Titolo: Multietnicità
Fandom: original
Personaggi: Arturo
Rating: G
Word count (Fiumidiparole): 1334
Note: 1) è un tributo a diverse cose. Prima di tutto, è un tributo a Gianni Rodari, il più meraviglioso (lo so che non si dice, ma rende meglio) scrittore per bambini che sia mai esistito, almeno dal mio punto di vista. Poi è un tributo a Torino, che è la mia piccola Londra. Infine è un tributo (un po' miserevole, forse) all'uguaglianza tra civiltà.
2) La favola che legge la maestra non è mia, bensì di quell'uomo sì geniale che era Gianni Rodari, come già detto in precedenza. Il titolo è "Uno e sette" e la potete trovare, insieme ad altri racconti altrettanto meravigliosi, nel libro "Favole al telefono". Non essendo di mia produzione, non è, ovviamente, stata conteggiata nel numero di parole che compongono questo tributo.
3) Ho trovato una beta che sostituisce la mia, fuggita in Finlandia per l'Erasmus (mannaggia a lei), quindi risulta essere quantomeno leggibile.
Arturo oggi non ha voglia di andare a scuola. Non perché non gli piaccia, anzi: i suoi compagni sono simpatici, lui è il più bravo a giocare a nascondino e trova brave le maestre. Arturo è in quell’età in cui le maestre sono “brave”; non gentili, professionali o adatte all’insegnamento: semplicemente “brave”, che è un aggettivo che, in fondo, copre tutti gli altri significati.
Tuttavia, oggi non ha per niente voglia di andare a scuola. Tuffa un biscotto in più nel latte, ci mette un minuto intero ad infilare la giacca, e, quando lui e la mamma arrivano davanti alla scuola, non le lascia subito la mano come fa sempre, ma rimane ancora un momento lì, vicino a lei.
La maestra ha detto che oggi avrebbero dovuto fare un compitino di italiano: “Niente di difficile, non dovete studiare nulla: non dimenticate la penna, però, perché dovrete scrivere un testo”, ha detto.
Ad Arturo piace davvero tanto imparare cose nuove, sul serio. Ma quando la maestra dice che bisogna fare un tema, gli cominciano a sudare le mani. Il problema di Arturo è che non sa mai cosa scrivere: non manca di fantasia, ma ha sempre paura di scrivere qualcosa di sciocco, che farà ridere i suoi compagni e arrabbiare la maestra. Così, ogni volta, passa un sacco di tempo a fissare il quaderno, la penna a mezz’aria, senza sapere come cominciare. Poi, quando finalmente si decide a scrivere qualcosa, è sempre troppo tardi: così non riesce mai a scrivere tutto quello che avrebbe voluto e i suoi temi sono sempre incompiuti. Il papà l’ha rassicurato, facendogli vedere un sacco di libri non finiti di scrittori famosi, ma Arturo non è comunque riuscito a farsi passare il magone.
Stamattina la maestra sembra essersi dimenticata del compito, e Arturo, dapprima diffidente, si rilassa pian piano: durante inglese alza la mano e dà una risposta giusta e durante storia scopre dell’esistenza del popolo dei Sumeri, che, ad una prima occhiata, gli piace tantissimo. Ad un certo punto, la maestra guarda l’ora, dice di mettere via gli evidenziatori e fa ritirare in una pila ordinata tutti i sussidiari. Poi prende dalla borsa un libro sottile, tutto colorato, lo apre e cerca una pagina.
Arturo e i suoi compagni si mettono più comodi sulla sedia: quel libro lo conoscono bene, e quando la maestra lo tira fuori, vuol dire che sta per leggere una storia.
E infatti è quello che fa anche questa volta, e la storia che legge dice così:
Ho conosciuto un bambino che era sette bambini.
Abitava a Roma, si chiamava Paolo e suo padre era un tranviere.
Però abitava anche a Parigi, si chiamava Jean e suo padre lavorava in una fabbrica di automobili.
Però abitava anche a Berlino, e lassù si chiamava Kurt, e suo padre era un professore di violoncello.
Però abitava anche a Mosca, si chiamava Juri, come Gagarin, e suo padre faceva il muratore e studiava matematica.
Però abitava anche a Nuova York, si chiamava Jimmy e suo padre aveva un distributore di benzina.
Quanti ne ho detti? Cinque. Ne mancano due: uno si chiamava Ciù, viveva a Shanghai e suo padre era un pescatore; l'ultimo si chiamava Pablo, viveva a Buenos Aires e suo padre faceva l'imbianchino.
Paolo, Jean, Kurt, Juri, Jimmy, Ciù e Pablo erano sette, ma erano sempre lo stesso bambino che aveva otto anni, sapeva già leggere e scrivere e andava in bicicletta senza appoggiare le mani sul manubrio.
Paolo era bruno, Jean biondo, e Kurt castano, ma erano lo stesso bambino. Juri aveva la pelle bianca, Ciù la pelle gialla, ma erano lo stesso bambino. Pablo andava al cinema in spagnolo e Jimmy in inglese, ma erano lo stesso bambino, e ridevano nella stessa lingua. Ora sono cresciuti tutti e sette, e non potranno più farsi la guerra, perché tutti e sette sono un solo uomo.
Quando finisce di leggere, chiede cosa vuol dire. Tre o quattro alzano la mano; Arturo no, perché non è proprio sicuro di aver capito bene.
“Vuol dire che era un bambino magico!”, dice Rosetta.
“Macchè, vuol dire che era un bambino che viaggiava tanto!”, la rimbecca Giorgio.
La maestra sorride, ma dice che non sono le risposte giuste.
“Giocava a travestirsi?”; “Recitava?”; “Erano sette bambini che si sono conosciuti in vacanza?”.
Alla risposta di Francesca, la maestra sorride di più e dice che è quasi giusto.
Allora Giuseppe alza la mano e dice: “Ma lo dice subito: un bambino che era sette bambini! Vuol dire che erano sette bambini diversi, ma è come se fossero lo stesso, perché siamo tutti uguali!”. Giuseppe risponde sempre bene, e infatti la maestra dice che è la risposta giusta. Qualcuno ride e dice che l’aveva capito, qualcuno invece ha la faccia un po’ perplessa. La maestra spiega che è proprio come ha detto Giuseppe: non importa che quei sette bambini avessero il colore della pelle diverso, che parlassero lingue diverse e che abitassero in città diverse: quello che li univa e li rendeva tutti uguali era il fatto di essere bambini, che, una volta cresciuti, sarebbero diventati uomini. Diversi fuori, ma uguali dentro.
Tutti annuiscono convinti, anche Arturo, che ora ha capito bene.
Poi la maestra dice che è proprio su questo che vuole far scrivere loro il tema, e Arturo sente di colpo le mani sudate. Sperava se ne fosse dimenticata. Anzi, se n’era dimenticato lui. Ma ormai la maestra l’ha detto, e tocca scrivere.
Arturo scrive il titolo, dettato dalla maestra, e poi si lascia scivolare nello sconforto, come ogni volta.
Poi però, si ricorda di una cosa. Rimane un attimo a pensare se possa andar bene, lancia un’occhiata veloce oltre il braccio del suo vicino di banco, piegato a coprire le parole per non farsi copiare. Sospira. E poi si lancia.
Quando la maestra dice di mettersi in fila alla cattedra per farsi mettere il voto, Arturo, per la prima volta, ha finito. Però, come sempre, ha paura di aver scritto delle sciocchezze, così si mette in fila per ultimo, col quaderno stretto fra le mani sudate. La fila si accorcia sempre di più, sempre di più, e, alla fine, è il suo turno.
La maestra sorride, e gli chiede se l’ha finito. Arturo, per una volta soddisfatto, dice di sì, e apre il quaderno.
Titolo.
“Dopo aver ascoltato la lettura in classe, scrivo: è vero che gli uomini sono tutti uguali e non importa il colore della pelle? Mi ricordo una cosa che mi è successa…”.
Testo.
Un giorno sono andato con mio papà a Torino. Così prendevamo il regalo di Natale a mamma. A un certo punto avevamo fame, allora papà mi ha portato in un posto e mi ha preso un panino. Il signore che mi ha dato il panino aveva la pelle scura, ma non tanto. Aveva anche un cappellino bianco e un grembiule. Ci siamo seduti a un tavolino mentre ho mangiato. Al tavolino davanti al nostro c’era una signora giovane. La signora aveva la pelle gialla e gli occhi a mandorla e stava mangiando un panino che papà mi ha detto che si chiama chebab. Papà mi ha preso anche una cocacola. A un certo punto al signore col cappellino è scqui scui suonato il cellulare e è partita una canzone che conosco perché nonna me la canta sempre. Dice: “o sole miooo stà in fronte a teee, o sole miooo stà in fronte a teee”. Allora papà si è messo a ridere forte, come fa quando è contento, e ha detto qualcosa al signore col cappellino. Anche il signore si è messo a ridere e diceva “si si, è vero”.
Quando ho finito di mangiare, siamo usciti. Ho chiesto a papà perché si era messo a ridere e lui mi ha detto che si era messo a ridere perché in quel posto c’era tutto il mondo. Io gli ho chiesto cosa voleva dire, perché eravamo pochi e non tanti. Quando siamo tanti si dice “siamo tutto il mondo”, ma non quando siamo pochi. Allora lui mi ha detto che in quel posto c’era tutto il mondo perché c’era il signore col cappellino che era della Tunisia, la signora giovane che era cinese e che mangiava un panino marocchino. Poi c’era la canzone del cellulare che era italiana, poi c’ero io che ero italiano e poi c’era lui che era africano. Così c’era tutto il mondo. Io gli ho chiesto se era una cosa bella e lui ha dinuovo riso forte. Poi mi ha preso in braccio, mi ha fatto volare e mi ha detto che era una cosa bellissima e che Torino gli piace perché è multitecnica. Io non sono sicuro di cosa vuol dire, ma mi sa che vuol dire che c’è tanta gente diversa che però è uguale e si vuole bene. Come io mamma e papà, che abbiamo la pelle di tre colori diversi ma non ci importa nemmeno un po’!
La maestra ha le lacrime agli occhi, e Arturo non sa bene il motivo. Però poi sorride e gli scrive “ottimo” sulla pagina, in alto, perché si legga bene. Ci mette anche un punto esclamativo e disegna una faccina che sorride. Poi abbraccia Arturo e gli chiede se può leggere il suo tema ai suoi compagni.
Arturo quasi non ci crede. Fa un sorrisone e annuisce: è talmente emozionato che non riesce a parlare.
Mentre la maestra legge, lui rimane in piedi di fianco alla cattedra, fiero come se la parola “multietnicità” l’avesse inventata lui. E, da un certo punto di vista, è proprio così.