Titolo: Cold enough to burn
Fandom: Originale (Cow-T 2)
Personaggi/Pairing: Antonio/Michelangelo
Rating: NC17
Conteggio Parole: 3500 (
fidipu)
Avvertimenti: slash, angst, het, lemon, death
Prompt: estate @
Cow-T 2, come al solito su
maridichallenge.
- Bad ending @
Zodiaco!Challenge di
fiumidiparole.
Note: --
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.
~ Cold enough to burn.
Michelangelo siede sul bordo del tavolo, giocherella con un coltello a serramanico e dondola le gambe per aria, ma è alto abbastanza da strusciare le punte dei piedi per terra, se non fa attenzione.
Antonio fuma, un respiro più in là, buttato su una vecchia sedia semisfasciata come su un trono; è la prima sigaretta da mesi, e l’ultimo tiro è di Michelangelo.
*
È una di quelle estati che sono talmente tanto calde da sciogliere e far colar via dal cervello il ricordo, il concetto stesso di una stagione diversa. Antonio non è contento; Antonio sbuffa dalla mattina alla sera, e soprattutto, poi, sbuffa di notte, perché il caldo fa sudata e appiccicosa la pelle di tutte le femmine e lui, Cristo santo, persino lui ha dei limiti. Su certe cose. Alle volte.
L’unico momento di pace, di gloria, che gli concede il Grande Demone Celeste - Michelangelo ha riesumato quelle reliquie vergognose di vecchi fumetti giapponesi, Antonio era sicuro di averne bruciato l’ultimo volumetto anni fa e invece, guarda, non ci siamo, - è un momento brevissimo dopo che si è alzato il sole, ogni giorno; sono cinque minuti in cui per qualche ragione il pavimento della sua stanza diventa gelato, si fa di ghiaccio, e l’aria sopra e dentro di lui non è così torrida come in qualsiasi altro momento.
Antonio neanche sapeva che faccia avesse un’alba, prima che venisse questo caldo maledetto; adesso invece si tiene su a caffè sciapito e sangue di toro, o qualunque cosa sia quella roba rossa e densa e dolciastra che hanno sgraffignato ai Devils qualche settimana fa, succo di pomodoro e passato di reni che ha un odore rivoltante e delizioso a seconda del modo in cui l’annusi, e quando ti scende giù per la gola, poco più pesante dell’acqua, dopo un momento ti senti i muscoli vibrare di forza e abbatteresti un pilastro di cemento a testate anche se prima a stento ce la facevi a tenere su la testa. Antonio ne tira giù anche tre litri al giorno, crollando di quando in quando, dove gli capita, e per tutto il resto del tempo è sveglio e vigile e fa tutto quello che ci si aspetta che faccia, mentre pazientemente attende che arrivi quel suo momento di freddo, ogni giorno, dopo l’alba.
I ragazzi non si preoccupano, finché la sua mira quando spara rimane precisa, finché si ricorda a memoria tutti i turni di guardia, tutti i debiti riscossi e tutti i conti in sospeso, e tutto giusto. Forse solo Michelangelo lo guarda, un pochino perplesso, un pochino più attento, mentre si piega sul bancone della bisca, una notte, e invece che scolare quel che resta del gin tonic che Abed gli ha piazzato davanti Antonio ci sprofonda, dentro al bicchiere, col naso, e s’addormenta. Sogna, in un lampo di nebbia pallida dopo l’altro, il sorriso stronzo di Dimitri, le sue mani sottili attorno al calcio della semiautomatica che due sere fa gli ha puntato in mezzo agli occhi; sogna i suoi ragazzi bianchi come fiocchi di neve contro il profilo nero, umido e caldo dei palazzi. Sogna un oceano di ombre - e come le vedi, le ombre nel buio? Antonio le sogna comunque, e sono screziate di rosso, - e si risveglia di soprassalto, ancora appollaiato sul suo sgabello, Michelangelo, lì accanto, che infila una mano sotto la gonna di una ragazza.
Antonio ordina un altro gin tonic, Michelangelo di accorge che è tornato, gli fa un sorrisone cretino.
«Buongiorno,» dice; della ragazza s’è già dimenticato. Antonio si passa una mano sulla faccia, sospira forte fuori dai denti.
«Vaffanculo,» sbotta, la testa spaccata a metà da un’emicrania che non sa se sia lì per il caldo, per la sbronza, per il poco sonno, per il fatto che non va a correre da settimane. Potrebbe benissimo essere solo per la vicinanza di Michelangelo, comunque. «Veramente. Una volta ogni tanto, Michela’, va’ a farti fottere.»
«Oh, capo, rinfodera gli artigli,» ride Michelangelo, e gli dà una pacca in mezzo alle spalle; è ubriaco, però dorme, lui, quasi tutti i giorni, quasi regolarmente, Antonio certe volte lo guarda. «Non c’è bisogno di fare l’incazzoso, siamo tra amici, eh.»
Antonio sbuffa, il gin tonic gli precipita nello stomaco come se fosse fatto di piombo. Ha le vertigini, dovrebbe venir giù dallo sgabello, dovrebbe andare a controllare un miliardo di cose, là fuori in città. Potrebbero andare a giocare al tiro al bersaglio con gli Angeli, se solo non facesse così maledettamente caldo.
Michelangelo glielo legge in faccia, che sta pensando a qualcosa di stupido, che sta impazzendo, che se continua così manderà a puttane la tregua nel giro di giorni, altro che le settimane in cui sperano tutti. Non dice niente, ma neppure sposta quella mano calda e grande da dove la preme, contro la spina dorsale di Antonio. Pure attraverso la stoffa della canotta, sente sollevarsi il rilievo delle sue vertebre, e, ogni tanto, il guizzare morbido dei muscoli; pure attraverso la stoffa della canotta, Antonio sente addosso tutti i calli che rendono le sue dita le dita di Michelangelo.
*
Michelangelo dorme, stravaccato sul materasso come una stella marina molto magra e molto polverosa; dorme un debito di sonno lungo cent’anni, fermo com’è, tanto che pare non stia neppure respirando. È uno che scalcia, Michelangelo, sveglio o perso nel mondo dei sogni che sia, ed è strano vederlo così.
Antonio mastica una radice di liquirizia, sprofondato nella poltrona ai piedi del letto; è talmente distratto dall’eco flebile di spari che si alza dalla strada che non se ne accorge, che Michelangelo, lì, immobile come morto, è un monito, è un presagio.
*
«Caldo di merda,» brontola Miguel, e Antonio, che non dovrebbe essere dov’è eppure sta lì, tutto tranquillo, a masticare un pochino un cubetto di ghiaccio pescato dal fondo del suo bicchiere di tè, Antonio non può che assentire, e fa un cenno col capo, piccolo, quasi involontario. Miguel lo guarda, stringe gli occhi, stringe le labbra, probabilmente stringe pure il culo e a quel pensiero Antonio sogghigna.
«Caldo di merda,» annuisce, allora, e gira la cannuccia nel bicchiere, smuovendo le schegge di ghiaccio che a vista d’occhio si sciolgono nel liquido ambrato. Miguel sbuffa, si stiracchia; siede al sole, il coglione, e poi si lamenta della temperatura, e Antonio vorrebbe tirargli uno schiaffo ma è meglio di no. Neppure lo guarda, ma butta giù un altro sorso di tè, ficcandosi il cubetto di ghiaccio contro una guancia, rabbrividendo col cervello congelato dall’improvvisa sensazione di freddo sulle gengive.
«La prossima volta che siamo dalla ragazzina, ricordami di chiederle quand’è che arriva il cazzo di autunno.»
«Ah, fa pure le previsioni meteo, adesso?» domanda Antonio, sogghignando. Oggi è di buon umore, non è sicuro del perché; forse è che ha dormito, ieri, un po’ in più del solito - mezz’ora, tipo, invece che cinque minuti, e senza incubi da macelleria a tormentarlo, ma una visione confusa di seni turgidi e sodi tra le sue mani, e una bocca soffice contro la sua. Magnifico, sotto tutti i punti di vista.
Miguel scrolla le spalle - è grosso e dorato e bollente, la sua pelle luccica di sudore e sono quasi fradice persino le ciocche stoppose, lunghissime dei suoi capelli, - chiude gli occhi contro il riverbero cattivo della canicola.
Facendo tintinnare la tendina di perline colorate, Michelangelo viene fuori dal bar; è casa dei Devils, tutto questo intero quartiere e questo bar in particolare, e Antonio si è appropriato di un tavolino e di un ombrellone perché è Antonio e Miguel era seduto lì accanto, mentre Michelangelo non ha ragione di essere qui e di essere vivo, o di sorridere tra sé in quel modo, e infatti smette subito, colto alla sprovvista come un animale davanti a una pistola spianata, non appena si accorge di Antonio.
Antonio a malapena inarca un sopracciglio, ma la sua testa impigrita dal caldo sta già contando, sta misurando il corpo di Michelangelo per decidere la sua - la loro - sorte.
«Capo,» respira Michelangelo, e in un battito il suo sorriso scanzonato è di nuovo a posto; è rapido abbastanza perché Antonio, contro qualsiasi prudenza, contro qualsiasi logica, decida di essersela immaginata, quell’esitazione. Quel frullio di paura.
«Uè,» lo saluta, piuttosto, e spalanca le labbra attorno ad un sorso lungo e troppo generoso di tè ormai neanche tanto più freddo, che più che altro gli ruscella giù lungo il collo e sul petto. Ha su di sé gli occhi di Michelangelo, lo sa, più appiccicosi dell’acqua zuccherata che gli cola addosso; forse persino Miguel lo sta guardando, ma non si può mai dire, con quella coltre spessa di ciglia nere e arcuate che gli nascondono le iridi troppo scure.
Antonio sorride tra sé, tutto denti appuntiti e violentissima sicumera. Si tira in piedi, - le sue spalle sudate indulgono in uno schiocco volgare nello scollarsi dalla sedia di plastica, - inforca gli occhiali da sole, spinge in fuori i fianchi per sgranchirsi la schiena.
«Offre la casa,» mormora Miguel, accennando al mezzo litro di tè che Antonio ha prosciugato.
«Mi pare il minimo,» sogghigna lui, con una smorfia che dice caldo di merda, Devil di merda.
«Sparati a un piede, perdente,» saluta Miguel, senza perdere un battito. Antonio fa un mezzo inchino, si accorge che Michelangelo lo sta ancora fissando.
«Vamonos, baby,» gli dice, allora, e non gli sfugge l’imbarazzo che Michelangelo camuffa con una risata, ma per prenderlo in giro fa troppo caldo, Antonio è troppo vicino ad uno dei suoi troppi nemici, e solo Dio sa se di Miguel o di Michelangelo si tratta.
*
Michelangelo si piega sulle ginocchia per grattare dietro le orecchie Diego, il collie vecchio e bisbetico che non si fa toccare da nessuno tranne che da lui.
Antonio, un passo indietro, lo guarda, li guarda, e si convince che un cane non amerebbe mai un traditore figlio di puttana, per cui dev’essere lui che si sbaglia. Solo che non si sbaglia. Solo che non ci vuole pensare.
*
C’è una ragazza, c’era una ragazza, Antonio ne è piuttosto sicuro, ma l’intruglio carminio dei Devils ha giocato a palla coi suoi sensi pure altre volte per cui la ragazza c’è, c’era, ma forse no, anche se le dita di Antonio sono ancora arricciate come attorno a dei fianchi larghi, rotondi. C’era una ragazza.
«Dove... cosa...?» biascica Antonio, la lingua gonfia dentro la bocca e un sapore come se ci stesse crescendo dentro qualcosa, o qualcosa ci fosse morto, non riesce a decidere; è normale, è la sua nuova normalità da che il caldo ha cominciato a regnare sulla città più che le loro quattro bande di azzuffoni, e Antonio allunga una mano a cercare la bottiglia di vodka che tiene sul comodino. I suoi movimenti sono goffi, come quelli di un annegato gonfio di acqua - l’acqua del fiume che diventa un po’ più rosso dopo che Michelangelo ci è piovuto dentro, col suo sangue e due pallottole di troppo e il nome di Antonio soffocato in gola ma non è ancora successo, non è ancora successo, non è ancora successo, - e la bottiglia finisce sul pavimento. Non s’infrange, ma rotola via come impazzita, e Antonio geme, l’incazzatura che comincia a svegliarglisi dentro lo stomaco.
Si preme i palmi delle mani contro gli occhi, tenta di rimettere insieme i pezzi. C’era una ragazza. Bionda. L’ennesima. Non ne ricorda il viso, ma non è strano. Antonio fa fatica a riconoscere il proprio riflesso allo specchio, oramai.
C’era una ragazza e lui era ubriaco e, oh, c’era da tagliare la roba e distribuirla ai sorci. Giusto. Cazzo.
Antonio si tira su a sedere sul letto, l’emicrania che gli lacera il cranio e le retine e i timpani e tutto quello che ha, nella testa, tra un osso e un altro. Se ne accorge, finalmente, che nel bagno là accanto c’è dell’acqua che scorre, la doccia. Sbuffa, grugnisce, si leva tutti i vestiti che ha addosso - caldo, caldo, fa caldo, è il fottutissimo primo pomeriggio e fa un caldo tale che l’aria è densa come miele e se la pelle non brucia è solo perché è troppo umido per una fiamma qualsiasi, pure solo quella per fare il caffè, - e si trascina fino al cesso, è contento, in una certa misura, di vedere sotto la doccia le curve vertiginose di una ragazza, della ragazza.
È rossa di capelli, però, si rende conto Antonio non appena tira via la tendina - lei sobbalza e dà uno strillo sorpreso, che si smorza in un sorriso malizioso non appena si accorge che si tratta di lui, e che non è armato se non di una voglia che si sta risvegliando pigra in mezzo alle sue gambe, - e completamente liscia là sotto, ma non è importante e, ancora, diventa un dettaglio risibile nell’istante in cui lui stringe i suoi seni tra le mani e li trova perfetti.
«Ciao,» mugugna contro la pelle profumata del suo collo, e lei ride, deliziata, indietreggia per dividere con lui il getto freddo e salvifico d’acqua; Antonio non sa se gli venga più duro per quello o per il modo in cui lei si strofina, discreta e smaliziata al tempo stesso, contro di lui.
«Pensavo avessi tirato le cuoia,» mormora la ragazza, infilando le mani tra i suoi capelli umidi e spingendoli in su per quanto le riesce, corti e ispidi come sono. Antonio non trattiene un sorriso, mentre in punta di dita percorre la curva sensuale della sua schiena, il profilo sodo delle natiche; è delicato, quasi, perché si è appena svegliato e ha troppo male di vivere per voler sbattere naso e gengive e denti contro alla realtà, vuole prendersela con calma. Forse è delicato, quasi, solo quando si è appena svegliato.
«Sono piuttosto sicuro che finché uno respira, allora vuol dire che è vivo,» replica, ma si lascia distrarre da un bacio e poi il suo medio preme contro l’umidità generosa della ragazza, già bagnata per la doccia e chissà quanto per la voglia di lui. Antonio la penetra con due dita, è contento di ascoltarla gemere e poi gemere più forte quando col pollice le strofina il pube, piano piano, spingendo la pelle all’indietro ogni volta che affonda dentro di lei.
La ragazza sospira il suo nome, cerca la sua bocca per un bacio famelico e affannato e poi Antonio la spinge contro il muro, la solleva contro di sé, e con un’unica spinta, fluida e probabilmente troppo brusca - non che gl’importi, - rimpiazza le due dita col proprio sesso. Lei trattiene il fiato, per un attimo sembra che non riesca a ritrovare il respiro e Antonio, ancora perché s’è appena svegliato, si preoccupa di fermarsi finché non la sente rilassarsi e premere il bacino in giù contro di lui. Le si preme addosso, allora, affondando e ritraendosi con metodicità e un ritmo febbrile al quale non resistono a lungo, né lui e né lei.
Dopo, la ragazza si annoda i capelli lunghissimi in una coda disordinata e fradicia, e lo lascia da solo sotto la doccia. Antonio, ancora intontito dall’orgasmo, appoggia la fronte alle piastrelle e rimane lì finché Lucky non viene a cercarlo.
«Dai, capo, che tra un po’ ci arriva la consegna,» raspa, con quella voce rauca di ruggine che ha da quando Jake in persona si è preso il disturbo di accoltellarlo alla gola. Michelangelo gli ha salvato la vita, quel giorno, Antonio ha ricordi distratti delle sue mani inzuppate di sangue premute contro il collo aperto di Lucky, che però ancora lo chiamavano Vittorio, allora, perché ancora non era sfuggito così palesemente di culo alla morte.
Antonio scavalca il bordo della vasca, chiude l’acqua, sgocciola sul pavimento fino al lavandino e, no, il tizio che lo guarda dallo specchio gli pare ancora un estraneo. Lucky tira un calcio alla porta ed entra, Antonio fa in tempo a vedere giusto un lampo della sua espressione preoccupata - sopracciglia piegate all’ingiù e bocca tesa in una linea nervosa e sottile, - prima che Lucky si accorga che, sì, sta bene ed è nudo come un verme e, di conseguenza, si copra la faccia con entrambe le mani.
«Cazzo, capo!» sbuffa, imbarazzato, e Antonio ride, si piazza le mani sui fianchi e li ondeggia a casaccio, sventolando oscenamente l’Antonio Minor.
«Che c’è, vedi qualcosa di nuovo?» lo prende in giro, e Lucky gli volta le spalle, offeso.
«Capoooo!» si lagna, e sbatte per terra un piede, nervoso. Antonio scuote la testa, si strofina una mano tra i capelli bagnati, scrollandone via una pioggia di gocce d’acqua.
«Andiamo, va’. Mi vesto e andiamo.»
Sta già ricominciando a sudare.
*
Michelangelo è caldo come di una febbre esiziale, ma non sta crepando e non è altro che quest’estate di merda a farlo scottare così, e forse pure il fatto che, se abbassa i fianchi di un soffio, tocca quelli di Antonio.
Antonio ha un braccio piegato sugli occhi, è stanchissimo, ma non è un cretino e si accorge dell’ombra che gli pesa addosso, se non altro perché Michelangelo gli fa un caldo pazzesco, impossibile, quasi tossico.
«Che vuoi, Michela’?» mugugna, il suo respiro che s’infrange contro il collo sudato di Michelangelo, che non risponde, ma cala su di lui ancora un poco, e Antonio inarca la schiena, senza una ragione precisa.
Michelangelo preme il naso sotto l’orecchio di Antonio, tocca il suo bassoventre col proprio. Antonio solleva il braccio che non gli copre il viso, preme la mano contro la sua nuca e lo tira su, lo guarda da sotto le ciglia.
«Che vuoi?» chiede, di nuovo.
Gli occhi verdi di Michelangelo catturano la poca luce che gocciola nella stanza attraverso la persiana serrata, screziandosi di un azzurro lievissimo e d’oro; Antonio dovrebbe pensare a un serpente e invece no, pensa a Michelangelo e basta. Pensa alla faccia di Michelangelo, che pure nella penombra, nella stanchezza suprema, pure con gli occhi arrossati dalla veglia perpetua e dal caldo gli è familiare come quella di un fratello. Pensa, vede le sue labbra strette, la sua guancia destra insolitamente gonfia.
Michelangelo sorride, schiude la bocca e, sulla punta della sua lingua, c’è un cubetto di ghiaccio semidisciolto. Antonio aggrotta le sopracciglia, ma non fa in tempo a chiedere nulla che Michelangelo lo sta baciando, le labbra divinamente fresche e i fianchi pigiati in giù.
Antonio è imbambolato dal freddo, e spinge la lingua dentro la bocca di Michelangelo quasi di prepotenza, cercando disperatamente il ricciolo di ghiaccio e carezzandolo ovunque; Michelangelo, Dio Cristo, riesce a nasconderglielo continuamente e Antonio è costretto ad afferrarlo per la nuca e ribaltarlo sul materasso stretto, aggredendogli la bocca. Michelangelo ride, quando Antonio, soddisfatto del sassolino gelato che gli ha sottratto, lo lascia libero di respirare.
«Ne ho ancora, capo,» mormora, guardandolo da sotto le ciglia, e Antonio è un po’ ipnotizzato dai suoi occhi, per cui non si accorge della sua mano che scivola oltre il bordo del materasso e pesca qualcosa - un altro cubetto, scivoloso e grosso, che Michelangelo stringe tra due dita e con cui gli sfiora, per un attimo, la punta del naso.
Antonio reagisce in fretta, ma non abbastanza, e quando scatta col mento all’insù, la sua bocca spalancata non trova che aria, perché Michelangelo ha già ritirato la mano, e si spinge il cubetto di ghiaccio tra le labbra, guardandolo fisso in faccia. Antonio dà un ringhio minaccioso, si spinge contro di lui e gli morde la bocca prima di baciarlo ancora di prepotenza.
Le dita fredde di Michelangelo gli accarezzano il collo e poi il petto nudo, e Antonio si ritrae un istante dal bacio per sibilare, incazzato, quando i suoi polpastrelli si fermano troppo a lungo a stuzzicargli un capezzolo; Michelangelo sorride, furbo, e mentre allunga il collo per baciarlo ancora precipita a toccarlo tra le gambe, sopra la stoffa sottile dei boxer.
«Michela’,» mormora Antonio, e poi una mano di Michelangelo svanisce, l’altra gli sfila le mutande; Antonio non ce l’ha mai avuta, la forza di negarglisi, per il caldo e perché è Michelangelo e perché fa caldo, quindi si spinge contro il suo tocco, chiude gli occhi, lo bacia.
È facile pensare che sia una ragazza, ma è ancora più facile non doverlo fare e accontentarsi del fatto che è Michelangelo, Michelangelo, caldissimo ovunque e freddo sulle labbra sotto di lui; è facile lasciar marcire i sospetti e la certezza del tradimento, le coincidenze e i morti e i soldi persi, le risposte che troverebbe incastrate solo sotto la pelle di Michelangelo, ed è facile, semplicemente, arrendersi alle carezze della sua lingua.
Un po’ meno facile diventa andare incontro alle sue dita, quando la seconda mano si arrampica sui fianchi di Antonio e la sua pelle è gelida contro quella accaldata, sudata ininterrottamente da un mese di Antonio; Michelangelo però non lo lascia scappare, e Antonio può soltanto mordergli le labbra per sfogare il fastidio - neanche troppo sincero.
*
Michelangelo è pallido e la luce dei lampioni, scolorita dal caldo, disegna sul suo viso ombre oleose; schiude le labbra, e Antonio se lo vuole ricordare con un cubetto di ghiaccio sulla lingua, non una bugia qualsiasi, per cui gli spara, due volte, e Michelangelo non è che può parlare più.
Antonio lo guarda cadere. Sente freddo, come fosse mattina.