[Distretto di Polizia] Come and go (We ain't talking) (Gabriele/Lorenzo)

Feb 19, 2011 23:49

Titolo: Come and go (We ain't talking)
Fandom: Distretto di Polizia
Personaggi/Pairing: Gabriele Mancini/Lorenzo Monti, Luca Benvenuto
Rating: PG
Conteggio Parole: 2711 (fidipu)
Prompt: Sereno per la prima settimana della Cow-T di maridichallenge .
Avvertimenti: vago slash, vago angst, vago tutto xD
Note: *sogghigna stupidamente*
- Faeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee. ♥
- La collocazione di questa storia, beh, non esiste *LOL* Principalmente perché non esiste un momento, nella serie, in cui Lorenzo è stato via per due-tre mesi e, in quello stesso lasso di tempo, nell'ufficio che divideva con Gabriele ci fossero solo ispettori "conosciuti" a Lorenzo (niente Panariello & Frigidwoman, quindi). E il fatto che vadano a sbattere contro la scrivania di qualcuno che anche Lorenzo conosceva è importante ai fini della *trama* per come si è srotolata nella mia mente, perciò vi tenete l'anacronismo di Elena, ecco. /o\
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ Come and go.
(we ain't talking)

Gabriele guarda Roma e vede soltanto afa, un gigantesco cielo senza nuvole e persone sudate; all’inizio di giugno è difficile persino vivere, figurarsi poi se uno deve pure andare a lavorare, tanto più che in commissariato l’unica fonte di refrigerio è il dannato ventaglio di carta di Ingargiola. Lo stipendio da ispettore di polizia decisamente non è sufficiente a ripagarlo dello straordinario sacrificio psicofisico di alzarsi dal letto e attraversare mezza città per lasciarsi sommergere dal panico dei suoi concittadini, ma lo stipendio da ispettore di polizia, in fin dei conti, non è sufficiente neppure a pagargli le bollette, perciò Gabriele si è rassegnato da un pezzo a questa particolare sofferenza di vita, ed è già in ufficio.
Per fortuna, l’unico segno di vita nell’atrio è lo sbuffare esasperato di Ugo, chiuso in guardiola con nient’altro da fare se non, appunto, sbuffare. Probabilmente fa troppo caldo anche per le vecchiette paranoiche ossessionate dall’idea che il loro vicino di casa stia tentando di ucciderle. O di uccidere il loro gatto. O di uccidere loro e il loro gatto, magari contemporaneamente.
Gabriele rivolge a Ugo un cenno un po’ esausto, che rimane, peraltro, miseramente ignorato, e poi tira dritto fino in ufficio. Un’altra giornata di gloriosa fatica lo aspetta, evviva.
«Buongiorno,» lo saluta Lorenzo, il mento poggiato contro il pugno chiuso e gli occhi inchiodati allo schermo del computer, ed è tanto concentrato che Gabriele, per un lunghissimo secondo, immagina che stia guardando un porno particolarmente interessante, dopodiché si ricorda che Lorenzo non è affatto tipo da apprezzare la sottile arte dell’erotismo in pixel e che, comunque, se anche avesse deciso di darsi a questo particolare tipo di cinefilia, beh, avrebbe anche potuto scegliere un posto un po’ più consono, no? D’accordo, magari non esiste veramente un luogo pubblico in cui non sia inappropriato mettersi a guardare film porno, però, cielo, perché proprio in ufficio? L’ufficio è forse il posto peggiore nell’universo per certa roba!
Oh, aspetta. L’ufficio?
Gabriele s’immobilizza sulla porta, la mano congelata a metà del breve arco che era scattata a tracciare nell’aria in segno di saluto; osserva bene la scena e sì, Lorenzo è decisamente trincerato dietro la sua scrivania a fissare, con tutta l’infinita tranquillità di questo mondo, chissà che roba misteriosa sullo schermo del suo computer.
Gabriele trattiene il fiato e si volta un pochino a destra, per prendere il giornale che Lorenzo ha mollato in cima all’archivio - ogni sacrosanto giorno Lorenzo Monti compra il giornale, lo legge di sfuggita durante il tragitto fino al commissariato e poi lo getta lì, annoiato dagli eventi della storia, e ogni sacrosanto giorno Gabriele legge a sbafo il giornale che Lorenzo ha portato, e questa è l’unica parte della loro routine di colleghi che non sia vivacemente decorata di insulti e violenza fisica. O meglio, questo è quello che succedeva prima che Lorenzo decidesse di farsi trasferire in quale che sia il posto dove ha deciso di farsi trasferire, Gabriele non ha intenzione di sprecare neppure un neurone per tenerlo a mente, lasciando l’ispettore Mancini drammaticamente privo di qualsivoglia contatto col mondo esterno, - e quando consulta la data si sente un po’ meglio: nove giugno duemiladieci, non è sceso dal letto nell’anno sbagliato.
«Uhm,» tenta, allora, indeciso su come comportarsi. Se ha dimenticato il piccolo ma decisivo dettaglio di essersi trasferito in quel posto lì di cui nessuno si ricorda, è più che evidente che Lorenzo deve aver perso quel poco di sanità mentale che gli rimaneva, ma come fai a farglielo notare senza essere tremendamente indiscreto? «Uhm, Lorenzo, ciao. Come- cosa- uhm. Tu e Greta vi siete lasciati?» (E deve mordersi la lingua, perché è una fatica immane costringersi a non aggiungere, «Di nuovo?», perché sarebbe davvero maleducato, da parte sua.)
Lorenzo, finalmente, alza gli occhi dallo schermo e gli fa una radiografia ai limiti dell’imbarazzante. Gabriele si agita un po’ sul posto e non è che il suo disagio si stemperi quando, terminato il check-up, Lorenzo sogghigna.
«Assolutamente no,» si decide, infine, a rispondere. Gabriele si acciglia - «Male,» mormora, sottovoce, è più forte di lui, - e controlla di nuovo la data sul giornale. «E comunque, ho la faccia di uno che è stato lasciato dalla moglie? Di nuovo?» prosegue Lorenzo, quasi ridendo, e se Gabriele aveva bisogno di una conferma del fatto di essere finito in un universo parallelo in cui Lorenzo non se n’è mai andato a fare il commissario in quel posto di così dubbia validità geografica che persino gli atlanti se ne dimenticano appena possono, beh, l’ha avuta, dritta sotto i suoi occhi.
«D’accordo,» esordisce, un po’ spaventato e un po’ preoccupato, prendendo ad indietreggiare verso la porta e mantenendo fisso il contatto visivo con questo assurdissimo Lorenzo, perché fidarsi è bene ma non fidarsi è, decisamente, la scelta più saggia. «D’accordo, non so cosa sia andato storto stamattina, probabilmente sono sceso dal lato sbagliato del letto oppure ho attraversato un varco spazio-temporale venendo qui, lo sapevo che non dovevo venire a piedi, ma perché sono venuto a piedi?, io non vengo mai a piedi!, insomma, comunque sia questo non è l’universo al quale appartengo, perciò scusa se ti ho disturbato, è stato un piacere incontrarti, adesso vado via, tu non mi hai mai visto, ti prego non dire nulla al me di questo universo e Dio spero solo che questo non vuol dire che finirò per farmi mia nonna come Fry in quella puntata di Futurama--»
«Ehi, ehi, ehi!» lo interrompe Lorenzo - adesso sì che sta ridendo, comunque, - alzandosi in piedi e tendendo verso di lui le mani, un po’ in un gesto di pace e un po’ in un avvertimento, tipo se non stai zitto ti strozzo o qualcosa di simile. «Non straparlare, non ho capito la metà di quello che hai detto. Stai calmo.»
«Scusa. Scusami, ti prego, non intendo farti del male perciò non c’è assolutamente bisogno che tiri fuori il fucile ultrasonico, guarda, ho con me solo ventidue euro e la cosa più pericolosa che ho in tasca è una pallina da tennis,» e sotto lo sguardo ormai allucinato di Lorenzo, Gabriele si sfila di tasca la pallina gialla e gliela mostra, gli occhi sgranati all’inverosimile, tenendola tra due dita, come a volergli dimostrare che sì, è veramente una cosa innocua e stupida come sembra.
«Gabriele,» esordisce Lorenzo, circumnavigando la scrivania fino a fermarglisi davanti, abbastanza lontano perché il Mancini non scappi via terrorizzato ma abbastanza vicino da permettergli di constatare che no, non puzza di alcol e non sembra sotto l’effetto di nessuna sostanza psicotropa. Lorenzo non è veramente sicuro che questa sia una buona notizia. «Che cavolo stai blaterando? Sono io, sono Lorenzo. Sono venuto a Roma per prendere dei documenti dal vecchio liceo di Chiara, e ho pensato di passare a fare un saluto. Stavo--» indica il computer, «stavo facendo una partita a solitario, in attesa che arrivasse qualcuno. Tu, piuttosto, Luca lo sa che ti sei rincoglionito completamente?»
Stava facendo una partita a solitario. È tornato a Roma a prendere dei documenti dal vecchio liceo di Chiara. Stava facendo una partita a solitario.
Gabriele chiude gli occhi, perché davvero non riesce a sopportare la vista di questo enorme, colossale, mastodontico, universale coglione; inspira ed espira lentamente, tentando di darsi un contegno, di ritrovare la serenità, la calma zen, quel posto tranquillo sul retro della sua testa in cui ci sono solo felici poesie d’amore francesi e una quantità industriale di cioccolatini e orsacchiotti di pezza e nessuna donna lo rifiuta mai, ma, Cristo benedetto, è un’impresa impossibile. Fissa gli occhi sul viso di Lorenzo, allora, decidendo di volersi imprimere nelle retine fino all’ultimo dettaglio della sua bruttissima faccia - come se non lo conoscesse già come le nocche della propria mano, come la superficie consumata dagli anni della sua maledetta pallina, - e si permette, per la prima volta da mesi, di arrabbiarsi.
Ma di arrabbiarsi sul serio, così tanto che neppure riesce a tener dietro a se stesso, alla propria lingua, ai propri pensieri, mentre blatera a Lorenzo tutta l’incazzatura e la delusione e l’incazzatura, soprattutto, che ha avuto modo di accumularsi nel suo petto da quando lui, «fottuto coglione senza la minima considerazione per le persone che commettono il supremo errore di avere un’opinione un po’ meno che negativa di te,» ha preso quelle tre o quattro cose che aveva e se n’è andato ad arricchire la gioiosa, inutile popolazione di quel posto che avrebbe dovuto estinguersi con i dinosauri, tanto è assolutamente superfluo e insignificante per la società, se non addirittura dannoso.
E Lorenzo, povero lui, povero «ingrato bastardo supponente che arrivi qui e pensi di fare i tuoi comodi, come se non avessi mai messo piede fuori da quest’ufficio o da casa mia o dalla mia cazzo di vita», rimane a sorbirsi la cascata d’insulti - «ah, e te l’ho detto che sei anche mostruosamente antipatico? Dio mio, Lorenzo, te lo giuro, non ho mai incontrato nessuno più antipatico di te! E stronzo, te l’ho detto stronzo? Coglione ingrato rimbambito casinista antipatico, e che picchi come una ragazzina?» - perché, in verità, pensa di meritarseli, per la maggior parte, se non tutti quanti. È vero, quello di cui Gabriele lo sta accusando senza neppure dirlo apertamente - che è sparito dalla circolazione senza il minimo riguardo per gli amici, per gli affetti che ha lasciato a Roma; che, sì, magari avrebbe potuto dare un po’ di preavviso, e non salutare con le valigie già fatte. Che, pure quando c’era, non è mai stato esattamente il massimo della cordialità; che lo hanno accettato, che Gabriele lo ha accettato pure così, e lui non ha mai ringraziato, ma non ha mai neppure dato segno di averci fatto caso, il che è pure peggio, - ma non è niente che Lorenzo possa risolvere. È completamente imbranato, per costituzione, quando si tratta di sentimenti che non siano l’adorazione palese per Chiara, per cui non solo Gabriele ha ragione, ma continuerà ad avercela finché avrà intenzione di restare amico di Lorenzo, o quantomeno di parlargli.
L’unica cosa positiva è che, a giudicare almeno dalla durata del suo sfogo e dall’intensità via via crescente della sua irritazione - a un certo punto comincia a seminare di lievi, fastidiosi pugni le spalle di Lorenzo, che non ha il cuore di fermarlo, - probabilmente il loro rapporto, quale che sia, non è destinato a durare poi ancora molto.
«Dio, quanto sei antipatico,» ribadisce Gabriele, forse per la centesima volta, perché per lui è l’insulto peggiore di tutti, sei antipatico. Lorenzo sospira una volta di più, incassa l’ennesimo pugno e aspetta il successivo, che però non arriva, non arriva per nulla, e allora lui cerca il viso di Gabriele, la sua espressione, il suo broncio, e si stupisce quando vede una smorfia tutto sommato tranquilla, magari un po’ delusa, ma generalmente serena.
«…Gabriè?» mormora, incerto, e Gabriele gli appoggia entrambe le mani sulle spalle, gli dà due pacche di consolazione e poi sorride.
«Ciao, Lorè,» dice. «Come stai?»
E Lorenzo sta davvero per rispondergli, ma Gabriele gli accarezza il mento con un cazzotto che avrebbe steso un campione di pesi massimi, e non è che gli rimanga molto fiato da sprecare. Appena si riprende dallo shock, col dolore che ancora gli saetta tra le tempie, bianco e vivido come una scarica elettrica, Lorenzo si rialza - s’era piegato istintivamente sulle ginocchia, cercando un appoggio, il sapore acre del sangue esploso sulla lingua e una bestemmia bloccata nella gola, - guarda Gabriele con due occhi così che sembra gli dicano, «ma ti sei impazzito del tutto?». Gabriele, per tutta risposta, sorride con aria innocente, e Lorenzo non ci vede più; gli si lancia contro, riuscendo a colpirlo con una testata sullo stomaco, ed è terribilmente soddisfatto di sentire il respiro di Gabriele mozzarsi d’improvviso in uno sbuffo dolente.
È così che risolvono i conflitti, d’altra parte, pestandosi come due ragazzini; l’ultima volta è stato più divertente, con la piscina e magari le mani di Lorenzo che vagavano dove non avrebbero dovuto, ma anche così non è male, rotolarsi sulla moquette dell’ufficio che ha visto così tante litigate che questa mezza rissa gli era praticamente dovuta. A Lorenzo piace, sbollire i problemi con la violenza - con Greta non lo può fare, e c’è una parte di lui che è profondamente convinta del fatto che è proprio per questo che finisce sempre per tornare da lei implorandola di riprenderselo, perché non può presentarsi sul suo zerbino e riempirla di mazzate fino a svenirne, - e Gabriele, dal canto suo, non chiede di meglio che potergli regalare qualche livido in cambio di tutte le notti insonni trascorse a fissare il soffitto, qualcuna persino nel letto in cui Lorenzo dormiva, a domandarsi come fosse la vita in quel posto di cui probabilmente neppure Lorenzo ricorda il nome, e se avesse già trovato un collega simpatico e bello e brillante come lui e cazzate del genere. Non che ci sia bisogno che Lorenzo sappia dei suoi momenti di debolezza, naturalmente.
Finiscono a sbattere contro la scrivania di Elena, a un certo punto - Lorenzo non saprebbe dire se è stato Gabriele a spingerlo o lui a buttarcisi contro, tentando di sfuggire ad uno dei suoi micidiali pizzichi sui fianchi, - e qualcosa precipita giù dalla scrivania, forse un portapenne, e poi qualcos’altro, forse la tastiera, e qualcos’altro ancora, forse un faldone di documenti, e Gabriele grugnisce, irritato. La sua solita fortuna.
Un secondo dopo, sulla porta dell’ufficio appare Luca, in tutta la sua sfolgorante, inattaccabile perfezione. Non fa una piega a vedere i due colleghi mezzi insanguinati e buttati per terra come due sacchi della spazzatura particolarmente irritabili, ma c’è un sorriso gigantesco che preme agli angoli delle sue labbra e si vede dallo scintillio nei suoi occhi, dalla sua postura, dal modo in cui solleva le sopracciglia e non guarda prima né Gabriele, né Lorenzo, ma subito loro due nell’insieme, come se non avessero mai smesso di essere una squadra, come se fosse normale averli entrambi sotto gli occhi, Gabriele seduto sulla pancia di Lorenzo e Lorenzo col mento in fiamme e la camicia macchiata di sangue.
«Fatemi la cortesia di non fare tutto ’sto casino, va bene?» dice, gentilmente, come se parlasse con due individui adulti e assennati. «Anzi, fate così, andate fuori a menarvi o parlare o pomiciare o quello che è. Lo sapete come diventa Elena, quando si fa casino con la sua roba.»
E Gabriele e Lorenzo lo sanno, Dio, lo sanno fin troppo bene, e per entrambi è spontaneo, meravigliosamente istintivo saltare in piedi e prepararsi a scappare in Guatemala, come se Elena dovesse apparire dal nulla per fargli una ramanzina infinita perché le hanno incasinato la scrivania.
«Cazzo fate ancora qui, dai,» li riprende Luca, ancora, scostandosi dalla porta e facendo segno ad entrambi di uscire. Gabriele e Lorenzo si guardano per un attimo, Lorenzo che si ripulisce alla meno peggio la bocca dal sangue, rovinandosi il polsino della camicia, e poi sfilano fuori in silenzio, come se Luca li avesse messi in punizione.
Ugo continua ad essere grandiosamente estraneo a qualsiasi cosa succeda nel distretto, perciò non si accorge dei due ispettori che, con l’aria di essere stati bastonati per bene, passano davanti al gabbiotto. Ingargiola solleva brevemente lo sguardo da dietro la sua scrivania, scrutando con aria severa il vago zoppicare di Gabriele e il modo in cui Lorenzo gli piazza un braccio attorno alle spalle per aiutarlo a raggiungere la porta, poi torna a sventolarsi oziosamente col suo benedetto ventaglio di carta.
Fuori dal distretto Roma è ancora insopportabile, torrida, coperta da una cupola azzurra che vorrebbe essere il cielo e sembra solo il soffitto di una serra, ma a Gabriele sembra di riuscire a respirare meglio, come se prenderle da Lorenzo e dargliene un po’ in cambio gli avesse liberato i polmoni di chissà che macigno.
Lorenzo lo guarda da sotto in su, un po’ in imbarazzo, un po’ a disagio, un po’ semplicemente contento di vederlo e di avere una costola incrinata e un male pazzesco al culo che ha sbattuto per terra quando Gabriele lo ha spinto. Non osa sorridere, non osa dire niente - è davvero, davvero, davvero patologicamente imbranato, con questo genere di cose, - lo guarda e basta, e a Gabriele sembra quasi di sentire l’odore forte del cloro della piscina di casa.
Gli sorride, allora, e si sente ancora meglio.
«Ti va una partita a biliardino?»

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