Titolo: Fantasia a lume di tentacolo
Fandom: Originale
Parte: 1/1
Rating: 16+
Conteggio parole: 2053 (Word)
Attenzione: la storia è moderatamente folle e contiene tematiche (non sviluppate), tra cui la bisessualità del protagonista, per le quali ho ritenuto necessario inserire un rating così alto. Lettore avvisato mezzo salvato ^^.
En passant: Scritta principalmente per la Sfida Privata
Tentacle&Gears (ovverosia, come mettere insieme
defenderxl,
fiorediloto e
juliettesaito ed essere felici), e incidentalmente per il Challenge di Criticoni Temporal-mente (
LINK) perché c'era un prompt che c'entrava abbastanza XD. Point per chi indovina cosa c'è dietro ai nomi dei protagonisti XD. Amo tutti, ma soprattutto le succitate compagne di sfi(g)da e
lisachanoando. *sparge amore*
Riassunto: La felicità è qualcosa di effimero, caldo e denso. Forse è uno sbuffo di vapore.
Questa storia è protetta da una licenza.
Fantasia a lume di tentacolo
È meglio aver amato e perso che non aver amato mai.
(Men in Black)
Cigolio. Sospiro. Gemito. Cigolio.
Maledetto sia l’architetto Johnson, disse tra sé, rigirandosi nel letto in cerca di un riposo che tardava a sopraggiungere. Avrebbe potuto prevedere delle mura un po’ più spesse, considerando quanti soldi ha avuto l’ardire di spillarci.
Ma l’architetto Johnson non aveva una moglie a cui essere infedele sempre, nella gioia, nel dolore e fino al giorno della sua morte, perché era un maiale schifoso che aveva messo su tanto lardo da poter vedere il quarto strato di mento; a parer suo, Johnson era così brutto che neanche la teiera si sarebbe prestata a far sesso con lui.
Invece George era bello come il sole, con quella barba di due giorni che ti dà quel fascino trascurato-ma-non-troppo, e con un’esperienza e una fame di sesso da far impazzire chiunque. Non c’era nulla di strano, quindi, nel fatto che la stesse tradendo per l’ennesima volta, nella loro casa, ed era altrettanto normale che non riuscisse a prendere sonno.
Anche senza sedersi all’ombra del salice, il luogo dove meglio riusciva a concentrarsi e a riflettere razionalmente, Marge poteva ammetterlo a se stessa senza troppe difficoltà: suo marito era un folle visionario, che a lei e al suo amore, troppo vicino alla devozione, preferiva senz’altro le sue invenzioni bislacche, birre e amanti. Certo, lei avrebbe potuto competere con quegli ammassi di ingranaggi semoventi, se solo avesse voluto - in fondo, la pneumomeccanica euristica era una scienza così inesatta e ardita, che un’eventuale quanto discreta serie di sabotaggi da parte sua non sarebbe stata neanche notata - e la birra era un vizio che avrebbe volentieri condiviso con lui; no, il problema di fondo è che George giocava scorrettamente con lei, costringendola a competere con persone più giovani, più affascinanti, più abili a letto. Più.
Decisamente non combatteva ad armi pari quando ad infilarsi nel suo talamo era una donna di malaffare, una di quelle costrette ad attendere sotto un lampione a gas il gonzo facoltoso di turno per ore e ore, per poi seguire George per disperazione, perché la serata è andata male e se non racimola un po’ di denaro in fretta il suo protettore la picchierà selvaggiamente o la violenterà, rendendola ancora meno appetibile agli occhi dei clienti difficili. Ma Marge era piacevolmente compiaciuta dalle tattiche moderatamente astute di suo marito, se non altro per una questione economica - e in ogni caso, se il giorno dopo e quelli successivi era affettuoso come sempre con lei, una motivazione ci doveva pur essere. Sì, ciò che davvero le dava fastidio non era beccarlo con un’amante, ma con un amante; un amante che per giunta non si limitava certo a farsi scopare, quindi da quel punto di vista Marge non avrebbe potuto, né tantomeno avrebbe voluto essere alla pari.
Eppure George tornava sempre (non nell’ordine, naturalmente) da lei, dalle sue Samuel Adams di contrabbando e da quegli enormi cosi sbuffavapore senza alcuna apparente utilità; e Marge, risvegliandosi da cinque anni nel letto piccolo e morbido della sua camera personale, se lo faceva bastare: cantando arie liriche durante le faccende domestiche, rassettando il disordine perenne di quella casa e ignorando i sorrisi colpevoli e i cenni imbarazzati degli uomini e delle donne che entravano e uscivano dalla camera di suo marito, si era illusa - o convinta, magari - di essere a suo modo felice in un mondo che, intorno a lei, continuava a marciare implacabile.
Si dedicasse almeno a qualcosa di utile per l’umanità, invece di cincischiare con quattro bielle e una trentina di ingranaggi! Era questo il pensiero che si affacciava più spesso nella mente di Marge Walker, ventiseienne moglie di George “Octogears” Walker. Alla soglia del sesto anno di matrimonio, aveva compreso soltanto la metà del soprannome con cui era noto in tutta Garden County - e se non si era mai illusa di fare davvero breccia nel suo cuore al pari dei suoi ingranaggi, era ragionevolmente convinta che nessuno potesse avvicinarglisi tanto quanto lei; in fondo ammirava la forza del vapore, la flessibilità della tecnologia che poteva migliorare e rendere più efficiente un mondo deficiente, e se si era appassionata alle potenzialità della pneumomeccanica euristica in un modo così entusiasta non era solo per amore. Era un po’ meno felice, dopo milleottocentodiciotto giorni di matrimonio - George l’aveva sempre ammirata anche per la sua puntigliosa pignoleria, ora che faceva mente locale all’ombra del salice - ma non meno innamorata e convinta di lui. Questo, fino al momento in cui George l’aveva chiamata via voicepipe, chiedendole una tazza di tè bollente e la sua squisita presenza nel laboratorio sotterraneo quanto prima.
Marge era rimasta basita a causa della sua richiesta, e la perplessità si era fatta a mano a mano più concreta ed evidente mentre rifletteva su quattro punti sconcertanti: primo, suo marito non le chiedeva mai la colazione, men che meno del volgarissimo, analcolico e filoinglese tè, ma si limitava a fare man bassa di ciò che trovava già pronto nel locale adibito a cucina, naturalmente se e quando si ricordava di avere fame; secondo, suo marito non l’aveva mai chiamata prima delle dieci, nel patetico tentativo di far sgattaiolare l’amante di turno in modo da farlo passare inosservato - e quindi ciò la portava a concludere, con stupore, che non aveva trovato nessuno che lo facesse divertire un po’ per ben tre giorni; terzo, non le aveva mai permesso in quattro anni, undici mesi e ventitré giorni di accedere al laboratorio sotterraneo, ma al massimo a quello allestito nella stanza che sarebbe stata definita salotto, nelle case normali della gente normale che fa pettegolezzi normali sulla normale moglie di quel pazzo fuori di testa di “Octogears”.
E infine, concluse Marge, versando il liquido bollente in una tazza di ceramica del corredo buono - almeno aveva una buona occasione per utilizzarlo, e non capitava spesso - squisita non era mai stato un aggettivo che George associava a lei: né da ubriaco. né da sobrio, né tantomeno dopo aver fatto sesso con chicchessia.
Marge fece il suo ingresso nel sancta vaporum, esitante: molte delle macchine presenti in quella sala erano capolavori di ingegneria che non avrebbe mai osato neanche concepire. Piccoli congegni a forma di grosse uova con sportellini che scattavano automaticamente, mostrando il loro interno; carrozze in miniatura, trainate da altrettanto minuscoli cavalli meccanici, che scorrazzavano liberamente su piani recintati; perfino un sollevatore di cappelli, che le suscitò un’incontrollabile risata al pensiero che il pigro, sciatto e obeso architetto Johnson potesse prima o poi farne uso, per evitarsi la fatica di portare la mano alla tesa per salutare i passanti.
Addossata alla parete, notò una grossa apparecchiatura coperta da un telo cerato, che di tanto in tanto si agitava come se fosse viva - o semplicemente attivata; ma del suo George nessuna traccia, fino a quando la sua voce la fece sobbalzare.
- Oh, bene, hai portato il tè. Così adesso hai qualcosa da bere - le disse, sollevando davanti ai suoi occhi una Samuel Adams media, appena aperta. - Alla tua salute, tesoro.
La scolò davanti ai suoi occhi, in un paio di sorsate, e lanciò la bottiglia nella pattumiera nell’angolo, centrandola in pieno. Il volto di Marge assunse un cipiglio marcato.
Tesoro.
Okay, si disse, c’è qualcosa che non va.
- George, caro, è successo qualcosa? Hai battuto la testa?
L’uomo la fissò con aria condiscendente, e prese a percorrere il salone ad ampi passi, sfilandosi i guanti macchiati d’olio e i goggles. - È successo qualcosa - ripeté un paio di volte, accentuando i timori di Marge.
- Bene, è successo qualcosa - sussurrò. - Potrei sapere cosa è successo, per tutti e sette gli inferni?
George parve prendere contatto con la realtà soltanto in quel momento. Tipico. - È… successo qualcosa, sì - esclamò, eccitato. - Iota?
Marge si guardò in giro un paio di volte, perplessa. Poi vide che la tela cerata che ricopriva il macchinario in fondo alla sala si stava sollevando; sconcertata, notò una forma flessuosa, simile a una figura umana, avvicinarsi a loro pattinando su una serie di rotelle e agitando le sue otto braccia. Era un perverso incrocio tra una brutta donna e una brutta piovra, decisamente.
- SI-GNO-RA, TU BEN-VE-NU-TA.
Lo shock deformò per un istante i lineamenti della donna.
- Meraviglioso, nevvero?
- Me… me…
- Me? Mestruazioni? Medico? Mefistofelico? - propose, nel tentativo di risultare un po’ più simpatico del solito, e confidando nel suo sorriso per sdrammatizzare la situazione.
- Meraviglioso un corno! - gridò, cominciando a tempestarlo di pugni, in preda a una crisi isterica. - Ma ti sembra anche solo vagamente sensato ignorare la mia esistenza per quattro mesi e chiuderti qui dentro, uscendone solo per bere, mangiare, scopare e farti scopare, soltanto per costruire un inutile aggeggio di tentacoli e ingranaggi? E hai anche… il coraggio… di chiamarmi… tesoro! - urlò, continuando imperterrita nella sua scarica di colpi.
- Ahi! No, calmati tesoro… Ahi! Iota non è inutile!
- E sentiamo - strillò con voce acutissima. - A cosa servirebbe questa piovra umana?
- Beh, ecco… può illuminarti una sala. Iota, accendi.
L’automa eseguì prontamente, protendendo un tentacolo tra di loro; la punta si illuminò di una luce azzurrina, che tremolò e si spense dopo pochi secondi.
- Devo perfezionarla - ammise George, con un sorriso colpevole. - Se mi lasciassi un po’ di tempo, potrei farcela.
- Io ti ammazzo! - strepitò Marge, scagliando contro Iota e suo marito tutto ciò che le capitava sottomano, dalla tazza di tè a una scatola metallica segnata con una targhetta rossa.
- No Marge, sono esplosivi, se lo scuoti saltiamo in ar-
L’esplosione non fu udita né notata dal curioso vicinato. Il sotterraneo era stato fatto insonorizzare dopo il primo mese di matrimonio dei Walker, e la grossa nuvola di fumo fu imputata all’ennesima invenzione bislacca di “Octogears”.
Marge si recava al cimitero abbastanza spesso, secondo il metro del bigottismo della gente di Garden County, da risultare una donna pia e devota, e, allo stesso tempo, non tanto spesso al punto da nascondere qualcosa; in realtà non è che le importasse così tanto, perché il circondario avrebbe malignato anche sul conto degli arcivescovi se solo ne avesse avuta la possibilità.
Non acquistava mai dalla venditrice di fiori grossi mazzi di gerbere o quintali di peonie, ma si limitava a staccare un ramo del salice di casa, prima di uscire, e a legarlo in una semplice corona con uno degli ingranaggi da sedici, quelli che sferragliavano indefessi nelle macchine del sotterraneo. Ogni volta che posava sulla lapide scura la sua corona di foglie e corteccia, così somigliante a un tentacolo vegetale ritorto su se stesso, Marge ritrovava un briciolo della sua serenità. Non piangeva - qualcosa, dentro di lei, non glielo permetteva - ma si limitava ad accarezzare le lettere incise nella pietra con affetto, e un pizzico di nostalgia.
Anche quel giorno il copione si svolse come al solito: restò davanti alla tomba per qualche minuto, lucidando la lapide di pietra levigata e sistemando la corona di salice in modo che il vento non potesse portarla via, e dopo aver biascicato qualcosa si avviò a passo sbilenco per tornare a casa, a bordo di quella carrozza a cavalli meccanici che George aveva progettato da anni.
- SI-GNO-RA, TU TOR-NA-TA.
Marge accarezzò un tentacolo di Iota con fare affettuoso, prima di riporre lo scialle e il soprabito nel guardaroba, e annuì; dopo aver infilato le pattine, cominciò a trafficare con i pulsanti situati sul “busto” dell’automa.
- SI-TUA-ZIO-NE STA-BI-LE, SI-GNO-RA. NES-SUN MES-SAG-GIO IN AT-TE-SA. FE-LI-CE GIOR-NA-TA.
Si appoggiò a una parete del salone, osservando Iota sferragliare e cigolare per i corridoi, sovrintendendo alle faccende di casa, e cercò al suo interno il programma per rilevare l’ora esatta. Mancava poco al ritorno di George, dopotutto: l’unità centrale avviò la sequenza di comandi “sorriso amaro di attesa”, e decise autonomamente di entrare in modalità stand-by.
La serratura scattò brevemente, i passi pesanti dell’inventore coperti come sempre dai rumori ossessivi delle macchine in funzione.
- Maledizione, quest’unità centrale dovrebbe smetterla di spegnersi e riaccendersi a suo piacimento - sbuffò, armeggiando con i comandi nascosti dietro i capelli sintetici di Marge #2; gli occhi dell’automa-moglie si illuminarono di verde e rosso, prima di rivolgersi a lui.
- CIAO GEOR-GE, BELLO VE-DER-TI - scandì, senza la minima inflessione. - LA CE-NA PRON-TA.
FINE