa,” dissi invece.

Holmes mi guardò, incoraggiandomi a continuare.

“Poco fa ha nominato Aeschelmann e Busch e la terapia del calore. Mi è sembrato un dettaglio bizzarro. Sherlock Holmes non dovrebbe avere una conoscenza approfondita delle tecniche mediche.”

“Non è così misterioso,” ribatté lui. “La terapia del calore era già nota ai cinesi. Sono un praticante di arti marziali, ricorda?”

“Non ricordo di aver mai scritto nulla del genere,” ammisi, perplesso.

“Non ha importanza. Probabilmente non è vero. Qual è la sua teoria?”

“Mi domandavo se lei non potesse essere un medico, o altrimenti impegnato in un campo affine alla medicina.”

Holmes considerò il suggerimento per qualche istante, poi scosse la testa. “Non penso di essere un medico. La chimica, sì, ho qualche talento in quel campo. Ma la mia conoscenza dell’anatomia è come lei l’ha descritta. Accurata, ma non sistematica.”

“Cerchi di dimenticare Sherlock Holmes per un momento,” replicai.

“Lei può dimenticare di essere John Watson?”

“Può riuscirci,” insistetti, “se solo si concentra per un attimo sulle sue conoscenze e non sui suoi ricordi. Non importa chi lei creda di essere, le conoscenze che possiede non può averle acquisite leggendo i miei racconti sullo Strand.”

Holmes esitò, in bilico per un attimo - mi parve - tra il darmi ascolto e l’ignorarmi. Infine annuì. Posò il tovagliolo e la tazzina sul vassoio e congiunse le punte delle dita con fare pensoso. “Sono certo di avere un’ottima conoscenza della chimica. Conosco bene la tavola periodica e le proprietà degli elementi e ho familiarità con le reazioni. Dovrei tentare un esperimento per dimostrarlo, ma anche così ne sono abbastanza sicuro.”

“Bene,” annuii, incoraggiante. “È un inizio. Qualcos’altro? Magari qualcosa che Sherlock Holmes non ha.”

“Io…”

“Con calma, mio caro.”

I suoi occhi guizzarono nella mia direzione, solo per un istante, con un’espressione di bizzarro interesse; poi tornarono a fissare il vuoto. “So cavalcare,” mormorò. “Credo di averlo fatto molte volte. Ma non di recente. Da ragazzo, forse.”

“Ottimo,” mi complimentai. “Ricorda in quali occasioni?”

“Avevamo dei cavalli, in Sussex. Mio padre amava cacciare. Mycroft era incredibilmente negato, non faticherà a…” Incontrò il mio sguardo, vide in esso la delusione e sospirò. “Mi dispiace.”

“No, no. Non deve scusarsi,” risposi, toccandogli il braccio. “Ha solo bisogno di tempo. E di un’assistenza più valida dei miei inutili tentativi di colpire a caso.”

“Mi creda, dottore,” disse Holmes, “preferirei di gran lunga essere soggetto tutta la vita ai suoi tentativi di colpire a caso, come li chiama, che a un singolo giorno sotto il fuoco di fila di uno stimato specialista.”

Mi sembrò una strana affermazione, e una singolarmente affettuosa, da parte sua. I suoi occhi non mi lasciavano un istante e d’improvviso mi sentii vincere da un imbarazzo senza nome, come se avesse detto qualcosa di sconveniente - peggio, come se io avessi detto qualcosa di sconveniente senza accorgermene.

“Lasciamo stare per il momento,” decisi alla fine. Presi un sorso di tè, ma ormai era freddo. “Ho visto il suo annuncio.”

“Ah,” fece Holmes, in tono piatto.

“Avrei gradito che mi informasse prima.”

“È adirato,” constatò. “È comprensibile.”

“Non sono adirato,” risposi. “No, non lo sono davvero. Ma avrei preferito che chiedesse il mio permesso prima di mettere il mio nome e indirizzo sul giornale.”

L’annuncio recitava (l’ho conservato): “Trovato uomo in stato confusionale. Soffre di amnesia e disturbi dissociativi della personalità. Altezza 1,88 m. Fisico snello. In discreta forma fisica. Capelli neri e occhi grigi. Chi avesse notizie sulla sua identità può rivolgersi al dott. John Watson…” e seguiva il mio indirizzo di Kensington.

“Ha ragione,” rispose, quasi timidamente. “Avrei dovuto. È stato oltremodo maleducato da parte mia. Tuttavia non avevo valide alternative, né il tempo di domandarglielo. Sapevo che sarei rimasto alla pensione solo per un’altra notte, e non ho altri - voglio dire, non ho amici a Londra.” A questo punto dovette pensare che il modo in cui si era espresso avrebbe potuto dare adito a uno spiacevole fraintendimento, perché si affrettò ad aggiungere: “Se volesse acconsentire a farmi questo enorme favore, dottore, le assicuro che non le arrecherei altro disturbo che visitarla brevemente una volta alla settimana per sapere se ci sono novità.”

Senza rispondere, gli rivolsi invece un’altra domanda. “Dove pensa di dormire stanotte?”

“Non ho ancora deciso. Ho qualcosa da vendere - abbastanza per rimediare una camera per la notte, se non ho del tutto dimenticato come si contratta.”

“E le prossime notti?”

Sorrise debolmente. “Stamani mi tentava un angolo piuttosto accogliente di Kensington Gardens, ma temo che dopo il tramonto avrà perso gran parte della sua attrattiva.”

Non so bene quale fu la mia espressione: una di pietà, forse, o un moto di rifiuto all’idea che un uomo - quest’uomo, che aveva i modi garbati di un gentiluomo e l’intelligenza di un genio - potesse essere costretto a dormire in un parco. Quale che fosse, Holmes dovette malinterpretarla, perché commentò: “Un gran numero dei nostri concittadini lo fa quotidianamente, dottore. Non c’è ragione di indignarsi”.

“Non era indignazione,” ribattei. “Era preoccupazione. Kensington Gardens non è un posto sicuro. Deve essere matto per…” Mi morsi la lingua, cercando conforto nell’intonaco del soffitto. Holmes ridacchiò silenziosamente.

“Sì,” mormorò. “Sì, deve essere proprio così.”

“Quello che voglio dire…”

“Lo so, e la ringrazio. La sua preoccupazione significa per me più di quanto le sappia dire. Ma ho abusato in maniera abominevole della sua pazienza, e adesso è proprio l’ora che vada.”

Irrigidii la mascella. Quanto seguì fu un’ispirazione del momento, improvvisa quanto non meditata, ma una della quale non mi pentii mai. “Lei non andrà da nessuna parte.”

Holmes fermò a metà il gesto di alzarsi e tornò a sedere lentamente, in punta di sedia, proteso nella mia direzione.

“Se le accadesse qualcosa, non potrei mai perdonarmelo. Non ho intenzione di leggere la notizia del suo accoltellamento come non ho intenzione di leggere la notizia del suo suicidio.” A quel punto mi resi conto di essere stato troppo duro e tornai sui miei passi, prendendo un tono più conciliante. “Ho una stanza libera. So che è troppo orgoglioso per accettare che gliela offra in amicizia, perché la scambierebbe con la carità, e dunque gliela offro in affitto. Non ho dubbi che, con la sua intelligenza, troverà molto presto di che vivere. Quando avrà i soldi, mi pagherà.”

Holmes mi parve genuinamente senza parole, e la contai come una piccola vittoria. Quando rispose, lo fece con deliberata lentezza. “Mi dispiace che nessuno l’abbia mai avvertita, dottore.”

“Avvertita?” ripetei.

“Oh, sì. Vede, lei è completamente matto, dottor Watson.”

“Al contrario,” replicai, ridendo, “sono uno degli uomini più noiosamente sani di mente di tutta l’Inghilterra. Mia moglie soleva rimproverarmelo, di tanto in tanto.”

Guardai l’orologio: si erano fatte le sei. “Forse vorrà rinfrescarsi prima di cena? Parleremo più tardi. Ci sono alcune cose…”

“Purtroppo non posso cenare con lei,” obiettò Holmes. “Ho alcune faccende in sospeso che richiedono la mia attenzione immediata.”

“Che genere di faccende?”

“La prego di non chiedermelo. Non saprei come spiegarglielo in una maniera che non la convincesse ancora di più che merito di essere internato. Ma le giuro che non ci sono rischi e che alla fine saprà tutto.”

“Alla fine…?”

“Presto,” mi assicurò. “Molto presto.”

Annuii, ma senza entusiasmo. “Ho la sua parola di gentiluomo che sarà qui stasera, non appena terminato quello che deve fare?”

“Ce l’ha.”

“Dirò ai domestici di lasciarla entrare.”

“La ringrazio,” disse Holmes, esalando un sospiro di sollievo. “Quella stanza che diceva, è la terza al primo piano venendo dalle scale, non è così?”

“Sì, ma come…?”

“Non importa. Le dispiace se la occupo sin da subito? Ho bisogno di cambiarmi e il salotto non mi sembra il luogo più consono.”

“Ma certo. Faccia pure.” Non avevo ancora finito la frase che Holmes aveva già afferrato la sua valigia e cominciato a salire gli scalini a due a due. Dieci minuti dopo, un uomo di mezza età in panciotto e pince-nez, coi capelli striati di grigio, ridiscese le scale e comparve sulla soglia del salotto.

“Tornerò appena possibile, Watson,” disse nel tono familiare di Sherlock Holmes, e sparì.

+

Stavo leggendo un libro in poltrona nella mia camera e ormai meditavo di coricarmi, quando un bussare leggero mi riscosse - ed ecco lì Sherlock Holmes, stranamente nei panni di se stesso, con l’aria sovreccitata di un bambino dopo una giornata intera di giochi.

“Non ho sentito il campanello,” osservai.

“Non ho suonato.”

“Com’è entrato, allora?”

Holmes fece un sorriso grazioso. “Ci sono altri modi.”

Sospirai. “Temo di essere giunto alla conclusione che in realtà lei è un criminale, mio caro. Tra i travestimenti e questo, sinceramente…”

Holmes si richiuse la porta alle spalle e avanzò nella stanza. La luce giallina della lampada gli danzava sul volto scavando ombre strane e inquietanti, ma si dissiparono quando si piegò sui talloni per portare il volto alla mia stessa altezza.

“L’ho pensato. Ma non credo di poterlo tollerare. Il crimine è caos, è confusione. Io bramo l’ordine. Inoltre non ho alcuna ambizione. Mi può credere se le dico che denaro e potere non hanno significato per me.” Esitò. “Ma potrei essere un ottimo criminale, se volessi. Il migliore. Se potessi scegliere, tirerei tutti i fili dall’ombra e nessuno saprebbe mai chi sono, mai, finché non fossi io a deciderlo.”

“Moriarty?” sussurrai, resistendo all’impulso di sfiorare con un dito la piccola pozza di oscurità dove la sua guancia si incavava, sotto lo zigomo.

“Temo che lei ci abbia fatto tremendamente simili.”

“No,” risposi, con decisione. “Holmes è un uomo profondamente morale. Moriarty può aspirare ad essergli pari d’intelletto, ma nella sostanza non è altro che un reprobo, un criminale. Tutte le ambizioni che lei non ha, i desideri meschini che lei non prova, Moriarty li possiede in sommo grado.” Mi accorsi troppo tardi di aver smesso di parlare di Holmes in terza persona e averlo associato all’uomo che avevo di fronte, ma il mio discorso parve comunque acquietarlo.

Holmes appoggiò una mano sul mio ginocchio, protendendosi leggermente verso di me.

“Come può un uomo senza sentimento essere profondamente morale?”

“Lei non è Holmes.”

“Non parlo di me.”

“Holmes…” Cercai le parole più adatte, scoprendo che mi difettavano. “Holmes è una persona difficile. Anche Watson - il narratore, voglio dire - a volte dice assurdità sul suo conto.” Sorrisi appena. “Non dovrebbe credere a tutto quello che legge sullo Strand.”

Holmes sbuffò leggermente, ironico. Contemplò la propria mano sul mio ginocchio ma non la spostò, né io gli domandai di farlo. Per qualche momento restammo nella pace più completa e assurda, io in poltrona con un pazzo che aveva totalmente invaso il mio spazio personale senza che me ne derivasse alcun senso di minaccia, il più piccolo sentore di intrusione. Dovetti confessare a me stesso che non avevo ragionato bene sulle conseguenze, quando gli avevo offerto di vivere in casa mia, e tuttavia non riuscii a rimproverarmi per averlo fatto.

Ero un vedovo senza intenzione di risposarmi. La mia vita era solitaria, e così la mia casa. L’una e l’altra potevano ben essere mie per disporne a mio piacimento.

“Scriverà ancora?” domandò Holmes. Sentii un leggero calore avvolgere la vecchia ferita di Maiwand e ristorarla, e mi accorsi con sgomento che la mano aveva scalato il ginocchio e ora riposava, ferma e ardente, sul mio quadricipite lesionato.

“No,” risposi, piano.

“Perché l’ha ucciso?”

“Perché…” Scossi la testa. “Perché ero stanco di lui.”

“Vada avanti.”

“Della sua complessità. Esigeva troppe energie. Era troppo. Era un venti percento più di quanto sarebbe dovuto essere. E a un certo punto… Oh, questo le sembrerà folle.”

“No,” bisbigliò. “Non credo.”

Il calore si irraggiava dalla sua mano in ogni direzione. Un occhio solo, il sinistro, riceveva la luce obliqua della lampada e risplendeva di un bagliore giallastro; l’altro era in ombra e appariva nero alla pupilla, sempre nero, ma meno, all’iride. L’effetto era mefistofelico.

“A un certo punto è diventato un’ossessione. Sono cominciati gli incubi. Una volta…”, mi leccai le labbra secche, “mi sono svegliato in piena notte, al buio, mia moglie dormiva, e ho avuto l’impressione che egli fosse lì. Che mi guardasse. Avevo smesso di chiamarlo per nome. Usavo solo perifrasi assurde come ‘tu-sai-chi’ e ‘lui’. Ho dovuto ucciderlo. Dopo, mi sono sentito molto meglio.”

Holmes mi guardava come rapito. Adesso il calore mi stringeva il basso ventre, benché la mano non si fosse mossa, e minacciava di risalire e assalirmi il petto.

“Mi dispiace che lui le abbia causato tanti problemi,” disse con voce bassissima, poco più di un mormorio, ma estremamente chiara.

“Era tutto nella mia mente. È passato, ora.”

“La mia presenza deve essere un’esperienza orribile, per lei.”

Contemplai gli occhi leggermente sgranati, l’ansia febbrile negli scatti nervosi delle pupille, e per un momento temetti che avesse fatto uso di qualche sostanza allucinogena. Istintivamente, tesi una mano e gli afferrai l’avambraccio sinistro, puntando il pollice nell’incavo del gomito, ma Holmes non ebbe reazioni.

“Lei non è lui,” ripetei, per l’ennesima volta. “Lei è vivo. Lei è reale. Non mi spaventa averla qui, non più di ospitare un caro amico. Smetta di misurare il suo valore su quello di un uomo che non esiste.”

Per un momento pensai che Holmes fosse sul punto di fare qualcosa, e attesi il gesto dimenticandomi di respirare. Ma Holmes non si mosse né parlò. Un’eternità più tardi, presi una boccata d’aria nei polmoni e questo mi restituì lucidità. Chiusi gli occhi e li riaprii, lasciando scivolare lentamente la mano dal suo braccio.

“Vada a letto. È quasi mezzanotte.”

“Lei lo detesta.”

“Questo non ha nulla a che vedere con lei.”

“Nondimeno, è vero.”

Annuii.

“Perché?”

“Perché…”, mi passai una mano sugli occhi, “è una persona orribile. Se esistesse davvero non potrei resistere dieci minuti senza colpirlo. Le ho detto che è un uomo profondamente morale. È vero. Ma non è una persona buona, e lo detesto per questo. Perché è un uomo che gioisce per la soluzione di un piccolo enigma più che per la salvezza di dieci uomini. Perché è crudele alla maniera dei bambini, senza avvedersene, ed egoista oltre ogni dire. Perché sarebbe in grado di nascondersi per tre anni in un posto ridicolo come Montpellier, o… o il Tibet, e lasciar credere a tutti i suoi cari che è morto, se solo questo potesse servire a manipolarli meglio.”

Holmes si ritrasse, la mascella serrata. Inseguii la sua mano, ma afferrai il vuoto.

“Lei ha ragione, dottore,” disse ergendosi in tutta la sua altezza.

“Holmes…”

“È davvero molto tardi.”

Provai il bisogno assurdo di scusarmi, ma lo sguardo di Holmes mi convinse a desistere. Non avevo mai visto occhi del genere. Fu la prima volta, credo, che mi sfiorò il pensiero che il mio eccentrico ospite non sarebbe mai guarito dalla sua follia d’essere Sherlock Holmes, e che nessuno di noi avrebbe potuto cambiare le cose. Perché i suoi occhi erano quelli di un uomo ferito, e avrei voluto poter dire che non fosse colpa mia, ma in coscienza lo era. Lo era sempre stata.

“Vorrei parlarle ancora,” gli dissi. “Domani, a colazione.”

Holmes annuì, comprendendo quello che davvero intendevo dire, il bisogno di incatenarlo in un appuntamento continuo per essere certo che non svanisse come un fantasma.

“Non andrò da nessuna parte.”

fic, pairing: holmes/watson, language: italian, izu, challenge: bigbangitalia, fic: sherlock holmes

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