Jul 22, 2005 23:31
Lo poteva capire da solo, dai suoi gesti. L’avrebbe potuto intuire anche dalla noia con cui la penna si trascinava sul foglio, una fatica irreale per la sua mano, quasi che stesse trascinando un aratro nella sabbia.
Molto più probabilmente stava trascinando se stesso, in un campo di sabbia.
Era da giorni che non prendeva più le sue pastiglie. Aveva speso gli ultimi spiccioli per comprarsi un libro di un tizio di Belfast. Si sentiva triste o nervoso per colpa di quel libro, si ripeteva. In realtà di quei tempi solo un pazzo avrebbe buttato i suoi soldi per comprarsi un libro. E lui aveva una voglia pazza di leggere una storia. Per scacciare i demoni. E ora si convinceva che fosse quel racconto d’amore e di quartieri in rovina divisi fra IRA e Ulster Royal Constabulary a richiamarli, i demoni.
Lui non aveva bisogno di leggere storie o racconti. Aveva se stesso, per raccontarsi in continuazione. Un’opera di fusione costante, come l’altoforno che aveva visto da bambino in gita con la scuola: una colata di metallo che proveniva da occhi e orecchie per essere forgiata in una nuova interpretazione della realtà. Un esercizio involontario così costante che ormai da anni aveva smesso di credere a ciò che vedeva e toccava. Rideva di ogni tramonto, si stupiva di ogni sera d’estate, disarmato di fronte alle sue emozioni.
Molte volte aveva sognato di poter essere duplice. Di avere un gemello che ascoltasse, nella sua mente, ogni suo pensiero e con la stessa velocità lo trascrivesse. Odiava perdere le sue storie.
La colata di metallo che si spandeva senza senso e solidificava amorfa e dimenticata.
A volte le trascriveva per ricordarle al se stesso che si sarebbe risvegliato l’indomani, nel suo letto.
Ma sia il braccio che la mano gli dolevano. In quel braccio, in quella mano aveva riposto tutte le sue amarezze. Manciate di microtraumi trasformatisi ora in sofferenza tangibile.
Sofferenza che pativa anche in questo momento, mentre tagliando la sabbia dei suoi pensieri si stava recando all’appuntamento. L’avrebbe incontrata anche questa notte, dietro lo scheletro della fabbrica dove suo nonno si guadagnava da vivere quasi un secolo fa. Sarebbero rimasti a parlare seduti su qualche macchinario abbandonato, mentre lei fumava incessantemente, indifferente alla luna.
Era in ritardo, probabilmente lei era gia arrivata, Si, gli sembrava di vedere la brace di una sigaretta accesa. Si avvicina calpestando vetri rotti, lei lo aspetta appoggiata ad una trave arrugginita. I soliti saluti. Solo, stanotte è diverso. La luna stanotte è troppo chiara, la sua luce riscrive la realtà in una forma che non vorrebbe. Sta battendo quel metallo in una forma che lei non capirebbe. Si sente in colpa per ciò che sta per fare o scrivere. In colpa verso di lei. In colpa per ogni singolo alito di mondo. Ma continua.
Anche lei ha capito che c’è qualcosa che non và. Lo guarda silenziosa, attraverso il fumo. Vede la sua mano, ferita.
“Devi smetterla. Ti prego smettila, non puoi continuare così”.
“Lo so. Hai ragione. Fammi smettere tu, per sempre.”
“No, non chiedermelo. Non chiedermelo più.”
“E l’unico modo” e già si stava inginocchiando di fronte a lei.
“Rialzati”, la sua voce è rotta, obbligata in un modo che non avrebbe mai voluto sperimentare.
“Lo sai che non lo farò”.
Lei getta la sigaretta, si guarda attorno accarezzandosi nervosamente i capelli, esegue solamente ciò che le è stato chiesto. Nessuno rimarrà per ringraziarla. Dalla borsetta estrae una pistola, gliela punta in faccia.
“Non ti ho mai chiesto come ti chiami.”
“A questo punto non importa, ne è mai importato prima”.
Chiude gli occhi. Preme il grilletto. Chiude i suoi occhi. Rimane un attimo a guardare quel sangue che si spande senza senso e si mischia alla terra e all’asfalto, amorfo e dimenticato.
racconto