[Fullmetal Alchemist] [...] I want you to know it's a little messed up, That I'm stuck here waiting

Jul 11, 2010 16:20

Fandom: Fullmetal Alchemist
Titolo: And I'll tell you, I want you to know it's a little messed up, That I'm stuck here waiting
Rating: R
Conto Parole: 2131 (fiumidiparole )
Personaggi: Edward Elric, Alfons Heiderich
Avvertimenti: Smut appena accennato. Scritta sfruttando con violenza i temi delle 24hour_themes . La fic fa parte una raccoltina, ma tanto sono tuuutte separate, quindi... u_u E il prompt è 05:00 ♦ 5AM Encouraging growth of the psychic self.
Riassunto: “Quando avevo undici anni ho tentato di far tornare in vita mia madre. La mia gamba è sparita, mio fratello pure. Il mio braccio è stato il prezzo minimo da pagare per riaverlo indietro. Lui non c’era e la sua voce era un’eco metallico dentro una delle armature che papà collezionava. Le cicatrici? Non sono un problema. Mi ricordano chi sono stato, cosa ho fatto. Mi ricordano quanto sia stato stupido ad essere avido di calore umano, a non essermi accontentato dell’amore che mi dava mio fratello.”




05:00 ♦ 5AM Encouraging growth of the psychic self.
And I'll tell you, I want you to know it's a little messed up, That I'm stuck here waiting

Si sveglia di soprassalto, quando si accorge che qualcosa di caldo preme contro il suo petto impedendogli di respirare secondo natura. Sobbalza appena sul letto, decisamente confuso e desideroso soltanto di tornare a dormire. Il cielo di Monaco oltre alla finestra è di un blu cobalto sbiadito, l’arancio che lentamente comincia a mangiare il buio all’orizzonte.
Alfons muove pigramente una mano, quasi sperando di trovare il materasso anziché un corpo nudo e tremante, appena sudato per chissà quale incubo. Non che non gli piaccia sentirselo addosso, questo mai.
Ma non è un buon segno, quando Edward si infila nel suo letto senza dire nemmeno una parola.
Che ore saranno? Le cinque, le cinque e mezza? L’alba sta avanzando oltre i palazzi di fronte alla loro casa.
“Edward…?” sospira, la voce impastata dal sonno. Quello mugola sulla sua spalla e non risponde in altro modo, spinge la fronte contro la sua spalla e si lascia scappare solo un singhiozzo, debole, nascosto tra i suoi capelli e la pelle pallida del tedesco. “Ed…” dice con voce più chiara, e allora si impone di svegliarsi almeno quel poco che basta a capire che cosa stia succedendo mentre lui ha un piede nel mondo reale e l’altro che spinge per tornare in quello onirico dove tutto è perfetto e lui non sta morendo di tisi. Molleggia sul fianco, il materasso che cigola e la sua mano che si poggia sul fianco scoperto di Edward, scorre su e giù lentamente per chiedere una risposta almeno al suo corpo. Ha i capelli sciolti, le frange lunghe appiccicate sul viso, e lui non riesce a vedere il suo viso - forse l’unica parte di lui che potrebbe comunicargli qualcosa.
“Ed, cosa-“ e la domanda muore soffocata nelle labbra dell’altro, nella sua ricerca di contatto fisico e umido e profondo che lui non ha intenzione di dargli finché quell’ammasso di capelli biondi non gli dice cosa gli passa per la testa. Lo sente tentare di entrare con la lingua, sente i denti che si aggrappano stanchi al suo labbro e lo tirano a di lui, implorandolo con gemiti soffocati di aprire la bocca e fargli sentire il suo sapore. “Ed, no!” ribatte secco, e la mano debole per la stanchezza si poggia sulla spalla e lo spinge via, allontanandolo dal suo viso e dal pericolo di cedere alle sue moine. Sospira, guardandolo finalmente in viso. Ha gli occhi chiusi, la bocca semiaperta. Che sia soltanto in uno dei suoi rari momenti di sonnambulismo?
Non sa se tentare di svegliarlo.
Allunga la mano sul suo viso, portandogli i capelli dietro le orecchie. Si sorprende quando, lentamente, l’altro apre gli occhi e cerca l’appoggio sulle sue spalle, piegando le gambe per salirgli sopra.
Cigola, cigola, cigola.
Non si abituerà mai a sentire il freddo della protesi contro la pelle del braccio, della gamba finta contro il fianco. Edward respira piano e ha gli occhi lucidi, con le dita riesce a ricostruire il percorso delle lacrime che sono scivolate sulle sue guance; sono ancora umide, dannatamente calde. Lo sguardo scivola sul suo collo, sul petto scolpito e pieno di cicatrici - “Quando avevo undici anni ho tentato di far tornare in vita mia madre. La mia gamba è sparita, mio fratello pure. Il mio braccio è stato il prezzo minimo da pagare per riaverlo indietro. Lui non c’era e la sua voce era un’eco metallico dentro una delle armature che papà collezionava. Le cicatrici? Non sono un problema. Mi ricordano chi sono stato, cosa ho fatto. Mi ricordano quanto sia stato stupido ad essere avido di calore umano, a non essermi accontentato dell’amore che mi dava mio fratello.”
All’inizio gli facevano paura. Non per ribrezzo, ma perché non riusciva a non tentare di immaginare come davvero se le fosse procurate. Non ci credeva, alle sue storie. Non ci crede ancora adesso.
Non vuole crederci perché se fossero vere, quello dove lui dice di vivere sarebbe un posto troppo lontano da raggiungere per riprenderlo e tenerlo con sé.
“Edward, che succede?”
Lui scuote la testa, non risponde ancora. Il ventre si contrae appena, la schiena si piega lasciandolo scivolare sul collo di Alfons a baciarlo, a mordicchiarlo come un gattino fa con le dita sporche di latte di un bambino. Oltre la sua testa, il tedesco riesce a vedere il bacino di Ed sollevarsi, il sedere perfetto che si muove piano sul suo bassoventre, e scivola, scivola, e i brividi risalgono così in fretta dal bacino alla sua testa che per un momento è indeciso se lasciar perdere tutti quei tentativi di farlo parlare e lasciarsi andare a qualcosa di meno complicato da comprendere.
“E-Ed…” sospira, portando la testa all’indietro e guardando il soffitto per qualche secondo.
Fortunatamente per lui - forse -, non è uno schiavo degli ormoni. Puntella i gomiti sul materasso, alzandosi appena e sperando di attirare la sua attenzione. “Edward, fermati. Che succede?”
Gli accarezza la testa, incastra le dita tra le sue ciocche di grano dorato. Poggia le labbra sulla sua fronte e spera che succeda come ogni volta, che lui si calmi e si apra a lui almeno quel poco per capire come funzioni la sua mente contorta.
Ma ha l’impressione che sarà difficile, stavolta.
Edward solleva il viso, cerca appoggio con le mani sul suo petto. Ha un labbro incastrato tra i denti, e sembra così sul punto di piangere che ha paura di vederlo scoppiare da un momento all’altro, e non sa cosa fare.
“Voglio… tornare a casa.” Bisbiglia lui, come se fosse una vergogna.
Tornare nella sua casa che non esiste, nella sua Reseembool che non è segnata in nessuna cartina, nella sua Amestris che non trova spazio se non nella sua infinita fantasia. “Voglio tornare a casa.” E stavolta la voce trema, ma è più alta, come se alzarne il volume rendesse tutto più reale di quello che non è. Il pavimento scricchiola, perché Edward concentra il peso sulle ginocchia e si solleva, prendendo il membro dell’altro in mano per posizionarsi sopra.
“Ed, non…”
“Voglio tornare a casa…”
Le lettere trascinate, la voce incrinata sull’ultima parola. Un bambino che non può avere quello che vuole semplicemente perché lì, in quel mondo - nel mondo di Alfons, il mondo della chimica, il mondo degli zeppelin e degli aerei e della crisi finanziaria - il suo, di mondo, non esiste.
Non c’è, semplicemente.
Alfons sente il corpo di Edward avvolgerlo come una coperta calda, l’attrito della pelle asciutta contro la sua erezione gli mozza il respiro in gola e per un istante non gli fa vedere più nulla. Non vuole lasciar cadere il tutto con una scopata - non così almeno: ogni volta che il ragazzo affonda sopra di lui singhiozza, si morde le labbra, e i gemiti sono più di dolore che di piacere, e a lui non piace.
“Voglio tornare a casa…” ripete ancora, e Alfons lo guarda, si perde nelle sue labbra umide e nelle sue guance bagnate, e il cuore si stringe addolorato perché i suoi occhi d’oro non lo stanno guardando, non guardano lui, non guardano Alfons. Guardano oltre, lontano, si schiantano sul muro e lo bucano, lo sfondano, mostrandogli colline verdi, una casa color canarino e un albero e travi bruciate, un dondolo che non si muove più.
“Al…” mormora, aumentando il ritmo.
Il piacere è come veleno nelle sue vene. È un intruso, qualcosa che non vuole perché sa che non è per lui.
A volte ha paura di capirlo. Vorrebbe aprirgli il petto e strappargli il cuore per capire se oltre alla sua famiglia immaginaria c’è qualcosa di più concreto - lui, per esempio. Vorrebbe capire perché ora è sopra di lui e si muove anche se fa male, anche se sa che tra poco si spezzerà in mille pezzi e a lui toccherà raccoglierli e rimetterli a posto uno a uno, come ogni volta.
“Al… Al…”
Edward alza il viso al soffitto, tira su col naso. Piange, ma non lo ammetterebbe nemmeno davanti all’evidenza, che sta male, che è rotto e non vuole guarire.
Chi sta chiamando, ora?
Glielo vorrebbe chiedere così tanto. È triste che un po’ si senta infastidito, perché per una volta vorrebbe che Edward si aggrappasse a lui e lo usasse per stare meglio. Non vuole che gli chieda aiuto, non gli interessano le formule di cortesia, non gli interessa sentirsi implorati. Vuole che se lo prenda, il suo sostegno. Che lo stringa al bavero della camicia e lo sbatta al muro, e lo scuota gridando “Ho bisogno di te”.
E invece no. Fa finta di usarlo, lo usa come le maghe usano gli oggetti dei defunti per entrare in contatto coi cari estinti.
Lui è un misero mezzo di comunicazione tra un mondo scomodo e la sua utopia. E non può continuare ad accettarlo, perché lui lo ama - cazzo, lo ama da morire, e non più riesce a tollerare di essere un rimpiazzo.
Lo prende per i fianchi, gli blocca ogni movimento. Edward lo guarda, finalmente, e un singhiozzo gli muore in gola nello stesso momento in cui i suoi polmoni decidono di non accogliere più aria.
“Sono io che chiami, o tuo fratello?”
Si chiede cos’abbia fatto, se la voce fosse davvero la sua o se qualche spirito lo avesse posseduto per qualche istante. Gli occhi di Edward non si chiudono più, la bocca rimane aperta come se avesse appena sentito la domanda più idiota di tutto la sua vita. Riesce persino a vederlo impallidire, e ora il colore del suo viso somiglia tanto a quello del rivestimento delle sue protesi.
“Sono io che chiami, o tuo fratello?”
Alfons è sicuro che quelle parole rimbombino nella sua testa tanto quanto a lui. A volte pensa che il labbro morbido di Ed non resisterà ancora integro per molti mesi, se continua a torturarlo in quel modo. L’aria si riempie di un respiro profondo, e poi, all’improvviso, l’unica cosa che riesce a sentire distintamente è un dolore intenso alla guancia, la mano finta di Edward sollevata appena sul suo naso.
Per un istante lo sguardo di Alphonse si perde nel cielo che schiarisce, i pensieri confusi nella sua testa. La guancia pulsa, e la prima cosa che realizza è che lo ha colpito. Con la mano finta.
Non sa se sia un simbolo o una semplice punizione, o ancora un gesto dettato puramente dall’istinto. Ma quando rivolge gli occhi al suo amante, il colore delle sue guance è diventato quello delle ciliegie d’estate, delle fragole mature a inizio stagione. Persino le lacrime sono aumentate, e i singhiozzi scuotono la sua testa così pesantemente che si sente improvvisamente un mostro.
“Sei un idiota.” sibila tra i denti.
Ora se ne va. Ora se ne va, lo sente.
“Un… idiota.” Lo guarda alzare le braccia, e anche se ha paura sa che ne si meriterebbe altri cento, di schiaffi. Mille. Infiniti. Stringe gli occhi e aspetta, sapendo che non potrà dire né fare nulla per rimediare alla sua stupidità. Glielo ripete ancora, urlando, senza preoccuparsi che qualcuno possa sentirli - per fortuna la signora Glacia ha il sonno pesante. Per fortuna Monaco dorme ancora.
E poi, non capisce più che succeda.
“Non voglio andare via.”
Il peso di Ed si è distribuito sul suo corpo, sul petto che tenta ritrovare un ritmo regolare mentre respira. L’altro singhiozza con violenza, lo sente rimbalzare su di lui, il suo dolore scivolare dalla pelle per entrare in lui e stringerlo con forza. Dovrebbe andarsene, tornare in camera sua a strappare le sue foto e a bruciare le sue cose, farsi la valigia e andare lontano per cercare un modo per riandare da Alphonse e Winry e zia Pinako e tutta quella gente strana e assurda che non esiste, non può esistere.
E invece…
“Non voglio andare via, non voglio andare via!”
Lo stringe al collo, scuotendo la testa con forza. Non capisce se sia il caldo o se siano le sue lacrime a bagnarlo, ma non importa. Esce dal suo corpo, stringendolo poi fortissimo.
Neanche lui vuole che se ne vada. E quando arriverà il momento, lasciarlo andare sarà terribile, lo sente perché quello che prova ora è qualcosa che non avrebbe mai immaginato.
Gli accarezza la testa, baciandogli la guancia. “Va tutto bene.” gli dice soltanto.
In fondo che male può fare una bugia bianca?
Il tempo scivola nella sua sveglia, l’inizio di un nuovo giorno con lui, l’avvicinarsi inesorabile di una fine a cui si è rassegnato nel momento in cui il sangue ha invaso le sue mani e la sua vista.
Vorrebbe penetrare nella sua mente ed aggiustarla, vorrebbe alleggerire il suo dolore e non permettergli mai più di provare sensazioni così orrende, lo stomaco ribaltato per la forza delle illusioni.
Diventerà più forte, se non con il fisico almeno con la mente. Se il suo corpo non vedrà mai la maturazione, almeno la sua mente crescerà e sarà capace di reggere entrambi, giusto per il tempo di insegnare a Edward a camminare da solo.
“Va tutto bene.” bisbiglia un’ultima volta.

fullmetal alchemist, fanfiction, autore: naripolpetta

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