[Originale] I'm just another pretty face 1/3

Jun 14, 2009 21:29

Titolo: You're one more dead composer
Titolo capitolo: I’m just another pretty face
Fandom: Originale
Parte: 1/3
Beta: cialy_girl
Rating: VM18
Avvisi: Violenza, morte.
Parole: 1.756
Disclaimer: La storia non è ispirata a nessuna persona realmente esistente/esistita, né a fatti realmente accaduti. Qualunque somiglianza è puramente casuale.


Sorridi smagliante alla telecamera. Hai indosso un paio di stracci, praticamente sei in biancheria intima - non fingono nemmeno più di vestirvi - e le mutandine sono ben visibili appena ti muovi, qualunque sia la movenza, tanto la telecamera è pronta a cogliere l’occasione, e quando è impossibile si concentra sulla scollatura generosa. Raggiungi l’altra valletta sempre sorridente, con un espressione ebete, e cominciate a strusciarvi in modo talmente sensuale che, senza dubbio, il quindici per cento degli spettatori deve aver avuto un orgasmo solo guardandovi. La canzone finisce, vi staccate, fate una ruota e tornate ai vostri posti, di lato, sorridendo e ansimando - non che siate poi così stanche, eh, ma il capo ha detto che al Pubblico piace vedervi ansimare, con le tette che vanno su e giù: le donne vi credono affaticate, e si convincono che un po’ abbiate lavorato, agli uomini sembrate essere appena uscite dal loro letto, e quindi sono tanto felici.
Il presentatore entra con un sorrisone più falso del tuo: «Un bell’applauso al nostro corpo di ballo!» inizia. Poi ammicca in direzione della telecamera: «E che corpo!» ma non vi guarda nemmeno. Restate ai lati dello studio, come due oggetti.
Oggetti con un bel paio di tette, sia chiaro.

Sono in molti a guardarvi stralunati, quando siete insieme. Effettivamente, pure a te fa un certo senso. Jill Parcey, tua sorella gemella, ti lancia occhiate d’odio dal fondo dello studio. È seccata perché vorrebbe essere a casa a studiare, di farti da autista ne ha piene le palle - anche se questa è la prima volta in sei mesi che viene a prenderti. Quando il regista e il presentatore decidono di essere stanchi, vi lasciano liberi di andare via. Qualcuno ti dà una pacca sul culo affermando che sei stata bravissima - puttanella. Questo non lo dice, ma è evidente che lo pensa.
Raggiungi Jill. Hai ormai imparato a convivere con la versione grassa e orrenda di te stessa - lei è quello che sarebbe se tu ti fossi lasciata andare, invece di stringere i denti e puntare al successo. C’è stato un periodo nella vostra vita in cui eravate identiche, le persone addirittura non riuscivano a riconoscervi. Poi tu hai cominciato a ficcarti lo spazzolino in gola e a vomitare, lei a rimpinzarsi di dolci e ciambelle. Se tu volevi i capelli lunghi, lei pretendeva di tagliarseli il più possibile, se tu ti truccavi, lei piuttosto usciva con occhiaie e punti neri in bella vista. Ha sempre fatto di tutto per allontanarsi da te - sembrava quasi spaventata. Non ti è mai dispiaciuto. Sospetti che abbia capito chi realmente sei, e questo ti eccita.

«Jill, come mi sta la minigonna?»
«Sembri una puttana.»
Resti un attimo perplessa.
«Ma una puttana minorenne, vero?»
Tua sorella sbuffa, alza la testa dal libro di qualunque cosa stia studiando - sì, non si era nemmeno presa la briga di guardarti - e ti squadra.
«Io non mi concerei mai così.»
«Non te lo puoi permettere.» le ricordi, con una punta di crudeltà che ha ovviamente avvertito. Invece di risponderti per le rime torna allo studio, senza più darti retta. Ridacchi, prendi un rossetto scuro e lo passi sulle labbra, canticchiando per infastidirla. D’improvviso un particolare ti colpisce.
«Ma il tuo fidanzato, che fine ha fatto?»
Scrolla le spalle. «Lavora tanto.»
Sorridi all’immagine riflessa allo specchio. Il fidanzato di Jill è davvero bellissimo. E lei è così ingenua. Esci di casa sbattendo la porta.

I tacchi non ti piacciono perché sono rumorosi, picchiano sul marciapiede ed è facile individuarti. Di solito, per svagarti, non li indossi. Ma utilizzare lo stesso metodo è pericoloso, per non parlare del fatto che l’ultimo luogo divertente non dista molto lontano da questa città, e nessuno deve collegare le cose. Resti ferma sulla strada per circa dici minuti prima che una macchina accosti, con la gonna stretta, un top minuscolo e l’impermeabile in mano - ti sembra di esserti vestita per lavorare, in realtà, non fosse per i guanti neri e la parrucca rossa. L’uomo che ti osserva dal finestrino è grassoccio e pelato. Sorride. Sorridono tutti.
«Sei nuova?»
Annuisci. Lui ridacchia.
«Carne fresca, eh? Sali.»
E tu sali.

Non avevi mai usato questo metodo, prima, ed eri certa che le cose non sarebbero andate come nei film - infatti lui non ha sprecato tempo a parlare, appena fermata la macchina ti ha messo le mani addosso, cercando di toccarti il più possibile con quelle mani tozze e sudaticce. La borsetta ti è caduta sotto il sedile, e per un attimo sei andata in panico, ma sei riuscita a recuperarla presto.
«E togli questi cazzo di guanti!» sbotta, lui. «Anzi, no. Fammi un pompino.» si sistema sul sedile, e mentre è intento a slacciarsi i pantaloni, prendi il coltello. Lo tieni nascosto, ma sempre in mano. Aspetti che cali anche i boxer poi, velocemente, afferri il pene. Lui chiude gli occhi e getta la testa all’indietro mentre lo masturbi, dicendoti che li puoi anche tenere, quei cazzo di guanti, ma ora usa la bocca, puttana.
Afferri più saldamente la punta del suo pene - lui impreca ancora -, mentre con l’altra alzi il coltello in aria e, con un gesto rapido ed elegante, tagli.

Aveva un bel portafoglio pieno, che hai svuotato completamente una volta finito con l’omaccione orrendo (quanto urlava, l’idiota. Però è stato divertente tagliargli la lingua, e poi la gola, persino facile: non riusciva a far altro che strillare e tremare). Guanti, parrucca e portafoglio li hai buttati in un bidone della spazzatura, a cui hai poi dato fuoco. Tornare a casa è stato semplicissimo, coperta dall’impermeabile che non si era per nulla sporcato - l’avevi appoggiato nei sedili dietro. Per il viso, un paio di salviette sono bastate a togliere tutto il sangue.
Torni a casa prima dei tuoi genitori. Tua sorella è ancora china sulla scrivania, e non se ne accorge nemmeno.

È cominciato quando avevi quattordici anni. Eri la più bella della classe, non c’era un ragazzo che non voltasse la testa quando passavi. I complimenti - pure quelli sconci -, i regali e le dichiarazioni d’amore erano all’ordine del giorno. Non ti rendevi conto di essere circondata da arpie, allora - in realtà, semplicemente quattordicenni invidiose -, non finchè non hai capito che erano loro a mettere in giro quelle voci.

(puttana)
A rivelare ogni segreto che condividevi con persone ritenute amiche.
(ma lo sai di chi è figlia, la Parcey?)
A sputtanarti ogni santa volta.
(Mary Parcey non è malata, prof, l’ho vista stamattina che usciva con un tipo…)

Non sai bene come saresti riuscita a sopravvivere a tutto questo, senza il divertimento. Tornavi a casa dopo una giornata di merda, sull’autobus, e un vecchio ha cominciato a strusciarti addosso. Ti sei spaventata, all’inizio, ma piano piano la collera divenne qualcosa di consistente, nello stomaco, una specie di obbiettivo. Se solo qualche dannato passeggero avesse cercato di fermarlo. Ma meglio così, no?
Scendesti alla sua stessa fermata, mantenendo le distanze. Segnasti l’indirizzo di casa sua, e il pedinamento cominciò così. Fu facile entrare, di notte. Fu facile staccare tutti i telefoni, serrare tutte le finestre, avvicinarsi al suo letto e ficcargli una siringa nella gola, una siringa piena solo di aria.
E fu schifosamente divertente vederlo contorcersi.
Quando la sua foto fu su tutti i notiziari, il sentimento di vittoria eliminò totalmente ogni ansia. Il divertimento aveva, per te, l’effetto di un tranquillante. Senza la tua dose, cominciava l’astinenza.

Il telegiornale trasmette l’immagine di un uomo grassoccio e pelato, padre di tre figli piccoli e marito modello, aggredito nella sua auto e atrocemente ucciso, forse mentre dava un passaggio ad un autostoppista.
Tua madre accenna ad un: «Poveraccio.» mentre apparecchia per la colazione: «Non ci si può proprio fidare di nessuno, al giorno d’oggi.»
Tu e Jill vi lanciate uno sguardo perplesso. Certe frasi, dette da lei, risultano decisamente inquietanti.
«Stasera ci guardiamo il tuo programma, zuccherino?» domanda, poi, guardandoti. Sorride pure lei - e dovrebbe essere un sorriso dolce, gentile, ma è solo la diretta conseguenza di tutti quegli psicofarmaci.
«Certo.»
La mamma soffriva di depressione, o forse era solo pazza, ha cercato di uccidervi quando avevate sei anni, e il papà quando ha provato a difendervi.
E con il papà ce l’ha quasi fatta. Grazie all’indulto e alla buona condotta è uscita di galera dieci anni dopo. I nonni erano morti e tutti quei soldi che aveva ereditato - tu e Jill avete fatto i conti - vi sarebbero stati decisamente utili, per questo vi siete piantate in casa sua, nonostante zii e parenti non fossero propriamente d’accordo (ma non hanno mai avuto il coraggio di dirlo alla mamma, stranamente). A voi era sembrata una buona idea, dubitate fortemente che quell’essere scheletrico con un piede nella fossa e il cervello annebbiato da tutte le pillole che prende possa ormai nuocere a qualcuno.
Infatti da quando è tornata non ha mai provato nemmeno a sfiorarvi, e ha accettato la vostra presenza come se fosse la cosa più naturale del mondo.
«L’invidia è una brutta bestia, vero sorellina?» ghigni, tutta contenta. Jill nemmeno ti considera, sembra che stia aspettando la risposta di Leonarda.
La donna scrolla le spalle: «Distrarsi fa bene. Il mondo è pieno di cose brutte.»
Questa volta sei tu a cercare gli occhi di tua sorella. L’unica cosa che vi lega è la consapevolezza di avere una madre completamente fuori di tesa. Jill lo diceva sempre che voi due siete sempre state solo compagne di merende, e niente di più. «Sono atteggiamenti innocui, dopotutto. Non hanno mai ucciso nessuno.»
Ti viene in mente il sangue di tuo padre. Era un piccolo fiume che scappava dalla stanza dove stava succedendo tutto quanto, tu e Jill di fuori fissavate l’entrata, paralizzate dalla paura. E le urla di Leonarda, con il rumore dei colpi che gli infliggeva: “Mi hai imprigionata. Mi hai imprigionata. Mi hai imprigionata.”
Provi a scuotere al testa, nella speranza che questo basti a cacciare via quei ricordi, ma non riesci a muoverti finchè tua madre non rompe il silenzio. Stai persino trattenendo il fiato.
«Solo, Mary.» si volta a guardarti. Tu non le permetti mai di incrociare i suoi occhi con i tuoi - perché se guardi nell’abisso… -, fissi il muro dietro di lei: «Non essere troppo felice. Sei solo un altro bel faccino.»
Annuisci. Leonarda sorride, compiaciuta, come se avesse impartito chissà quale importante lezione alla figlia, e torna a guardare la televisione.
«Visto?» ghigna Jill, e il suo, di sorriso, è inquietante quanto quello di tua madre. Esci dalla sala con un peso sullo stomaco e la necessità fisica di distrarti.

FINE PRIMO CAPITOLO

Note: I personaggi hanno lo stesso nome di (nel caso delle protagoniste, presunta) assassini seriali.
- I nomi delle protagoniste si riferiscono, ovviamente, a Mary Parcey, donna sospettata di essere Jack lo Squartatore, ovvero Jill the Ripper.
- La madre si chiama Leonarda, come Leonarda Cianciulli
- Ad un certo punto, Jill dice che sua sorella era solo una "compagna di merende", precisamente come Mario Vanni definiva i rapporti con Giancarlo Lotti e Pietro Pacciani, scoperti essere gli autori dei delitti del "mostro di Firenze".
- Il titolo della fanfic e del capitolo è merito di Emilie Autumn e della sua "Misery Loves Company" <3

autore: namida, originale

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