Titolo: In my shoes, just to see what it's like to be me.
Autore:
ary_trueBeta e/o prelettori: Nessuno, mi scuso quindi preventivamente per gli eventuali errori :)
Fandom: Harry Potter
Personaggi/Pairing: Sirius Black, e indirettamente Harry Potter e James Potter ♥ (E per chi volesse vederlo, insomma, c'è un notevole subtext James/Sirius che insomma, non ho potuto risparmiarmi neanche volendo.)
Rating: PG
Word Count: 1290 ♥ (
fiumidiparole ♥)
Warnings: angst, angst, angst. Ho detto angst? È la cosa più angst che io abbia mai scritto, e credo che questo la dica lunga. :/
Disclaimer: Tutte bugie.
Note: ... Quando arriva il momento di scrivere le note, improvvisamente dimentico tutte le cose belle che avrei da dire sul perché mi sia messa a (tentare di) scrivere quella determinata cosa. Comunque.
Ieri ho finito con la maturità, e ho passato una settimana a dir poco elettrica prima dell'orale. A questo si aggiunge il fatto che il tredici luglio è sempre più vicino, e per noi potteriani questa data ha un significato particolare, perché rappresenta in maniera definitiva quell'addio che nessuno si è sentito di dare il 21 luglio 2007. Ora, io con questi libri ci sono cresciuta. Nel senso più ampio che si vuol dare a quest'affermazione. Dalle elementari fino alle superiori, questi libri sono stati una sorta di appendice della mia persona: non perché siano un capolavoro della letteratura, non perché abbia condiviso ogni singola scelta dell'autrice e sia stato tutto un'idillio, anzi, ma perché mi hanno regalato un mondo, un modo tutto particolare di vedere la vita e le cose. Sono stati importantissimi per me, e ogni volta che osservo le mie copie della saga, un po' ingiallite e visibilmente vissute, mi prende un magone che non so descrivere. E l'idea di dirgli addio un po' mi uccide, ecco.
Fondamentalmente, quindi, quello che sta sotto il cut è un mio personale grumo di tristezza che ho deciso di buttar fuori dopo questa settimana particolare, ed è dedicato al personaggio che più mi ha fatto innamorare: non c'è una misura in cui io possa descrivere cosa rappresenti per me Sirius Black, ecco. Quindi, sì, insomma, ecco. Questo è quanto. Grazie.
A volte gli sembra di impazzire solo a guardarlo.
Il modo in cui cammina, con il profilo nodoso delle ginocchia che si intravede dai pantaloni un po' larghi e le spalle dritte che ondeggiano leggermente, e poi le dita lunghe, magre, mentre gioca distrattamente con un Boccino spuntato fuori da chissà dove, la curva leggera delle sue labbra mentre sorride a una qualche battuta dei suoi amici, e poi la sua voce, cazzo, la sua voce quando gli racconta qualcosa, come se in quel momento fosse il centro del suo universo.
Altre invece gli sembra di morire se solo smette di farlo.
È come se il buio fosse finalmente riuscito a raggiungerlo, a tirarlo verso il basso, e lui fosse l'estrema possibilità di salvezza.
La realtà però, a voler essere veramente onesti, è che gli somiglia così tanto che a volte il suo cervello fa fatica a distinguere il prima e il dopo.
È assurdo, ma finché è stato ad Azkaban, accompagnato solo dalla sua solitudine e dalla sua rabbia e dal suo rimpianto, tutto aveva dei confini precisi e si sentiva completamente padrone di sé: da una parte c'era Peter, la vendetta, la resa dei conti, la soddisfazione buia di sentire il suo sangue caldo imbrattargli finalmente le mani; dall'altra c'era Harry, Harry che cresceva e chissà com'era, chissà se sapeva chi era Sirius Black, chissà cosa pensava di lui, chissà se qualcuno gli voleva bene abbastanza per James, Lily e lui.
Ora che è finalmente riuscito a raggiungerlo, ad averlo, a spiegarsi, ora che lo può finalmente guardare, le cose non hanno più la stessa solidità, la stessa geometria precisa, e Sirius ci mette sempre un po' a recepire che nella sua testa le immagini si sovrappongono, che quella che vede con gli occhi non è la stessa persona che vede con la memoria (col cuore?), che James non è tornato e non tornerà mai, perché non può tornare, e che quello è Harry, solo e semplicemente Harry, e che quello è anche più di quanto effettivamente si meriti.
E il problema, forse, è che mentre se ne stava chiuso nella sua cella (nella sua testa) a pensare a Peter, a Harry, alla vita che continuava là fuori senza che lui potesse farci niente, non ha mai trovato il tempo di fermarsi a pensare a James.
Non lì, non nel buio di notti che in realtà erano mattine che in realtà erano notti, perché ad Azkaban il tempo non si misura, non quando non poteva concedersi un solo punto debole se voleva riuscire a raggiungere quei due obbiettivi che si era posto.
È fuggito meticolosamente dalla sua immagine, dal suo ricordo, come se si fosse trattato di un sogno più che di un avvenimento reale, come se fosse stato uno di quegli impicci fastidiosi di cui la gente vuol sempre occuparsi più poi che prima, perché se solo si fosse fermato a sentire effettivamente quello che era successo, a sentire l'assenza, fredda e solida al centro del petto, avrebbe perso la testa prima ancora di entrare in prigione, e la vita se la sarebbe tolta da solo, perché convivere con quel vuoto (vivere senza James) sarebbe stato oltre le sue possibilità, e non avrebbe avuto niente di umano.
Non c'è mai stato davvero spazio per James, per dodici lunghi anni. E anche questa, in fondo, è una forma di pazzia, perché da che si sono conosciuti, non c'è mai stato spazio per nessuno che non fosse James. E Harry è lui in una maniera che non ha misura, neanche nel sangue che gli scorre dentro, perché il sangue non ha niente a che fare col brillio determinato dei suoi occhi quando discute della guerra, né con la goffaggine piena d'affetto con cui lo stringe ogni volta che si devono salutare per un lungo periodo, quelle cose dipendono dall'anima, dal cuore, da tutto ciò che c'è di spirituale e Sirius questo lo sa meglio di tutti, perché ha imparato da solo a riconoscere ogni più piccolo dettaglio di James, e quei particolari sono sempre stati unicamente suoi; e se anche James non c'è, anche se non c'è stato spazio per lui per tutti quegli anni, è come se avesse trovato comunque il modo di esserci, di farsi sentire, e Sirius si sente soffocare ogni giorno di più, chiuso in quella casa opprimente e piena di ricordi che vorrebbe non possedere, da cui era scappato con il cuore pieno di speranze e di sogni e la piena convinzione di non tornare, perché è come averne troppo e non averne abbastanza, e questa cosa lo sta uccidendo molto più lentamente e dolorosamente di qualsiasi tortura di guerra gli possa venire in mente.
James è morto, Harry è lì e lui è libero.
Libero di una libertà di cartone, libero di guardare al futuro perché il suo tempo ancora non si è fermato, ma la realtà è che non c'è un cazzo di futuro cui guardare, non c'è una vita da ricostruire, perché è costretto a nascondersi come un vigliacco tra quelle pareti che ha odiato per così tanto, perché ha compiuto trent'anni eppure non se li sente addosso, perché è rimasto fermo a quel lampo di luce verde che non ha visto ma che popola costantemente i suoi sogni, e cazzo, cazzo, quell'Halloween maledetto, a Godric's Hollow, è morto anche lui.
E tutto questo, la vita fuori da quella cella buia e putrida, il quotidiano, è solo una farsa e una tortura, un modo per fare ammenda, e non può neanche davvero riparare a quello che ha fatto, non può pienamente scusarsi con James e Lily e Remus e Harry per quello che ha fatto, per essere stato così incauto, così superficiale, perché non c'è un flusso di continuità tra quello che c'era prima e quello che c'è ora e anche a provarci, anche a cercarsi, non si ritrova più da nessuna parte, neanche nel riflesso dello specchio.
E quindi lo guarda, guarda Harry e lo stringe come fosse figlio suo (perché è davvero come se lo fosse, suo. Perché è-- era di James, e non c'è niente che non abbiano condiviso, niente che gli sia rimasto da amare quanto ama lui), e però la sente comunque, l'assenza; la sente come se bruciasse a ogni respiro, proprio tra costole e polmoni, e non basta stringere un po' più forte il corpo tra le sue braccia, perché ormai la comprensione, l'accettazione, gli sono scivolate addosso e non c'è modo di scollarle via, e James è morto e non c'è niente che possa cambiare le cose, niente che glielo possa restituire, niente che possa cancellare quell'incubo e che gli possa dare indietro i suoi anni e la sua anima.
James è morto, e c'è ancora la guerra tutta intorno a loro, e Sirius a volte vorrebbe solo correre via, così velocemente da sembrar quasi una creatura in volo, e smettere di pensare per un momento; più di tutto, però, vorrebbe scappare, evadere un'altra volta.
Scappare da lì, scappare per combattere, scappare perché l'idea di morire così, portandosi dietro anche solo una piccola parte di quel sistema che gli ha portato via tutto, è molto più onorevole di quelle fantasie di morte che ormai lo accarezzano sempre più spesso, ricche di promesse che non vuole davvero ascoltare e che sono troppo rosee per poter essere realmente prese in considerazione (perché la realtà è dura e fa male e la morte è realtà, la realtà più viva di tutte) (e non sa se questa sua percezione dipenda da una buona dose di coraggio o da una vistosa, avvilente mancanza dello stesso).
Ed è per questo, forse, che non appena sente dell'attacco all'Ufficio Misteri, la sua mano vola sotto i vestiti, a stringere con forza la bacchetta, un attimo prima di Smaterializzarsi.