[RPF] Doveva essere un tramonto

May 25, 2012 20:01

Titolo: Doveva essere un tramonto
Fandom: RPF Spaghetti Funk
Personaggi/Pairing: J-Ax/Grido, J-Ax/Lainie, Grido/Irene Viboras, Grido/Thema
Rating: PG14
Conteggio Parole: 5007 (fidipu) (minicest_ita is the way)
Avvertimenti: slash, het, incesto, fluff
Note: Ciaaaaaao, sono Kyappe e ho sentito a lungo la mancanza di queste creature, di questo fandom, di questo mondo.
- kuroi_nezu è lo splendore e ha fatto un fanmix bellissimo per questa storia che potete scaricare qui. Mille miliardi di grazie, cara, per l'impegno che ci hai messo a creare questa soundtrack assolutamente perfetta, e poi anche perché la copertina fronte/retro mi ha uccisa di bellezza :*******
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ Doveva essere un tramonto.

Ema dice che è un’idea del cazzo, perciò molto probabilmente è un’idea geniale. Luca ride, pesca un’altra manata di patatine dal cestino al centro del tavolo e ci si riempie la bocca così tanto che gli si gonfiano le guance.
«Allora vado, insomma,» dice, e poi con un sorso di birra si aiuta a buttar giù il boccone.
Ema alza gli occhi al soffitto, gli tira una pedata.
«È un’idea del cazzo,» ripete, piatto, perché è proprio convinto convintissimo; Francesco, accanto a lui, si agita un pochino sulla sedia.
«Sei sicuro, Lu’?» chiede, le sopracciglia corrucciate e il viso arrossato perché, tra tutti e quattro, è quello che finora ha bevuto di più. «Voglio dire, sei sicuro che è una buona idea? Alessandro...»
«Alessandro è mio fratello,» sbuffa Luca, e per un momento preme le labbra in una linea dura, imbronciata. «Figurati se non mi vuole vedere.»
«È un’idea del cazzo,» dice ancora Ema, e, sotto il tavolo, allaccia le caviglie attorno ad un piede di Luca, per solidarietà o perché così pensa di poterlo trattenere, o chissà che cosa. Forse perché se lo vuole scopare, più tardi; ma probabilmente no, stavolta è tutto meno che quello.
«Voi proprio non capite, eh,» replica Luca, allora, con questo mezzo ghigno sbilenco a tradire grandiosamente il fatto che, a quel tavolo, in mezzo a quegli amici, lui è soltanto un ragazzino - a tradire il fatto che, per tutta la sua vita, lui non è stato davvero nient’altro che il fratellino, lo scricciolo, il piccolo della congrega; un cucciolo capace di mordere, di reggere l’alcol e togliere il fiato alle ragazze e scrivere rime come un veterano qualsiasi, un cucciolo magari con gli artigli affilati, ma comunque un cucciolo.
Il pub è semivuoto e tranquillo come qualunque posto al mondo dovrebbe essere nelle serate infrasettimanali in pieno inverno; nell’aria striscia sommesso un greatest hits dei Pink Floyd, una scelta niente male per un buco nel cuore di Milano, e ogni tanto si sente uno scoppio di risa provenire dalle cucine.
Takagi non ha detto granché, da quando sono arrivati. Luca lo guarda, da sotto le ciglia, perché gli viene naturale, ogni volta che Ale non c’è, lasciare che sia Taka, tra tutti, a prendere il suo posto.
«È un’idea del cazzo,» dice Takagi, sottovoce, con gentilezza, toccandogli una spalla con la propria. È un’opinione, e a Luca si spezza il cuore ed è la prima volta da sempre, forse, che il Taka è d’accordo con Ema; gli sorride, comunque, da sotto in su. «Monica ti può prenotare il biglietto domani a lavoro, in aeroporto ti accompagno io.»

*

Alessandro è in America da dodici giorni e non ha ancora smesso di esserne innamorato. Non ha ancora ripensato a casa, a Milano, neanche una volta, neanche mezza, neanche quando ha incontrato quella comitiva di italiani la prima settimana, perché Alessandro è in America, - in America, cazzo, in culo a tutti gli stronzi della sua vita che lo vedevano già un fallito, e morto prima dei trent’anni.
Perciò, d’accordo, Alessandro a Milano magari ci pensa, ogni tanto, ma non pensa a casa, non per davvero; non pensa alla mamma, e soprattutto non pensa a Luca, e in fondo va bene così, perché è in America e in America ci è venuto per scappare da una miriade di cose, la faccia di suo fratello prima di tutte. Ma è meglio se non ci pensa.
New York è magnifica. New York è tutti i suoi sogni illuminati di colori che Alessandro non sapeva neppure esistessero, e fatti reali; New York è meglio di qualsiasi ragazza che Alessandro abbia mai amato, è meglio di qualsiasi concerto, è meglio di qualsiasi canzone. New York, quando Alessandro la guarda dalla finestra incorniciata di legno azzurro del monolocale di quel cugino di Spazio, la casa in cui abita senza che nessuno venga a spillargli un centesimo, New York è la città più bella del mondo. Alessandro vorrebbe baciarla.

*

Viene fuori, sorprendentemente, che Ema aveva ragione: è un’idea del cazzo. Il viaggio si rivela un incubo prima ancora che decolli l’aereo, a cominciare dal prezzo del volo e passando per i casini che gli fanno al check-in, i casini al metal detector, i casini alla dogana, i casini che Luca, poi, pianta al duty free perché non ha senso che gli abbiano sequestrato l’accendino se poi può arrivare a dieci metri dall’imbarco e comprarsi uno Zippo con venti litri di benzina, davvero.
È un’idea del cazzo e Luca le vede, le espressioni preoccupate di sua madre e dei suoi amici - quella di Takagi, soprattutto, - mentre lo guardano addentrarsi nella pancia di Malpensa come un coniglietto sperduto, e si accorge pure del sorriso compassionevole delle hostess che non hanno la minima idea dei miliardi di modi in cui lui potrebbe far girare loro la testa.
Luca sa, vede, capisce; sorride, per tutto il tempo, ad ogni singolo intralcio burocratico e ad ogni coda interminabile e ad ogni vuoto d’aria, perché è un’idea del cazzo, è vero, ma è la sua idea, ed è da suo fratello che sta andando - da suo fratello, in America, - e difficilmente potrebbe esserci qualcosa di meglio.
Dorme, durante il volo, per un sacco di tempo. Non ha il coraggio di rovistare nel bagaglio a mano per cercare il lettore CD, e non ha voglia di rileggere per l’ennesima volta il suo albo preferito di Batman, - avrebbe dovuto comprare qualcosa di nuovo, probabilmente, ma non sta andando a New York per diventare un topo di biblioteca, diamine, - perciò Luca chiude gli occhi, sprofonda ancora un po’ nel sedile non appena le hostess annunciano che non c’è più bisogno di tenere allacciate le cinture, e si addormenta, perché non c’è molto altro che possa fare.
Lo hanno tenuto su sveglio fino alle quattro, stanotte, i ragazzi e le ragazze e soprattutto l’alcol e l’erba che i ragazzi e le ragazze gli hanno portato. Onestamente, Luca è convinto di avere ancora addosso l’odore dolciastro del fumo, nonostante la doccia lunga quasi un’ora in cui s’è annegato stamattina, e il fatto che s’è cambiato due volte.
Lo hanno tenuto su sveglio fino alle quattro perché è stata una decisione improvvisa, questo viaggio, un colpo di testa come solo gli Aleotti nella storia del mondo, e nessuno voleva davvero lasciarlo andare, perché è a malapena maggiorenne, perché l’inglese non lo parla, perché è una testa di cazzo e se poi finisce per farsi arrestare?
A questo giro, per una volta, Luca è rimasto colpito dalla possessività ansiosa della sua cricca, e per niente irritato; è come avere un’altra dozzina di madri a respirargli sul collo in ogni minuto della giornata, e, vabbè, magari sono madri che non si sono mai fatte problemi, fin da quando aveva quattordici anni, a passargli una canna o una sigaretta o una birra o una bottiglia di vodka, e qualche volta persino qualche fidanzata per fargli fare esperienza, ma, insomma, è proprio dall’abbraccio protettivo di Thema, di Spazio, di Umberto che Luca vuole scappare.
È proprio quello che l’ha convinto a farsi questa traversata sull’oceano - quest’idea grandiosamente del cazzo, davvero, - e quindi è stato ironico e in qualche misura appropriato festeggiare la partenza circondato di gente che di vederlo partire avrebbe fatto più che volentieri a meno.
Luca sorride, in bilico tra il sonno e la veglia, e allunga un pochino le gambe sotto il sedile davanti, si accartoccia meglio che può contro il finestrino.
Spazio, con grande sorpresa di nessuno, in assenza dell’Aleotti maggiore si è caricato sulle spalle il ruolo di fratellone ansioso, ed è stato il più asfissiante di tutti. L’intera idea della festa in effetti se l’è fatta venire lui, spontaneamente, e spontaneamente ha messo a disposizione la casa, il frigo, la Play, il narghilé; e ha passato la serata con un braccio annodato alle spalle di Luca, sul viso quest’espressione a metà tra il senso di colpa e la tristezza suprema di un cane bastonato. Continuava a riempirlo di birra, a spingerlo tra le braccia di una ragazza dopo l’altra, a tentare di convincelo di farsi un’altra partita a Mario Kart e di dare un altro tiro alla canna perché, dai, non ne hai mica avuto abbastanza, e probabilmente sperava che Luca si devastasse abbastanza da mancare l’imbarco.
E Luca è stato al gioco, perché sotto sotto è un bastardo, e gli è piaciuto vederlo annaspare - e farsi viziare, d’accordo, - per tutta la notte. E poi c’era Irene, Dio solo sa perché; Irene che è bellissima, gelida e inavvicinabile, e Spazio deve averle promesso il proprio primogenito in sacrificio per convincerla a presentarsi ad una festa per Luca.
Irene è stronza, frigida, Irene è fantastica e non c’è nessuno, in tutta Milano, che non la voglia. E Irene era lì per la festa di Luca, ieri sera, magnifica con gli anfibi stinti slacciati e il jeans così incollato alle gambe da sembrare un tatuaggio; perfetta, in quel maglione rosso scuro, largo e morbido sul suo corpo sottile e svasato sul collo, che le scivolava distrattamente giù da una spalla, scoprendo la manica di una canotta nera, la bretella del reggiseno; Irene era lì e Luca, imprigionato dal braccio di Spazio, le ha sorriso, le ha offerto da bere.
Non c’era neppure l’ombra di un’espressione sul suo viso, quando lei l’ha guardato; Irene ha questo modo straordinario di rimanere sempre neutra a meno che non ti detesti, Irene ha questo modo di non tenere in considerazione niente e nessuno all’infuori della sua band, niente e nessuno all’infuori di sé, però Luca le ha sorriso, e Luca ha diciott’anni e gli occhi chiarissimi, enormi, perciò il suo sorriso è qualcosa di più di un sorriso e basta.
«Vado a New York, domani,» ha detto, porgendole una birra ghiacciata; Irene ne ha preso un sorso, e per un istante lo ha guardato come se lo vedesse davvero e Luca, contento, s’è messo a ridere.
Dev’essere stato allora che Spazio s’è convinto che sarebbe riuscito a trattenerlo a Milano per sempre, perché è sgusciato via con sorprendente nonchalance per andare a scolarsi mezzo litro di vodka in onore della vittoria; quando Luca è andato a cercarlo, più tardi, parecchio più tardi, talmente tanto più tardi che in effetti era già più oggi che ieri, Spazio era talmente irrecuperabile che non è riuscito nemmeno a stupirsi perbene.
«Che c’è, bimbo?» ha chiesto, sistemandosi più comodamente sul divano, ogni movimento più lento del ticchettare delle ore via da una sveglia.
Luca si è stretto nelle spalle, un po’ troppo fatto di suo.
«Ad Ale ancora non gliel’hai detto, no?» ha detto, e Spazio, persino nel suo stato, ha sgranato gli occhi. Un pochino.
«Luca-»
«No, zio, guarda che lo so. Guarda che va bene. Non gli dire niente, ok? Nemmeno domani, se lo senti, se si fa vivo, nemmeno... non gli dire niente.»
E gliel’ha fatto promettere, e gliel’ha fatto giurare, e adesso Luca dorme su un aereo che lo deve portare a New York da suo fratello, e suo fratello nemmeno sa che lui sta arrivando.

*

Alessandro conosce Lainie una sera che sta festeggiando il compleanno di un tizio che, fino a due ore fa, non aveva mai visto prima in vita propria. Lei è lì con la sua comitiva, con i suoi amici, e, soprattutto, con quello che, a giudicare dal modo in cui se la stringe contro e la bacia sulle labbra, è il suo ragazzo. Alessandro si innamora - di lei, mica di lui, - in un istante, e decide che deve averla; se non adesso, prima o poi nella vita.
«Sii la mia Irene,» ride, ed è ubriaco abbastanza perché il pensiero di quella rossa - e di quello che quella rossa è per suo fratello, suo fratello, Luca; il pensiero di Luca, - non lo disturbi più di tanto.
Agguanta il primo tizio che, al suo tavolo, incrocia il suo sguardo, questo ragazzone grosso come un armadio e simpatico come un bambino, Alessandro ha l’impressione che si chiami Max, ma non ne è poi tanto sicuro.
Agguanta Max per un braccio e lo trascina in piedi, verso il tavolo di Lainie e dei suoi amici, di Lainie e il suo ragazzo.
«Dammi corda,» urla Alessandro nell’orecchio di Max, per tentare di sovrastare la voce di Bono sparata a tutto volume dagli altoparlanti, che canta qualcosa a proposito del nome dell’amore.
Max, che ci sente benissimo ma, poveraccio, l’italiano di certo non lo capisce, si mette a ridere, e annuisce comunque. Alessandro sorride, e insieme fanno volar via di mano ad un cameriere un vassoio carico di Cuba Libre, rhum e pera e Cosmopolitan, direttamente sul vestito di Lainie.
È un’idea del cazzo, ma è anche il piano perfetto, perché Alessandro accorre a chiedere scusa, in uno spaventoso ibrido di italiano, inglese e Faccia-Di-Culo, e lei finisce per dirgli il suo nome, lo prende in simpatia, e Max ride, scuote la testa; si mette a flirtare con un ragazzino attirato lì dal trambusto, e Alessandro gli fa un thumbs up della vittoria, mentre accompagna Lainie al bagno per tentare di salvarle l’acconciatura.
«Sono un genio a togliere le macchie, mia madre mi ha insegnato tutti i suoi segreti,» giura Alessandro, ed è una bugia fatta e finita ma non importa davvero, perché Lainie comunque non lo capisce, però ride piano, educatamente, ed è bellissima, e non lo prende a schiaffi - anche se probabilmente dovrebbe, - quando Alessandro, senza pensare, ubriaco e felice, la bacia.
«Are you insane?» chiede, un istante dopo, con gli occhi sgranati. Alessandro sorride, e poi è lei che lo bacia, e dovrebbe essere squallido, perché sono nel cesso di un pub e il vestito di Lainie è macchiato e appiccicoso di alcol e Coca Cola; dovrebbe essere terribile, perché lei ha sulle labbra ancora il sapore del suo ragazzo e Alessandro è in America in vacanza, Alessandro sa solo il suo nome e lei, di lui, neppure quello; dovrebbe essere sbagliato, ed è sbagliato, ingiusto, ma è magnifico e perfetto e aperto e umido ed è tutto quello che tutti i baci che Alessandro ha dato in vita sua non sono mai stati.
Lainie è bellissima, mentre lascia che Alessandro le sollevi l’orlo della gonna e sfiori in punta di dita l’interno caldo delle sue cosce. È un po’ troia, quando gli serra le braccia intorno al collo e inarca la schiena per premersi contro al suo tocco.
La sua bocca sa di un altro uomo - uno che non ha diciott’anni, che non ha gli occhi azzurri, che non adora Mario Kart e il kebab alle tre del mattino e che non dorme in un letto a castello, e Alessandro non riesce a pensare a niente di meglio.

*

Luca arriva a New York, che è come Milano, solo mille volte tanto. Non gli sembra nemmeno un posto reale, non gli sembra niente meno che inquadrature viste miliardi di volte al cinema, in fotografia e alla tele, con la piccolissima differenza che può camminarci dentro; gli sembra una scenografia di cartone immensa e colorata, con la stessa aria fredda e frizzante che c’è a casa certe volte, e il rumore del traffico è il brusio confuso degli insetti nascosti nei cespugli in campeggio.
New York è strana e fuori misura, troppo grande persino per i suoi occhi enormi, per la sua inesperienza, e Luca si perde, è confuso, è quasi spaventato e non capisce perché, perlomeno finché non trova il palazzo del cugino di Spazio, il piano giusto, la porta giusta, e bussa e bussa e sente bestemmiare in italiano, al di là della parete, e bussa di nuovo, e Alessandro inciampa in qualcosa, e poi apre.
Ed è lì, suo fratello, con addosso il pantalone grigio del pigiama e nient’altro, esattamente come a casa, ed è pallido e sciupato come ogni mattina dopo che s’è sbronzato, e lo guarda, a lungo, come se non riuscisse a metterlo a fuoco.
Luca lo guarda di rimando, e ci mette un secondo, però poi lo capisce con una chiarezza insostenibile che la cosa di cui ha avuto più paura nelle ultime quarantott’ore - dal momento in cui gli è venuta questa magnifica idea del cazzo, - è proprio Alessandro. Rivederlo, ritrovarselo davanti e dovergli, che ne so, parlare; anche solo, semplicemente, stargli di fronte.
Suo fratello pare senza parole, e allora Luca, in mezzo al terrore cieco e irrazionale che gli fa sprofondare lo stomaco al piano di sotto, si rende conto di avere questo sogghigno asimmetrico sulla faccia che vorrebbe tanto sciogliersi in un sorriso, ma lui non glielo permette.
«Ciao, bro,» dice, tirando un pochino le stringhe dello zaino, ed è l’unico segno di nervosismo che si concede di tradire. Alessandro lo guarda ancora un po’, da capo a piedi, per misurarlo, per rendersi conto, per convincersi.
Sbatte le palpebre, si piazza le mani sui fianchi.
«Che cazzo ci fai tu qua, bimbo?» chiede, e bimbo è l’unica cosa di cui Luca avesse bisogno; si mette a ridere, chiude quella distanza di mezzo passo che li divide e lo abbraccia, - forte, - strizzandolo più che può.
Alessandro resta fermo per un istante, poi Luca sistema la faccia contro l’incavo del suo collo ed è una sensazione troppo familiare perché le braccia di Alessandro possano resistere; si tirano su quasi spontaneamente, ed è, ancora una volta, un incastro perfetto.
«Cristo, Lu’,» soffia Alessandro, commosso dal profumo di suo fratello che gli si schianta addosso come un cazzotto. «Cristo.»
Luca ridacchia, dondolandosi come il cretino che è, e non lo ammetterà mai, però magari una mezza lacrima che gli pizzica gli occhi ce l’ha anche lui. Oh, è stata un’idea del cazzo.
Alessandro lo invita a entrare, gli sfila lo zaino dalle spalle e di punto in bianco non sono più tutti e due a New York, ma Luca ha otto anni ed è appena uscito da scuola e Alessandro lo aspetta sotto il solito albero, lo saluta, si prende la sua cartella mentre Luca incespica coi bottoni del grembiule.
Ridacchia, e quando guarda Alessandro e lo vede sorridere tra sé sa che stanno pensando entrambi la stessa cosa.
«Figo ’sto buco di posto,» dice Luca, gettando via il cappotto e dando un’occhiata all’appartamento; gli piace il celeste tenue delle pareti, sbiadito e scrostato un po’ ovunque, e gli piace l’arredamento improvvisato, il divano enorme dall’aria comodissima su cui con ogni probabilità finirà per dormire. Gli piace l’aria un po’ telefilmica, terribilmente americana del tutto, con i poster scoloriti di band degli anni Settanta e una lampada a stelo ridipinta di verde acido e sistemata accanto ad una cassettiera di antiquariato.
Alessandro si stringe nelle spalle, appoggia lo zaino su una poltrona sfondata.
«È ok,» dice, e Luca sorride.
«Ok? Bro, è figo. Ed è a New York. Non mi dire che non hai seriamente pensato di far fuori il cugino di Spazio e vivere qui per sempre,» ride, facendo il giro della penisola che separa il soggiorno dalla cucina. Alessandro scuote la testa, divertito, e si siede in cima ad uno sgabello, appoggiando i gomiti sul marmo.
«Fammi la colazione, ragazzino,» ordina, dal momento che Luca ha già tranquillamente ficcato la testa nel suo frigorifero. Lo sente ridere, e non sta affatto studiando la curva della sua schiena.
«È buono, ’sto latte?» domanda Luca, e tira fuori una tanica di plastica che a casa Alessandro avrebbe usato solo per la benzina, ma l’America è strana, si sa. Luca svita il tappo, annusa, ma non è mai stato capace di distinguere il latte andato a male solo dall’odore, per cui ne prende un sorso piccolo e incerto.
Lainie sceglie quell’istante per emergere dal corridoio, avvolta nel piumone di Alessandro, e Luca tossisce, sorpreso, arrossendo fino alla punta delle orecchie e per tutto il collo.
Alessandro non riesce a togliergli gli occhi di dosso.
«Oh,» dice Lainie, e si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Hi.»
«Uh, uhm, ehi,» balbetta Luca, e poi guarda Alessandro, inarcando le sopracciglia. Lui fa un sorriso modesto, di gran classe.
«Luca, lei è Lainie. Lainie, my baby brother, Luca,» li presenta, e il sorriso di lei è gentile, educato; Alessandro pensa alle cose che quella bocca ha detto e fatto, stanotte, sulla sua pelle, e gli viene da ridere.
«Hi, nice to meet you,» dice Lainie, con dolcezza; Luca boccheggia, sorride, annuisce. «I, uh, I’m gonna go get dressed.»
Lainie si ritira in camera, Alessandro fissa Luca che fissa lui, la tanica di latte ancora in mano.
«Allora?» chiede, tentando di non dare a vedere quanto è profondamente compiaciuto. «È buono o no?»
Luca avvampa, per qualche motivo, e poi gli tira addosso una mela di plastica, ridendo.
«’Fanculo, bro, come cazzo hai fatto? L’hai... l’hai minacciata di morte per convincerla a venire a letto con te, o cosa?»
Alessandro, a dispetto di tutto, si mette a ridere.
«Non dire sciocchezze, bimbo. È tutto talento,» sghignazza; la verità è che quel poco di talento, per certe cose, che c’è nella loro famiglia se l’è accaparrato Luca fino all’ultima briciola, ma non c’è alcun motivo di farglielo sapere.
«Sei proprio uno stronzo,» ride lui, perché è il suo modo di fare un complimento, e poi, siccome sono settimane che non si vedono e non si sentono, si mette davvero a fargli latte e cereali.
Alessandro lo guarda curiosare in tutti gli stipetti della cucina, alla ricerca di una tazza, prima, e poi di qualsiasi cosa non siano fagioli in scatola o confezioni di noodles precotti, e pensa, sono proprio un fratello di merda.
Ed è per quello, poi, - perché è un fratello di merda, per un’infinità di motivi, - che si tira su, fa il giro del bancone e va ad abbracciare Luca, a sorpresa, da dietro, pigiandoselo addosso e prendendo possesso dei suoi fianchi con le mani, e del suo collo con il viso.
Luca si rilassa subito nella sua stretta, sorride.
«Sei un fratello di merda, lo sai?»
Alessandro si tira un po’ indietro per baciargli la nuca.
«Lo so,» mormora. «Sono contento che tu invece sei solo pazzo,» e Luca ridacchia, ma non lo nega. D’altra parte, è volato a New York come se fosse dietro l’angolo, come se fosse normale, e si è presentato da lui senza uno straccio di preavviso, da solo, in America. Il suo fratellino.
Alessandro lo stringe più forte, e il fatto è che lui era venuto fin qui per dimenticarsi di quanto ci sta bene, Luca, tra le sue braccia. Lui era venuto fin qui per salvarsi la vita.

*

Ci sono cose che sono proprietà esclusiva di Hollywood, della finzione proiettata su schermo in una sala buia mentre la coppia seduta tre file dietro si dà da fare meno silenziosamente che può. Ci sono panorami, strade, scorci di palazzi e combinazioni di colori nel cielo che vanno bene solo nei film, e solo nei film le trovi; e la vita vera con i film non ha niente a che vedere, soprattutto quando sei il figlio di un operaio e di una maestra di Milano, soprattutto quando quell’operaio e quella maestra non sono nemmeno rimasti insieme per tutta la vita come s’erano promessi, soprattutto quando hai passato l’adolescenza rintanato in un angolo e il gatto era il tuo unico amico, e dieci anni dopo, pure se è tutto diverso, ti senti ancora quel ragazzino insicuro e fragile.
Cristo, su ’sta cosa dell’incompatibilità del mondo con le commedie romantiche Alessandro ci sta pure scrivendo una canzone - forse un giorno ce la farà pure a finirla, - però c’è questo tramonto bellissimo sopra New York, ora, che accende i grattacieli di una luce insolitamente calda e l’albero di Natale al Rockefeller Center è seriamente colossale, sembra davvero uscito un minuto fa da una favola, e Alessandro quasi si aspetta di vedere Ridge e Brooke pattinargli accanto con quei sorrisi fessi da pomeriggio pigro su Canale Cinque.
Il problema, però, è che aggrappato al suo braccio c’è Luca, infagottato in un assurdo cappotto col colletto peloso, Luca con gli occhi lucidi e il naso bruciato dal freddo, Luca che saprebbe mantere l’equilibrio su uno skateboard con una ruota sola ma su questi assurdi pattini proprio non ce la fa, Luca che continua a ridere e scivolare ed è sempre stato bellissimo, per carità, non c’è nulla di nuovo e nulla di diverso sulla sua faccia, ma Alessandro non riesce a smettere di guardarlo.
È a New York, è quasi Natale, ci manca solo che si metta a nevicare per coronare l’atmosfera irreale da film e, no, aspetta, ora sta pure nevicando, grazie, quello era decisamente un fiocco - e comunque, quello che ad Alessandro interessa più di tutto è suo fratello, e la curva contenta e screpolata delle sue labbra.

*

Alessandro guarda Luca sonnecchiare sul divano e la cosa più ovvia, la cosa più giusta, sarebbe andare in camera da letto e recuperare un lenzuolo, una coperta, e sistemargliela addosso.
Quello che ad Alessandro viene voglia di fare, invece, e quello che fa, alla fine, è sedersi accanto a lui e, piano piano, con tutta l’attenzione del mondo, far strisciare un braccio intorno alla sua schiena, e sbilanciarselo contro. Luca è abituato da anni ad essere spostato in giro mentre dorme, perciò non si sveglia, e si accoccola contro il suo fianco, spingendo il viso nell’incavo della sua spalla e allungando le gambe sul divano.
Alessandro gli accarezza i capelli, tracciando con le dita cerchi lenti e ampi e, di tanto in tanto, grattandolo dietro un orecchio. È sempre molto più facile, per lui, finire preda delle crisi di coscienza quando non ha Luca intorno; è più facile rendersi conto che forse è strano, forse è preoccupante, forse è sbagliato punto e basta, il modo in cui pensa a suo fratello - il fatto che pensi a suo fratello in un certo modo, - se Luca non è lì, caldo e sorridente e rompicoglioni e bellissimo al suo fianco. La sua vicinanza, la sua presenza gli otturano tutti i pensieri e si rubano tutta, tutta la sua attenzione.
Il fatto è che Alessandro non ricorda di aver mai provato niente di diverso, per Luca; niente che non fosse un bisogno soffocante di averlo per sé, di prenderlo per mano, di mordergli le labbra ed essere lì, per lui, con lui, sempre. Voleva solo proteggerlo, da bambino, e spaccare la faccia a chiunque osasse anche solo guardarlo un po’ più a lungo, e Luca in quel suo affetto protettivo e assoluto ci è cresciuto, è diventato l’unica cosa che avesse importanza.
Alessandro ricorda intere giornate di scuola, al liceo, passate a guardare fuori dalla finestra e a domandarsi se Luca fosse contento, se gli altri ragazzini lo trattavano bene, se magaripproprio in quel momento non gli stavano tirando qualche scherzo per cui lui gli avrebbe volentieri strappato le mani a morsi.
Alessandro ricorda intere giornate di nulla, a Milano, passate sul divano di Jad a fumare e mettere insieme rime e ricorda che non importava l’argomento, non è mai importato - la sua testa finiva sempre a pensare a Luca, sempre, sempre, con una puntualità disarmante, che stesse scrivendo d’amore o di rabbia o di ganja.
E adesso vive intere giornate di Luca, a New York, e ogni volta che si ferma a riflettere per un momento si rende conto che potrebbe essere pure la Norvegia, l’Islanda, Dio, potrebbe essere pure un deserto e sarebbe grandioso, magnifico, sarebbe perfetto comunque, perché il punto - il punto di questo viaggio, il punto della sua vita, il punto, - non è New York, non è nient’altro che Luca.
Alessandro non ha mai avuto niente di così importante, niente di così spaventosamente fondamentale; è sicuro, persino, che proprio non esista niente di così importante, neanche la musica, neanche l’odio, perché, comunque, è tutto colpa di Luca. Se s’incazza, se è felice, se s’innamora - Dio, se è venuto fino in America è colpa di Luca. Perché l’ha guardato andare all’orale della maturità con quel sorriso coglione e uno spino mezzo fumato nella tasca posteriore dei jeans, e l’ha visto conquistarsi la commissione intera con un sorriso e tre parole; perché lo sta guardando crescere, lo sente crescere, e la prima cosa che pensa, ogni volta, è che non vuole perderlo. E la seconda cosa che pensa è che, Dio, non è normale volerlo così.
È suo fratello, e deve lasciarlo andare. Deve guardarlo innamorarsi di qualcuno - qualcun altro,- magari di magari di un posto nel mondo che non sarà Milano, che non sarà vicino, che non sarà casa, e Alessandro dovrà lasciarlo andare; ma non ha idea nemmeno di come concepirla, una cosa del genere, perché Luca - benedizione e tormento, - Luca è suo e così dev’essere, così vuole che sia, e quindi ha deciso di scappare per primo. Se n’è andato a New York, ha chiuso fuori il pensiero di suo fratello per non dover restare a guardare suo fratello che chiudeva fuori lui, e, giustamente, suo fratello è venuto a cercarlo. È venuto a riprenderselo.
Non è mai stato meno che un rompicoglioni di prima classe, Luca, da quando neonato si rubava l’attenzione di tutti, e già allora gli bastava piantare in faccia ad Alessandro quegli occhioni azzurri adoranti perché suo fratello gli perdonasse qualsiasi cosa.
E adesso Luca dorme contro di lui, tranquillo come da bambino non ha mai fatto, e Alessandro non ce la fa più a far finta di non volerlo. È un’idea del cazzo, ma è l’unica, a parte la musica, che gli sia rimasta appiccicata alla pelle più a lungo di qualche ora; è un’idea del cazzo, ma è l’unica che abbia senso.
Si sporge quel poco che basta a sfiorare le sue labbra con le proprie in una carezza asciutta, breve, persino sciocca e incredibilmente pericolosa. Le ciglia di Luca tremano per un istante, e poi lui schiude un occhio, arriccia la punta del naso.
«Fammi dormire, pervertito,» mugola, tirandogli un pugno contro la spalla, però gli si arriccia addosso ancora un po’, e butta le gambe di traverso sopra le sue.
Alessandro ridacchia, e per cinque minuti lo lascia dormire, poi gli viene quest’altra idea del cazzo, e non riesce a resistere - lo rovescia giù dal divano, sul tappeto, buttandoglisi addosso per fargli il solletico. Luca si contorce e urla, già con le lacrime agli occhi dopo un istante, e finisce per ficcargli un gomito nel costato, mozzandogli il respiro, e Alessandro, mentre rotola via ridendo e ansimando, riesce a pensare solo che, sì, idea del cazzo ora e sempre, ma Dio, ne vale la pena.

A/N.
- La canzone da cui è tratto il titolo - e che è la stessa, poi, a cui faccio riferimento parlando di film, - è ‘Non è un film’ degli Articolo, inclusa nell’album ‘Domani Smetto’ (2002); la storia è ambientata nel Natale ’97, per cui l’accenno al pezzo è un po’ tirato per i capelli, ma mi piaceva, quindi shush XD

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