[RPF] And I've been hanging on the phone

Jan 08, 2012 20:48

Titolo: And I've been hanging on the phone
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Daniele De Rossi/Marco Borriello
Rating: R
Conteggio Parole: 2266 (fidipu)
Avvertimenti: angst, sesso telefonico, linguaggio
Prompt: 8. Qualcosa di triste @ Kyalendario (♥ el_defe)
- #01 - If the world should turn its back, you know that I'm still here @ diecielode. [tabella]
- "Questa voglia di non lasciarsi è difficile da giudicare, non si sa se è cosa vecchia o se fa piacere" Gaber, Il dilemma @ p0rnfest #5 di fanfic_italia.
Note: Sborri, je t'aime. #sobs Daniele, sì, skworicino anche te, vièqqua.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ And I've been hanging on the phone.

Daniele non è a lutto, e non è preoccupato, e non è a tanto così dal buttarsi sotto un tram, grazie tante, non importa quanto Francesco sia convinto del contrario. Non è la prima volta che vede un amico fare le valigie e andarsene da Roma mentre lui rimane lì, un po’ incastrato, non è la prima volta che qualcuno lo lascia indietro, non è la prima volta, e se quando succede resta sempre in silenzio non è perché non sappia cosa dire, ma perché è piuttosto sicuro che non ci sia niente di bello da dire, niente che abbia significato. Le cose finiscono, e a lui sta bene mettersi un po’ in disparte a guardarle passare.
Con Marco non è diverso. No, veramente. Daniele non è a lutto, e non è preoccupato, e non è a tanto così dal buttarsi sotto un tram. E se se lo ripete ancora un centinaio di volte, magari diventa pure vero.
Sono dieci minuti che fissa il telefono, imbronciato, e non si decide a chiamare. È già molto tardi, perché dopo la partita sono andati a festeggiare e Francesco ha preteso che lui rimanesse fino all’ultimo, praticamente Daniele è quello che ha tirato giù la serranda della trattoria, però Marco non giocava, non è neanche a Lecce, probabilmente, quindi non c’è pericolo di disturbare un compagno di stanza - disturberà solo lui, semmai.
Daniele vuole davvero tanto parlare con Marco, e per questo un po’ si odia. Non sa più quanta gente se n’è uscita dalla sua vita senza neppure guardarsi indietro, le facce che ha visto riempire gli spogliatoi nel corso degli anni sono troppe perché se le ricordi, e con nessuno - con nessun amico, con nessun compagno, con nessuna donna - ha mai voluto parlare di nuovo, e così presto.
Forse il problema è che Marco non l’ha per niente lasciato; forse il problema è che, per esempio, Tamara a Daniele l’ha preso a calci, ma Marco - Marco gli pare che sia ancora lì a premergli un bacio contro l’angolo della bocca. Daniele è bravo a gestire i buchi che lasciano le persone quando lo abbandonano, ha imparato; Marco adesso è a Torino, e della Juve, ma non ha nessuna intenzione di andarsene e Daniele non è capace di averlo e non averlo. Si incazza, ogni volta che finisce a pensare a lui - e quindi in continuazione, - perché Marco non c’è, adesso è tutto diverso eppure per lui non è cambiato niente, non vuole cambiare niente.
Per cui, Francesco ha ragione. Daniele è a lutto, perché lo rivuole; è preoccupato, perché alzare lo sguardo non basta a controllare che Marco sia contento e stia bene; è a tanto così dal buttarsi sotto a un tram, perché, andiamo, ha quasi trent’anni ed è più emotivamente incontrollabile di un ragazzino.
E comunque non si decide a chiamare.
Alla fine sbuffa, non ce la fa più a sentirsi ridicolo e getta via il cellulare, si alza, se ne va in cucina a farsi un tè. Torna in camera da letto dopo un minuto, e il numero di Marco lo sa a memoria. Tre squilli e mezzo, e poi il telefono ammutolisce. Daniele lo guarda, perplesso; Marco ha rifiutato la chiamata.
Oh, beh, questo rende tutto più semplice. Daniele chiude gli occhi, quasi sorride, perché adesso va bene, adesso ce la fa, adesso può guarire.
Solo che poi il cellulare si mette a trillare, ed è Marco. Daniele sbuffa, contento, anche se sa che non dovrebbe, e risponde.
«Oh,» bofonchia, accarezzandosi il lato del collo con la mano libera.
«Ehi, Dani. Scusa per prima, tasto sbagliato,» mugola Marco, dall’altro lato della telefonata, e Daniele si rende conto che stava dormendo; il cuore gli si stringe un po’, non vuole sapere perché.
«T’ho svegliato?» domanda, stupidamente, e Marco ridacchia.
«Un pochino,» dice, ma non è irritato, al contrario, sembra contento di sentirlo. Niente di nuovo. Daniele lo immagina acciambellato sotto un piumone, magari solo coi pantaloni perché quando mai Marco è riuscito a tenersi addosso una maglietta più dello stretto necessario, e, d’accordo, voleva guarire, lui, andare oltre, e adesso non ha più idea neanche di dov’è che si trova - sa solo che non è a Torino, che non è a letto con Marco, e che non va bene. Che gli manca. Che, d’accordo, è un cretino.
«Scusa,» mormora, sovrappensiero. Marco ride di nuovo, e a Daniele, per riflesso, sfugge un sorriso.
«Stai tranquillo, non mi disturbi. Piuttosto, com’è che avete già finito di festeggiare?»
Daniele getta un’occhiata alla radiosveglia sul comodino, fa una smorfia.
«Marco, so’ ’e tre,» dice, un po’ divertito. «Vabbè che ’r mister stava contento, ma non esageriamo.»
«Sono le tre?» ripete Marco, e Daniele si morde le labbra - stava proprio dormendo, e l’ha proprio disturbato. «Uh. Mi sa che mi sono addormentato.»
«Maddai,» ridacchia Daniele, e gioca, distratto, con lo strappo sfilacciato sul ginocchio del proprio jeans. «Senti, ma quindi c’hai guardati gioca’?»
«Hmmnghl,» Marco mugola, e dai rumori di sottofondo Daniele capisce che dev’essersi rigirato tra le coperte. Si allarga con due dita il colletto del maglioncino, allora, e ci sono un milione di cose di cui potrebbe parlare, perciò, chiaramente, nomina l’unica di cui vorrebbe potersi dimenticare.
«E la Juve?» chiede; geniale. Marco, comunque, ride.
«Ho visto anche loro, un po’ e un po’, sai, per contratto,» dice, e non sembra arrabbiato, o triste, solo leggero, e ancora tanto, troppo felice che Daniele l’abbia telefonato.
Daniele si passa una mano sulla faccia.
«Mi dispiace,» dice. Perché a un certo punto, durante la cena, Bojan, che stava smanettando con quel cellulare da cui nessuno al mondo riuscirà mai a separarlo, ha dato un grido strozzato d’indignazione, e il telefono ha rapidamente fatto il giro del tavolo e Borriello mercenario senza onore e dignità è una cosa che Daniele si sognerà per il resto dei suoi giorni. Hanno detto peste e corna di quella categoria lì di tifosi, d’accordo, ma comunque lo striscione era lì ed era per Marco, e Daniele si sente male se solo ci ripensa, e si sente anche peggio quando si accorge di sentirsi male.
Insomma, è un casino che non sarebbe mai successo se solo Marco fosse rimasto - se fosse stato contento di poter rimanere nella sua bella casetta romana a lavar calzini e non essere convocato. Eh.
«Ti dispiace per cos-- oh, Dani,» sbuffa Marco, con dolcezza, e Daniele respira un po’ meglio, ora, perché Marco è sereno e dolce e tranquillo e quindi va bene, è ancora Marco. «Dani, non farti il sangue amaro per una stronzata così, dai.»
«Non è una stronzata,» sbotta Daniele, testardo, perché magari a Marco non importa ma lui è fatto diversamente, lui è uno che s’incazza se i milanisti si permettono di fischiarlo, e invece Marco dà loro le spalle e applaude i suoi.
Marco ridacchia, e Daniele pensa che gli pare passata una vita dall’ultima volta che l’ha visto seriamente furioso, a parte qualche scenata in partita che non conta davvero.
S’incazzava così tanto, Marco, all’inizio; s’incazzava con Daniele e con Francesco e con l’erba del campo e con se stesso e con un sacco di cose, s’incazzava ed era petulante e sciorinava critiche come caramelle e si scornava continuamente con Daniele, finché non ha capito che Daniele gli dava addosso perché era divorato allo stesso modo dalla voglia di prenderlo a ceffoni e di baciarlo; s’incazzava, esagerava, lui e i venticinquemila gol e tutte le cazzate, ma era perché gl’importava - gli importava della maglia, della Roma, gli importava di Daniele.
Di Daniele gli importa ancora, e forse pure della Roma, un pochino, ma dei cretini no, non ha tempo né voglia di farsi pesare sulla schiena l’odio di chi non lo vuole capire. Con Luis Enrique non s’è mai lamentato, neanche una volta, mentre chiunque s’aspettava che desse di matto già il pomeriggio del primo giorno, e ha continuato a sorridere ogni volta che il mister gli ha preferito Bojan o Fabio o lo scopino del cesso, e Daniele pensa che sia giusto, allora, che non s’incazzi neanche per quello striscione, per quell’insulto; è giusto ed è Marco, davvero, a Marco non importa.
A Daniele sì, comunque, perché è Marco; quindi si acciglia, si preme il pollice sulla radice del naso.
«Non è una stronzata,» insiste, e Marco, ne è sicuro, sta sorridendo.
«Dani,» dice, «lo sai che non mi interessa. Cambieranno idea, e se non la cambiano, pazienza, sei mesi non sono tanti. Però non ci credo che veramente vuoi parlare di questo,» soffia, pianissimo; Daniele deglutisce, si agita un po’.
«E di che devo voler parla’?» chiede, sottovoce. Gli basta sentire il respiro appena appena più pesante di Marco perché gli vengano almeno una mezza dozzina di idee.
«Non lo so. Dimmi che hai addosso, per esempio,» dice Marco, e Daniele chiude gli occhi, immagina la curva invitante del suo sorriso, rabbrividisce.
«Che c’ho addosso...» brontola, distratto, imbarazzato. «’Na maglia, no, un... maglioncino, cioè. E il pantalone-- il jeans.»
«Quello con lo strappo sul ginocchio?» chiede Marco, e Daniele ha smesso di stupirsi da un pezzo di certe cose.
«Eh,» conferma, e, quando Marco fa un verso contento, lui quasi sovrappensiero segue con un dito la cucitura del jeans, dal ginocchio maledetto alla coscia, e poi si sfiora tra le gambe. La velocità con cui Marco riesce a farglielo venire duro è un’altra delle cose che ormai non lo sorprendono più. «Marco.»
«Dani?»
Daniele arrossisce, perché Marco non è che parla, quando è eccitato - miagola, lui, o geme, e in tutt’e due i casi la sua voce si riduce ad un suono oscenamente basso e morbido, che si conficca splendidamente nel petto di Daniele e gli schiaccia i polmoni.
«Tu, addosso che c’hai?»
Marco ridacchia, e poi Daniele lo sente dare un sospiro piccolissimo e si morde le labbra, a disagio, perché si sta accarezzando da sopra il jeans e non è neanche lontanamente paragonabile al ricordo un po’ sbiadito che ha del corpo di Marco premuto contro il suo. Non è passata neppure una settimana, e già fa fatica a ricordare l’esatta morbidezza della sua pelle.
«Secondo me lo sai,» mormora Marco, canzonandolo un po’. Daniele chiude gli occhi, respira più a fondo che può.
«Sei, uh. Sei nudo?» gracchia, e Dio solo sa come ha trovato il coraggio di dirlo, veramente. Il braccio che regge il cellulare comincia a fargli male, e Daniele si lascia cadere all’indietro sul letto, fissa il soffitto.
Marco ha riso di nuovo, intanto, dalla gola più che dalle labbra, e poi Daniele sente un fruscio, uno sbuffo e un altro fruscio, e, ok, è ora di tirare giù i jeans.
«Adesso sì,» dice Marco, dopo un momento, e Daniele, Daniele se lo immagina, bello, no, bellissimo, rilassato sotto le coperte e con le gambe un po’ dischiuse e una mano che vaga distrattamente su e giù lungo il petto, dallo sterno all’ombelico e poi esita, sfiora il contorno di un fianco e risale a torturare un capezzolo; Daniele immagina di essere lì, no, di averlo in casa propria, accanto a sé. Immagina di baciarlo, e di baciargli il profilo degli addominali, immagina di sfiorare con la lingua la sua erezione - lo farebbe; non l’ha mai fatto, ma lo farebbe, adesso che sa cosa vuol dire pensare a Marco e saperlo di una squadra diversa, di una squadra sbagliata; lo farebbe.
Daniele immagina di sollevargli le gambe, stringendolo all’interno delle ginocchia, e di guardarlo sorridere un po’; lo immagina che si morde le labbra, lo immagina che geme. Lo sente gemere, poi, e allora la sua fantasia si spezza e adesso pensa a Marco che si tocca, Marco che inarca i fianchi per andare incontro alla propria mano e che perde il controllo, Marco che tenta di frenare il proprio orgasmo per bisbigliare a Daniele - lontano, lontano, troppo lontano, - il suo piacere ancora per un momento.
«Marco,» chiama, e quando Marco geme più forte Daniele si toglie i jeans e le mutande con uno scatto quasi febbrile, e preme il viso contro il cellulare, per sentire meglio, mentre si serra nel pugno e fa finta che sia la bocca, le cosce di Marco.
«Dani, io--» La voce di Marco si spezza, e Daniele vuole sentire il suo respiro sulla pelle, vuole toccarlo, vuole vederlo; può solo pensarci, e ricordarselo con tanta forza che per un secondo gli pare di averlo accanto davvero, ma è una stronzata e lo sa e però Marco dà un gemito più forte e più aperto e più umido e non è male neppure così, forse, più o meno, se non c’è proprio niente di meglio.
Daniele spinge i fianchi all’insù, stringe gli occhi e ad ogni secondo si abbandona di più contro il cellulare, contro la voce di Marco. Digrigna i denti, ringhia, Marco ride, senza fiato, e alla fine Daniele s’arrende e viene singhiozzando il suo nome, ed è abbastanza perché anche Marco si sciolga, un momento più tardi.
Daniele guarda il soffitto, le palpebre pesanti sugli occhi, e non lo vede davvero; si accorge di stare stringendo il telefono quasi convulsamente, e allenta la presa, vergognandosi come un ladro. Marco, a Torino, ha ancora il fiato corto, ma riesce ugualmente a dare una mezza risata. Daniele è sicuro che si stia mordicchiando le labbra, e gli viene voglia di morire per quanto vuole baciarlo.
«Mi manchi, Dani,» dice Marco, tentando di fingere che non sia importante, che non sia la cosa più importante che Daniele si sia sentito dire negli ultimi sette giorni, sette anni, sette secoli.
«Maddai,» sorride lui, quando si fida abbastanza della propria voce. «N’s’era mica capito, sai.»
«Oh, vafammocc’,» ride Marco, e Daniele sorride. Tempo mezz’ora e sarà di nuovo a lutto, sarà di nuovo preoccupato, sarà di nuovo a tanto così dal buttarsi sotto un tram, ma per ora Marco ride, perciò lui sorride.



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