Titolo: The ultimate defense is to pretend
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Daniele De Rossi/Marco Borriello, Marco Borriello/Claudio Marchisio, hints Claudio Marchisio/Alex Del Piero; comparsata telefonica di Riccardo Montolivo (con conseguente Daniele/Riccardo, ne dubitavate pure?)
Rating: NC17
Conteggio Parole: 11859 (
fidipu)
Avvertimenti: future!fic (Liverpool!verse), what if?, slash, angst, lemon, linguaggio
Note: Sebbene sia perfettamente comprensibile anche da sola, questa fic è complementare a
quest'altra qui. Magari non ve ne frega minimamente, ma io mi sono divertita come una pazza a ficcarci eastereggs e riferimenti incrociati peggio che l'Iliade, LOL.
- Ancora una volta, grazie a
el_defe che si è fatto carico di giftarmi, anche qui con
un fanmix che, boh, #FEELINGS, sta pian piano diventando la mia soundtrack ufficiale per i due pairing di questa storia - o forse dovrei dire della mia vitasdsfhdjfhkflsh.
- Io ormai dò praticamente per scontato che sappiate già tutti che tutto quello che scrivo su uno qualsiasi di questi tipi è pensato per, dedicato a, vigliaccamente scaricato sulle spalle di
perlinha,
brahurricane,
shizu9,
sanzina89 e, per diritto matrimoniale,
innocence8. ♥
- La cosa divertente di questa fic è che, cronologicamente, è la seconda DDRRLL che ho scritto in assoluto, e la prima così sostanziosa. Non dico che tutto quello che ho blaterato dopo presupponga questa (anche perché non è assolutamente vero, succede roba, qui, che nel resto delle fic la gente manco si sogna 8D), però boh, ammetterò che si è portata via un pezzo di headcanon. E comunque trolololo niente, amo un sacco il riassunto, per cui ve lo puccio.
Riassunto: Marco decide di far visita a Claudio, che sta consumandosi in prestito al Liverpool, e Daniele, in virtù della sua nobiltà d'animo, decide di accompagnarlo. Daniele si riscopre geloso, Marco pure, e probabilmente nel loro rapporto ci sono un paio di dettagli da rivedere, e insomma, you'll never walk alone non è che un modo come un altro per dire che le disgrazie non vengono mai da sole.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.
~ The ultimate defense is to pretend.
La camera d’albergo non è pessima come Daniele si aspettava, ma Daniele si aspetta sempre cose tremende dalle camere d’albergo, - tipo tubature spaccate che fanno capolino attraverso i muri e ti sgocciolano sul naso durante la notte, insettoni disgustosi a riposo nella vasca da bagno, mobili scheggiati e contorti vecchi di secoli e pieni di ossa umane, buchi nei pavimenti e assassini senza scrupoli attentamente nascosti dentro gli armadi e dietro le tende, - per cui non è che il suo parere abbia davvero grande importanza. Marco sembra soddisfatto, però, o perlomeno quando si butta sul letto ha quell’espressione lì di suprema beatitudine e inconfondibile autocompiacimento che mette su solo quando è davvero contento di qualcosa che ha fatto o detto comprato o prenotato per il week-end - e cioè incredibilmente spesso, d’accordo, ma è principalmente per questo che Daniele è in grado di riconoscerla, quella faccia, ecco, - quindi va tutto bene.
Va tutto bene, e Daniele porta dentro le valigie, le abbandona un po’ sommariamente in un angolo ed è persino un pochino contento.
«Forse non è stata proprio un’idea di merda, venire fin qua,» concede, con un sorriso sbilenco. Va a spalancare le spesse tende chiare tirate davanti alla finestra, nessun serial killer armato di coltellaccio per il pane tenta di fargli la pelle, ed è costretto ad ammettere che neppure la vista è tanto male, anche se la città oltre il vetro è talmente grigia che lui quasi si vergogna della maglietta giallo canarino che ha addosso. Una vocetta stridula nella sua testa gli suggerisce che magari sarebbe anche il caso che se ne vergognasse comunque, a prescindere dall’ambiente che lo circonda, ma Daniele la zittisce con malagrazia, perché la maglietta è un regalo di Gaia e quindi assolutamente perfetta, non c’è obiezione che tenga. «Hai già pensato se vuoi fa’ quarcosa?»
Si volta a guardare Marco, e lo vede strisciare con immensa fatica sul materasso fino a seppellire la testa nel cuscino con tanta convinzione che potrebbe soffocarcisi. Daniele probabilmente non riuscirebbe a sentirsi dispiaciuto, se succedesse.
«Hmmmnghflblfh,» gli risponde Marco, comunque, molto prontamente, e a Daniele sfugge una risata perché oggi si sente un po’ allegro, di certo non perché il cretino buttato sul letto dietro di lui gli fa sempre una tenerezza che proprio non può spiegarsi. Marco ha addosso un jeans così stretto che potrebbe essere un tatuaggio, e una camicia bianca a maniche corte con un bruttissimo dragone ricamato in rosso sulla schiena, Daniele non prova tenerezza per gente che va in giro conciata così. «Nghlf,» insiste, convinto.
«Come no, Marcolì, ho capito tutto,» gli dice Daniele, magari un po’ divertito - ma molto lontanamente - dai mugolii inintellegibili che Marco si ostina a gorgogliare. Gli si avvicina, si siede sul letto proprio accanto ai suoi fianchi, e se gli accarezza i capelli e la nuca è solo perché così può convincerlo a voltare il viso, appoggiando la guancia sul cuscino, per riuscire finalmente a capire cosa cazzo stia blaterando. «Ora ripeti, se non ti dispiace.»
Marco sospira, tiene gli occhi chiusi e spinge indietro la testa contro la mano di Daniele.
«Ho detto che voglio morire,» si lamenta. «Che sono stanchissimo, che voglio tornare a casa, che dovevo essere ubriaco quando ho deciso di bruciarmi una pausa di campionato venendo qui e tu,» scocca a Daniele un’occhiata delusa e amareggiata che però gli viene un po’ una schifezza, considerando che ha mezza faccia ancora nascosta dal cuscino e la sua mano sinistra sta tentando molto poco discretamente di sbottonare la cintura dei pantaloni di Daniele. «Tu sei il mio stracazzo di capitano futuro, avresti dovuto essere una persona responsabile e tirarmi un cazzotto per farmi rinsavire, e invece mi hai assecondato.»
Daniele sorride, si lecca le labbra, solleva un po’ i fianchi andando incontro alla mano di Marco e si china a baciargli l’angolo della bocca. Marco mugola ancora, contorcendosi come può mentre tenta di voltarsi sotto di lui, ma Daniele è più veloce e ha addosso vestiti più comodi, umani, per cui dopo un attimo è già praticamente sdraiato sulla schiena di Marco, le ginocchia puntate ai lati dei suoi fianchi e appena appena un dito d’aria tra i loro corpi. Il suo sorriso s’allarga, quando Marco s’imbroncia e pur di farsi baciare per bene prova a rompersi l’osso del collo, voltandosi all’indietro così tanto da farsi schioccare le vertebre in basso dietro la nuca. Daniele non gli permette di arrivare a tanto, anche se probabilmente chiunque altro nella sua posizione sarebbe ben più che lieto di star lì a guardare Marco combattere una battaglia persa contro il proprio corpo per vincere il favore delle sue labbra, e si allunga sopra di lui, piegando le braccia e affondando le mani contro il materasso per continuare a tenere una certa distanza dalla sua schiena e non precipitargli addosso.
Naturalmente Marco solleva i fianchi, spingendosi contro di lui solo per un attimo, e Daniele per ripicca gli morde le labbra quando la mezza erezione che comincia a tenderglisi nei pantaloni si ritrova sedotta e abbandonata nel giro di un battito di ciglia.
«Piantala di provocare,» ringhia Daniele, sottovoce, minaccioso e probabilmente pure con una faccia da invasato, e si arrischia a sollevare una mano per stringere i capelli impossibili di Marco e tirarglieli un po’, tanto per darsi autorità. Marco sorride, inarcandosi ancora, e gli si struscia contro in un movimento delizioso che costringe Daniele a chiudere gli occhi e piegare in giù il collo, la testa improvvisamente pesante che trova il suo posto contro la spalla di Marco. La sua camicia è fresca e liscia contro la fronte di Daniele, ed è tanto piacevole sulla pelle quanto è brutta a guardarsi.
Marco continua a muoversi in quel modo lì sotto di lui, e Daniele smette di pensare così in fretta che probabilmente dovrebbe preoccuparsi. La mano che aveva intrecciato ai capelli di Marco precipita giù in una carezza un po’ ruvida e spiccia alla sua schiena, si allarga per un attimo premendo piano su una natica soda e poi, con una punta di difficoltà su cui è meglio che Daniele non si soffermi troppo, lo lascia andare, risalendo a sbottonare la propria maledetta cintura, la cerniera dei pantaloni, e a calarli giù perlomeno fino alle cosce, assieme alle mutande, liberando in tutta fretta la sua erezione ora decisamente attenta. Marco ride piano, per Dio solo sa quale ragione, e il tessuto un po’ ruvido dei suoi jeans contro la pelle nuda di Daniele è una sensazione che lui neppure riesce a capire se gli piaccia oppure no.
«Voltati,» dice, sollevandosi ancora su entrambe le braccia per lasciargli abbastanza spazio. Marco non è che abbia bisogno di sentirselo ripetere, probabilmente l’avrebbe fatto pure se Daniele non avesse detto niente, e in un istante è sdraiato sulla schiena sotto di lui. Lo guarda, il che basterebbe a mandare metà della popolazione mondiale al pronto soccorso, probabilmente, gli accarezza le braccia tese senza troppa convinzione, e poi la prima cosa che fa - la prima cosa seria che fa - è spalancare le gambe più che può, picchiettandole malizioso contro le ginocchia di Daniele che gli impediscono di allargarle di più. Dio santo benedetto.
Marco sorride, gli occhi socchiusi, e si solleva a baciare Daniele con una lentezza che sarebbe esasperante, se non fosse così dannatamente magnifica. Gli stringe il viso con la mano sinistra, strofinandola contro la barba un po’ ispida e tormentandogli un orecchio mentre la sua bocca è aperta e umida e perfetta contro quella di Daniele, e con la destra si sfila la camicia dai jeans, li sbottona, tira giù la cerniera. Daniele subito offre il proprio disinteressato aiuto, spingendo Marco giù contro il cuscino per stare più comodo, ma appena arriva da qualche parte attorno ai suoi fianchi si dimentica cos’è che voleva fare e soltanto preme le mani sotto la stoffa, accarezzandogli la pelle morbida e stringendo, di tanto in tanto, così forte che rimarranno i segni.
Marco si scosta bruscamente dalla sua bocca, ansimando; per un attimo rimane lì fermo e Daniele pensa di averlo ammazzato e sarebbe un guaio, vero? Sarebbe un guaio, sì, ma per fortuna il cuore di Marco sta decisamente battendo, forte e frenetico contro il suo sterno e Daniele gli si appoggia un po’ contro. Marco è soltanto a corto di fiato, niente di grave, e probabilmente sta detestando i suoi maledetti jeans aderenti più di quanto Daniele o qualsiasi altra persona nel mondo potrà mai comprendere.
«Levameli,» mugola, agitandosi un po’, e Daniele ride, baciandogli il collo.
«Ci provo,» dice, e ci prova davvero, e combinando gli sforzi, con Daniele che tira e ne approfitta per accarezzargli le cosce e Marco che spinge e s’infila le mani tra la stoffa e la pelle riescono a liberarsene, per grazia di Dio, e Daniele davvero non se lo aspettava, ma Marco ha addosso i boxer. Gli sfila anche quelli, senza neppure pensare, e poi gli stringe i fianchi e se li preme addosso, spingendosi in giù nello stesso momento e finiscono entrambi per gemere e sgranare gli occhi di scatto. Marco solleva le braccia e si aggrappa alla testiera del letto per allungarsi più comodamente sotto di lui e Daniele vorrebbe strappargli di dosso la camicia e morderlo ovunque, ma si trattiene, a stento, limitandosi ad incastrarglisi contro come meglio riesce.
«Danie’, Dio, sì,» mormora Marco, un po’ perso dietro al calore del sesso di Daniele premuto sul suo e soprattutto per il modo in cui Daniele si dondola, dando sollievo ad entrambi senza neppure avere bisogno di usare le mani. Quelle le intrufola di nuovo sotto la camicia di Marco, ma non osa sbottonarla per paura di fare un disastro. Lo tocca senza guardare, cercando i capezzoli in punta di dita e seguendo la curva definita degli addominali, la pelle tesa sui fianchi, e poi risale giocando attorno all’ombelico, e Marco si scioglie disperatamente sotto di lui, si volta a mordersi l’interno morbido di un braccio ancora sollevato sopra e oltre la testa. Daniele lo vede, sorride, si sporge a baciarlo e sta soffrendo anche lui, per carità, perché i movimenti del suo bacino e la frizione contro quello di Marco non sono neppure vagamente sufficienti a smaltire il piacere bollente che adesso gli si è ingolfato in tutto il corpo, ma stranamente gli piace, stranamente.
Marco gli lascia fare quello che vuole, per una volta, e Daniele si prende il suo tempo per mordergli il collo, guardare come la sua pelle si arrossa quando ci struscia contro la barba, e ad un tratto decide che potrebbe anche restare una vita intera a far gemere Marco in mille modi diversi, a fargli schiudere le labbra così e a sentirlo tremare solo per una carezza. Tenta persino di convincersi che non sia per Marco in sé, che se avesse chiunque altro nel mondo così caldo e bello e teso e caldo e basta sotto di sé sarebbe lo stesso, - chiunque altro nel mondo, davvero, chiunque, magari non Francesco e neppure sua madre e comunque nessuno al di sopra o al di sotto di una certa età ma al di là di questo gli andrebbe bene chiunque, cazzo, chiunque, - e per un momento intero ci crede pure, ci crede sinceramente, poi Marco lascia andare la testiera del letto e gli allaccia le braccia attorno al collo, lo bacia e prima di baciarlo gli sorride un po’, gli occhi castani e densissimi socchiusi come se stesse guardando il sole e Daniele allora perde quel poco di certezza che aveva racimolato, perde e basta.
Decide che toccarlo solo così non va più bene, non è abbastanza, e dopo soltanto un attimo la camicia di Marco vola per aria, due o tre bottoni saltati via, e Marco neppure capisce esattamente cos’è che Daniele gli abbia fatto, con quelle mani e la bocca e la pressione del suo sesso contro, sa solo che si ritrova inarcato all’insù così tanto che gli fa male la schiena, gli fanno male le gambe, e scopre che non gli importa minimamente del dolore perché gli è esplosa una bolla di calore sotto la pelle ed è tutto perfetto.
Liverpool è silenziosa, oltre la finestra, e magari sta ascoltando il suo orgasmo, o magari non gliene frega niente.
*
Marco è uno stronzo insensibile, ma Daniele lo sapeva da un sacco di tempo, lo sapeva ogni volta che gli è corso incontro dopo un gol per festeggiare tenendoselo troppo vicino alla faccia, lo sapeva quando ha cominciato ad assillarlo perché si comportasse da persona pienamente matura dentro e fuori dal campo, quale palesemente non è, e lo sapeva pure quando ha accettato di gettare nel cesso la prima pausa di campionato - la prima occasione di riposarsi un pochino e scrollarsi di dosso l’ansia e lo stress dopo veramente troppo tempo, Dio santo, - per seguirlo fino a Liverpool a fare Dio solo sa cosa - e per la verità Daniele ha i suoi sospetti ma, davvero, Marco è talmente tanto uno stronzo insensibile che non si può mai dire con certezza cos’abbia in mente.
Insomma, non è che Daniele si faccia illusioni, per cui non ci rimane neppure male quando, quella sera - la prima di tre, eh, non è che ci si sono trasferiti, a Liverpool, non è che ci passeranno una vita o un’estate o una settimana, giusto tre giorni e mezzo e poi via, di nuovo sull’aereo per tornare ad ammazzarsi di fatica giù a Roma, - dopo neanche due ore che sono arrivati in albergo, Marco gli si srotola da dosso e va a buttarsi sotto la doccia, chiaramente preparandosi per un’uscita in cui la presenza di Daniele non è contemplata. Non è che si sia fatto duemila chilometri per lui senza chiedere niente, per carità.
Comunque, ecco, Daniele non ci rimane male, e quando Marco si china a raccogliere da terra la camicia più brutta della storia lui non gli guarda neppure il culo, proprio no. Si allunga più comodamente sul letto, incrociando le caviglie e schioccando il collo, e osserva per un po’ il soffitto, pensando che magari potrebbe dormire, esausto com’è. Naturalmente, Marco sotto la doccia attacca a cantare, e non è che scelga le classiche robe che sono tutto sommato accettabili pure se sei stonato come una campana, tipo la Pausini, che ultimamente è in assoluto la preferita di Daniele per certe occasioni, e neppure si butta sul tragicomico, tipo le esilaranti imitazioni di Bocelli che l’altro Marco, Cassetti, quello simpatico, mette in scena ogni volta a Trigoria, oh, no. Marco, essendo Marco, e non l’altro Marco, quello simpatico, naturalmente va a pescare una roba astrusa che all’inizio a Daniele sembra una preghiera da rito satanico, ma poi a mano a mano che Marco alza la voce, rapito dal ritmo o Cristo solo sa cosa, si rende conto che si tratta di una canzone hip hop o rap o quale che sia il nome adatto da dare ad un pezzo in cui, sostanzialmente, c’è un tizio che non sa cantare che si sbrodola addosso parolacce in rime imperfette.
Per cui, sì, addio, Daniele non riuscirà a dormire, verosimilmente proprio mai più nella vita, tanto si sente traumatizzato.
Non serve a niente neppure premersi il cuscino sulla faccia, peraltro, la voce molesta e buona solo per gemere di Marco trapassa senza la minima difficoltà l’imbottitura di piume e cotone, e Daniele sta per alzarsi e piombare nel bagno per dirgli di tacere, una buona volta, e subito dopo, conoscendosi, finirebbe a sbatterlo contro la prima parete che si trova sottomano per baciarlo fino a farlo svenire, quando miracolosamente la tortura s’interrompe e uno splendido silenzio torna a regnare sovrano nell’universo.
Daniele sospira, contento, e chiude gli occhi, godendosi la pace, ma poi li riapre non appena sente la porta del bagno cigolare ed è stata un’ottima idea, si congratula con se stesso, perché Marco ne emerge nudo e ancora un po’ umido e può essere pure la persona più insensibile, stronza e terribile di questo mondo, ma perlomeno quella quantità da primato di problemi è imbottigliata in un corpo statuario, perciò, ecco, magari può anche non essere così tanto male.
Tranquillo e giulivo come un ragazzino, Marco si accovaccia per aprire la propria valigia, un esemplare meraviglioso di plastica tanto bianca da essere quasi accecante, gloriosamente decorata da una striscia tricolore decentrata sul davati, e se Daniele gli sta fissando le spalle e la schiena è per un interesse puramente anatomico. Marco si veste con calma, facendo un mezzo show senza probabilmente neppure rendersene conto, rimettendosi quei jeans di merda e poi un maglioncino chiaro con uno scollo che naturalmente gli lascia scoperte le clavicole in una specie di invito neanche troppo discreto a morderlo a sangue, e per quando è pronto ad uscire, Daniele, invece, è più che pronto ad incatenarlo al letto e non lasciarlo andare per il prossimo anno solare. L’unico problema è che non ha appresso delle manette né niente che possa servire al suo nobile scopo, per cui lascia che Marco gli faccia un sorriso sghembo e assolutamente non eccitante e gli dia un bacio che comincia casto e breve e finisce in un gemito soffice che andrebbe registrato e sparato a palla nelle discoteche.
«Ti dispiace se esco un minuto?» domanda Marco, leccandosi le labbra, ed è così vicino che la punta della sua lingua sfiora anche la bocca di Daniele. Un brivido, un altro bacio e poi Daniele si scosta un pochino.
«Tanto faresti comunque il cazzo che ti pare,» mormora, e dal ghigno malizioso di Marco capisce che chissà che doppiosenso squallido deve aver pensato, il coglione. «Vattene, vai. Ti dovesse fa’ male, restare troppo tempo in un posto solo.»
Marco sorride, gli regala un bacio che stavolta è breve davvero e sembrerebbe quasi che gli stia chiedendo scusa per qualcosa, se non fosse che, beh, è Marco, per cui, figuriamoci.
«Torno presto,» promette. Daniele sbuffa.
«E allora qua non mi ci trovi,» dice, senza neppure pensarci. Non ha la minima voglia di uscire, per la verità, ma Marco s’è messo in tiro per qualcuno - qualcuno! Daniele non ha una lista di sospettati, per carità, ma se ce l’avesse, beh, ci sarebbe su un nome soltanto, - che con ogni probabilità si scoperà prima che sorga il sole, perciò non è che può lasciargliela vinta.
Marco sorride, con un’esitazione appena, poi annuisce, lo bacia, si risolleva.
«Ci vediamo,» dice. Prende la giacca che aveva buttato sopra una sedia e, appena s’è richiuso la porta alle spalle, Daniele tira il cuscino contro il muro non perché sia frustrato o incazzato o nervoso o inverosimilmente stanco, - stanco di Marco e di se stesso e un po’ di tutto quanto, - ma perché voleva sentire se avrebbe fatto rumore, davvero.
Si tira su dal letto dopo un attimo, guardandosi attorno - non è male, la camera, non è male, - e alla fine decide di andare a darsi una lavata pure lui, perché comunque essere pulito non può fargli danno. Lungo la strada per il bagno recupera la propria maglietta, che non ricordava assolutamente di aver tirato sulla credenza accanto alla porta ma comunque è lì, e nel riprendersela si accorge che proprio accanto ci sono le chiavi della stanza, che Marco non s’è neppure preso la briga di portarsi dietro, come desse per scontato che, a qualsiasi ora deciderà di tornare, sicuramente troverà Daniele lì ad aspettarlo. Il che significa che Daniele è moralmente obbligato ad uscire e ripresentarsi all’alba, senza riconsegnare le chiavi alla reception.
Brontolando sottovoce Daniele s’infila in bagno, meravigliandosi appena quando si accorge che Marco non ha combinato un disastro come fa in genere a casa. Il box della doccia è ampio e comodo e non ci sono insetti tentacolati pronti ad attentare alla sua incolumità e Daniele lo sapeva, lo sapeva davvero che Marco è uno stronzo insensibile. Lo sapeva, non è sorpreso e certamente non è deluso.
S’infila sotto il getto d’acqua quando è ancora un po’ troppo caldo, e la sensazione è piacevole contro la pelle e si porta via quel poco d’odore speziato che gli era rimasto addosso, perciò grazie, Dio, per questa santa invenzione che è la doccia. Daniele piega la testa all’indietro, aprendo la bocca e tirando fuori la lingua. Cerca a tentoni il docciaschiuma dell’albergo, sorride un po’, e mentre s’insapona attacca a cantare.
«Maaaaarco se n’è andato e non ritorna più...»
*
Che c’è da fare, a Liverpool?
Daniele sta lì con le mani nelle tasche dei pantaloni, fermo in mezzo ad una piazza neppure tremendamente affollata, osserva il tramonto colorare il cielo di un bel rosso ciliegia e non sa che fare, dove andare, in tutta franchezza non è neppure certo di sapere come ha fatto ad arrivare fin qui. La prima cosa che gli viene in mente è domandare a qualche passante, tipo quelle ragazze laggiù, dov’è un buon posto in cui possa mangiare qualcosa di umanamente digeribile e magari bere un goccetto, perché sapete è qui in vacanza con uno stronzo insensibile che l’ha mollato da solo per andare a farsi i cazzi suoi, probabilmente nudo e sdraiato su un letto con Claudio Marchisio, ma decide che magari non è il caso, dal momento che spiccica sì e no una ventina di parole d’inglese, e per la maggior parte sono insulti di cui neppure s’è mai preso la briga di imparare il significato.
Per un po’ segue una signora con una bambina in braccio, perché la piccola è carinissima e gli ricorda tremendamente Gaia e gli fa male tutto il cuore e la pancia al pensiero di lei, ma a un certo punto ha l’impressione che la madre si sia accorta che le sta pedinando, perciò decide di cambiare strada, prima di ritrovarsi arrestato o pestato a sangue da un padre premuroso grosso il doppio di lui.
Il punto è che ora è perso davvero, e comunque continua a non avere la minima idea di cosa ci sia da fare a Liverpool per uno come lui, che è romano e ha la barba e fa il calciatore e probabilmente è la prima volta in otto anni che non ci sono persone a frotte che lo fermano ogni tre passi per chiedergli l’autografo e una foto e di benedire i loro figli. Pondera brevemente la possibilità di fare il finto tonto e chiamare Claudio, mandando di conseguenza all’aria qualsiasi grandioso piano scopereccio abbia convinto Marco a farsi tutta la strada da Roma a Liverpool, e, Dio santo, la tentazione è forte davvero. Daniele non ce l’ha, però, dentro di sé, la capacità di essere così impensabilmente stronzo, per cui lascia perdere, e non tira fuori neppure il cellulare.
Cammina un po’ a caso, senza neanche guardarsi attorno più di tanto, perdendosi dietro pensieri sconnessi in cui puntualmente torna, come una maledizione, la curva perfetta della schiena di Marco, e alla fine decide che, mah, forse è il caso di farla finita e chiudersi in pub? Ne scarta perlomeno mezza dozzina prima di trovarne uno che, dalla vetrata verde bottiglia e gli infissi di legno scuro, gli sembra casereccio abbastanza da non farlo sentire bizzarramente fuori posto. In piedi accanto all’ingresso c’è un bestione imbacuccato in una giacca di pelle che, evidentemente, si convince della sua maggiore età solo con un’occhiata, e gli fa appena un cenno, cui Daniele risponde con un sorriso un po’ imbarazzato. Si avvia dentro e gli viene da ridere quando la prima cosa che vede è una maglietta autografata di Jamie Redknapp appesa alla parete, circondata da una quantità spaventosa di ritagli di giornale e cimeli calcisitici.
Naturalmente, il suo istinto non avrebbe potuto trascinarlo in un posto diverso.
Non c’è gran confusione, sebbene il pub sia praticamente pieno, perché tutti i clienti sono assorbiti dal contenuto dei propri bicchieri, dato che alla televisione stanno dando quello che sembra un noiosissimo telegiornale. Daniele si avvia al bancone, supponendo di poter ordinare da bere e poi buttarsi su uno dei tavoli più in ombra e rimanere lì a morire finché non sarà sufficientemente tardi, e si perde un po’ a guardare la gigantesca lista di birre che fa bella mostra di sé tra una riproduzione in scala della coppa con le orecchie grandi e una fotografia sbiadita di Phil Neal nella finale dell’84, che Daniele riconosce soltanto perché suo padre lo avrà preso da parte per bestemmiare insieme su quella partita perlomeno sei miliardi e mezzo di volte.
Il barista gli compare davanti con un sorriso amichevole, sta asciugando un bicchiere con uno straccio rosso che ha tutta l’aria di aver visto perlomeno una guerra mondiale.
«Wha’ can I get’cha, mate?» chiede, ma quello che sente Daniele è un gorgogliare senza capo né coda che lo lascia a boccheggiare malissimo, nel tentativo di racimolare un pochino di proprietà linguistiche. Lascia perdere in fretta, comunque, quando si rende conto che il suo cervello l’ha decisamente abbandonato.
«Uhhh,» tenta, perso come un pinguino nel Sahara. «Che, ce l’hai ’na Nastro?»
Il barista sembra sorpreso giusto per una frazione di secondo talmente breve che Daniele quasi se la perde, e subito il sorriso gentile torna al suo posto.
«Yeah, sure,» dice. Mette via il bicchiere, si butta lo straccio sulla spalla e si china sotto il bancone. Daniele sente l’inconfondibile rumore dello sportello di un frigorifero che si apre, ed è psicologicamente pronto ad accogliere con gratitudine qualsiasi schifezza astrusa e inglese che il tizio gli propinerà, davvero, perché non può certo dare a lui la colpa della propria incapacità d’espressione, e poi resta assolutamente esterrefatto quando quello gli piazza sul serio davanti una Nastro da mezzo litro, bellissima e fredda esattamente come dovrebbe essere e verde e, oh, che meraviglia. «Enjoy ’t, mate.»
«Cazzo, grazie,» balbetta Daniele, sbattendo gli occhi, e non riesce a crederci quando stringe una mano attorno alla bottiglia e quella è davvero davvero davvero lì, cazzo. «Tènghiu,» dice, improvvisamente ispirato, e il barista ride, scuote la testa.
«’s okay,» dice. «Can I get’cha som’thin’ ta eat?» E, di nuovo, Daniele sente un incomprensibile cheahghettchusuffinaìjh, però sorride, entusiasta.
«Sì, come te pare, tutto quello che vòi,» annuisce. «Io me vado a sede’ là, vabbè?» dice, indicando una direzione a casaccio. Il barista chissà che cazzo ha capito, probabilmente niente, ma il suo sorriso s’allarga, per cui Daniele lo prende come un assenso e s’avvia a sedersi.
«But mate, you didn’ order nothin’!» lo sente dire, b’meiiùdinnoddahnoffi, e suppone sia un saluto, per cui agita una mano di rimando, sorridendogli da sopra la spalla, e si butta sul primo tavolo che gli dà una buona visuale sul televisore. Il barista scoppia a ridere di nuovo, Daniele lo vede voltarsi verso una fessura rettangolare sul muro e urlare, probabilmente alla cucina, e capisce che con uno di quei suoi versi incomprensibili deve avergli chiesto se voleva mangiare qualcosa, e magari anche che cosa. Mette da parte l’istinto di ordinare, ha avuto culo con la Nastro e non è per niente sicuro che guarda pe’ mme vabbene tutto, però se me pòi fa’ du’ spaghi è perfetto sia un’espressione altrettanto universale, e butta giù il primo sorso di birra così, a stomaco vuoto, perché ci sta bene, dai.
Il barista gli appare accanto un minuto dopo, piazzandogli sotto il naso una porzione di quello che sembra pollo fritto, una ciotola di patatine, un hamburger con un quintale di insalata e un bicchiere per la birra. L’odore generale è molto invitante e quando Daniele solleva gli occhi si rende conto che il tizio indossa una maglietta da calcio rossa come una mela.
«Bella maglia,» gli dice, perché mamma gli ha insegnato ad essere gentile con tutti e soprattutto con quelli che sono gentili con lui. Il barista gli sorride, palesemente senza aver capito niente, e poi se ne torna da dove è venuto.
Daniele mangia tranquillo e beve e quando finisce il telegiornale e alla televisione danno una replica di chissà che giornata di campionato - Liverpool-United, si rende conto dopo un po’, se la ricorda, quella partita, Claudio ha segnato il gol del pareggio all’ottantanovesimo ed è stato il suo primo della stagione ed era pure un tiro vergognosamente difficile, come quella magia in semirovesciata dell’anno scorso contro l’Udinese, - si mette lì a guardare ed esulta e ruggisce e bestemmia, a seconda dei casi, esattamente come il più assatanato dei tifosi che ha attorno.
*
Marco è tornato presto, non troppo, probabilmente, ma comunque prima di Daniele, e abbastanza da avere il tempo di riarredare metà della stanza per unire i due letti singoli in una specie di comodo, inquietante matrimoniale. Daniele, che deve avere una bella quantità di santi in Paradiso a vegliare su di lui dato che è miracolosamente riuscito a ritrovare l’albergo e non sa neppure lui come, è sorpreso di trovarlo lì, in tutta franchezza, e siccome ha in corpo almeno un litro e mezzo di birra si concede pure di ammettere che gli fa piacere, e che magari un po’ adora il sorrisetto felice che Marco non riesce a trattenere quando lo vede entrare.
«Oi,» saluta, a mezza voce, gettando le chiavi sul mobile accanto alla porta e grattandosi la nuca. «Come sta Claudio?»
«Che ne sai che ho visto Claudio?» domanda Marco, aggrottando la fronte, e mette via il libro che stava leggendo - probabilmente ha nascosto un giornaletto porno tra le pagine, riflette Daniele, con una punta di divertita tenerezza, - per sollevare le braccia e fargli cenno di raggiungerlo. Daniele, per carità, obbedisce, ma sbuffa pure, trascinandosi verso il letto - i due letti, cioè.
«Non sono mica scemo,» brontola, appoggiandosi al materasso per reggersi quando si sporge a baciarlo ed eccolo là, nascosto in un angolo della bocca di Marco, un sapore estraneo e non del tutto spiacevole, questo no, ma che comunque fa annodare strettissimo lo stomaco di Daniele. «Di punto in bianco te ne vòi veni’ a Liverpool, poteva esse’ solo quello.»
«E se magari era perché volevo conoscere Steven Gerrard?» sorride Marco, allacciandogli le braccia al collo, e Daniele ride piano, gli bacia una guancia.
«No, te confondi, so’ io, quello,» dice, arrampicandosi sul letto. Il ginocchio destro gli scivola un paio di volte giù dal bordo del materasso, ma alla fine si ritrova gattoni con Marco sdraiato sotto di lui ed è una posizione familiare, piacevole. «Ciao.»
«Ciao,» ridacchia Marco, e lo bacia di nuovo e Daniele decide che devono continuare a baciarsi finché la bocca di Marco non saprà di Marco e basta, e magari un pochino di birra e pollo fritto. «Cristo, Dani, ma che hai mangiato? Sei ancora più buono,» e gli lecca le labbra, e magari Daniele si sente arrossire un pochino ma non è niente di cui non possa incolpare la Nastro.
«Patatine,» dice, e lo bacia. «Pollo, un panino e poi delle arachidi secche tremende, per cui ho preso delle altre patatine,» e ogni piatto è un bacio e alla fine la bocca di Marco è gonfia e arrossata e Daniele non riesce a smettere di guardarlo.
«Sei buono,» ripete Marco, accarezzandogli la nuca con una mano e strusciando il naso contro il suo. Daniele è contento, un po’ per la birra e un po’ perché è contento e basta, non gli va di star lì a scervellarsi perché poi magari neppure gli piace quello che scopre. È contento e Marco naturalmente se ne approfitta, da grande stronzo insensibile quale è, ribaltandolo sul letto e piazzandosi a cavalcioni dei suoi fianchi. «Però magari la prossima volta che esci le chiavi lasciale alla reception, eh? Ci hanno messo mezz’ora a trovarmi un passepartout.»
Daniele neppure lo sente, perché nel frattempo s’è messo a pensare, accidenti, e sta pensando che non è proprio dell’umore adatto, è stanco e geloso perché Marco s’è fatto duemila chilometri per una scopata con Claudio, ed è pure un po’ ubriaco, ma poi Marco si sfila la maglietta larga del pigiama e gli si struscia addosso e, d’accordo, magari Daniele può lavorarci, sull’umore, e può lavorarci anche in fretta, molto in fretta, dato che Marco non si fa pregare e gli sta già tirando giù i jeans.
«Cristo, ma sei in calore?» domanda Daniele, gemendo piano quando Marco gli scopre il bassoventre e lo morde appena sotto l’ombelico, come se fosse una cosa normale, maledizione. L’unica risposta che riceve, comunque, è una risatina stronza che Marco gli fa vibrare contro l’elastico delle mutande. «Cristo, sì che sei in calore.»
Non ha più dubbi, e come potrebbe averne quando Marco preme il viso contro l’interno della sua coscia, impigliando il naso nell’orlo degli slip, disegnandogli ampi cerchi coi pollici in basso attorno alle ginocchia e poi risalendo piano, fino ad agganciargli le dita ai fianchi e sollevarglieli appena per spogliarlo, percorrendogli il sesso ormai duro di baci lenti e un po’ umidi e poi premendo la lingua di piatto contro la punta, prendendolo in bocca un attimo dopo, così a fondo da solleticargli la peluria alla base con le labbra, Cristo, come potrebbe pensare di riuscire a dubitare, no, come potrebbe anche solo pensare di riuscire a pensare che -
Marco dà un gemito basso e roco dal fondo della gola che si riverbera tutto attorno al sesso di Daniele ed è la cosa più fantastica che abbia mai provato, sul serio, il modo in cui la sua bocca vibra gentilmente prima di serrarsi quasi con forza a metà della sua lunghezza. Marco si rilassa e risale lento lento lento lento finché ha soltanto la punta tra le labbra, succhia appena, la stringe tra i denti, così piano e così brevemente che Daniele non ha quasi modo di accorgersene, e poi senza preavviso la sua bocca è di nuovo dappertutto su Daniele, aperta per lui, e a Daniele sfugge un grido e una mezza risata, è fantastico, è così incredibilmente fantastico e non ha nemmeno bisogno di sollevare le mani dal materasso e costringere Marco a star fermo e farsi scopare la bocca da lui, Marco capisce e fa tutto da sé e Daniele deve solo star lì, chiudere gli occhi e assecondare gli scatti all’insù dei propri fianchi finché non viene, inarcandosi tutto contro il viso di Marco, gemendo forte e senza essere capace nemmeno di capire dov’è che finisce il proprio corpo e dove cominciano le lenzuola.
Riprende fiato dopo quella che gli sembra un’infinità di tempo, e si ritrova Marco accoccolato accanto che si lecca le labbra con l’aria compiaciuta di un gatto. Vorrebbe mandarlo a cagare, vorrebbe davvero, ma riesce soltanto a sorridere appena e baciarlo, premendogli una mano bene aperta contro il lato del viso. È contento che, finalmente, la bocca di Marco sappia solo di Marco, e magari un pochino di lui.
*
Sono due ore che Marco continua a sfotterlo a ripetizione, e Daniele sta cominciando ad irritarsi semplicemente perché uno che va in giro con un maglioncino verde a rombi turchesi e con un paio di occhiali da sole con le lenti cangianti - sebbene non esista neanche lontanamente il pericolo che il sole frantumi la coltre di nubi che incombe sulla città - non dovrebbe proprio sentirsi in diritto di sfottere qualcuno. La gente per strada si volta in continuazione a guardarli, a guardare le scarpe gialle glitterate di arancione di Marco, cioè, e Daniele vorrebbe tanto sapere l’inglese per poter esprimere la propria solidarietà a tutti quelli che rimangono traumatizzati a vita dallo spettacolo e si riprendono solo quando capiscono che Marco non è del posto, per cui prima o poi tornerà da dove è venuto, purificando la città dall’abominio che è il suo guardaroba.
Ad ogni modo, il problema rimane il fatto che Marco non la finisce di prenderlo per il culo, quando davvero dovrebbe starsene zitto in un angolo a meditare sulla bruttezza improponibile della roba che ha il coraggio di chiamare vestiti, per il semplice fatto che Daniele ieri ha passato la serata a zonzo per la città, ma non è capace di orientarsi neppure per scherzo, e non si ricorda neppure se ci è passato, per questa piazza o quell’altra, e se l’ha visto, quel monumento lì o quel negozietto.
«C’è da stupirsi che non ti perdi mai per arrivare a Trigoria,» gli sta dicendo, lo stronzo insensibile, e Daniele chiude gli occhi, respira profondamente, si seppellisce un po’ di più le mani nelle tasche. «O magari ti avvii tutti i giorni alle quattro e vagabondi a caso per il Lazio, finché qualche anima pia ti ci accompagna per mano?»
«No, Marco, nun m’avvio alle quattro,» replica, con tutta l’infinita calma del mondo. «Lo sai meglio di me, visto che ci siamo pure andati insieme, agli allenamenti.»
«E non a caso guidavo io,» sghignazza Marco, e Daniele non si prende neppure la briga di pensare a una risposta perché lo vede saltellare tutto contento in direzione di un videonoleggio. «Guarda! Non ce ne sono mica più di posti così, da noi,» dice, sgranando gli occhi e appiccicandosi alla vetrina.
Daniele vorrebbe dirgli che, cazzo, non è vero, c’è uno sgabuzzino esattamente identico proprio sotto casa sua, persino con lo stesso poster di 300 attaccato con lo scotch sulla porta, ma non ha voglia di distruggere la sua emozione, perciò si limita ad un mugolio poco compromettente che potrebbe essere dubbioso o d’assenso o annoiato o un miliardo ancora di cose tutte insieme. Marco ridacchia, comunque, cerca di scollare un adesivo promozionale di Scarface che probabilmente sta lì da almeno vent’anni e quando non ci riesce s’imbroncia appena, e decide di essersi annoiato, perciò volta le spalle al negozio e prosegue lungo il marciapiede.
Si ritrovano sul lungofiume, ad un certo punto, e Marco sembra deliziato e Daniele non riesce veramente a credere che sia davvero così elettrizzato, Dio santo, hanno un fiume tale e quale sotto il naso tutti giorni, anzi, cazzo, il Tevere è pure più bello, e perlomeno a Roma c’è il sole. Però, insomma, finché Marco è contento e distratto non lo prenderà in giro per la sua totale mancanza di senso dell’orientamento, perciò va bene anche se deve star lì a squittire come un cretino puntando il dito e strillando le papere! ogni volta che un’ombra si muove sul dorso della Mersey, imbarazzando Daniele oltre qualsiasi limite umano. Va bene, sul serio, ed è piuttosto preoccupante che vada bene, però va bene e Daniele non è che può farci niente.
Si sceglie una panchina e ci si siede su e, mentre guarda Marco fare lo scemo, gli sembra carino e giusto sorridere un po’, perché un broncio millenario stonerebbe con la sua risata e le occhiate che gli lancia chiunque riesca a vedere al di là del cazzotto cromatico che Marco ha addosso, accorgendosi dell’uomo spaventosamente bello nascosto là sotto. Daniele si perde a sorridere tra sé e stare attento che Marco non si tuffi di testa nel fiume probabilmente freddissimo, tant’è che quando gli squilla il cellulare dà un sobbalzo un po’ comico, che per fortuna Marco non vede, troppo preso dal suo fallimentare birdwatching.
Daniele si sfila il telefono dalla tasca, curioso, e il suo sorriso s’allarga in maniera un po’ impressionante, considerando che fino a dieci minuti fa non la piantava più di accigliarsi per come Marco lo pigliava per il culo, quando vede che lo sta chiamando Riccardo. Riccardo, di tanta gente nel mondo. Daniele pigia il bottone per rispondere, e si stravacca un po’ sulla panchina.
«Pronto?»
«Dani?»
«Ricky,» sorride, e senza neppure accorgersene abbassa la voce di un’ottava, bastardo che non è altro. «Ehi, come va?»
«Tutto tranquillo,» sente Riccardo ridere appena, e gli fa così piacere che ride con lui. «Questa pausa è un toccasana, mi ha salvato i nervi. Ci voleva proprio.»
«Eh,» Daniele, un po’ incerto, guarda Marco che non demorde e continua a cercare le sue dannate papere e pensa che a quest’ora poteva essere con Gaia a mangiare un gelato. Guarda il cielo grigio di Liverpool e pensa che magari in Italia c’è il sole. Si guarda i piedi, e pensa che ci stanno proprio bene, sul marciapiede del lungofiume. Sorride. «Sì, ci voleva.»
Riccardo lo tiene a chiacchierare del più e del meno, dicendogli e pretendendo di sentire di tutto, come se non si vedessero da mesi e invece sono a malapena due settimane e mezza. Dà notizie di Giampaolo, glissa abilmente l’argomento Cristina, racconta una sciocchezza che ha sentito in televisione stamattina, Daniele gli dice di cosa ha combinato la scorsa settimana, che aveva Gaia per sé, gli imita DiBenedetto che non ha ancora perso l’abitudine di sbarellare sui conti della società anche se le cose ora si sono un po’ sistemate, elenca gli ultimi, esilaranti errori di pronuncia di Bojan e quando Riccardo gli chiede se ci sia bel tempo, lì a Roma, perché da lui invece piove da far schifo, Daniele è costretto ad ammettere che veramente non è a casa, che in effetti sta in Inghilterra, al che Riccardo fa tutto da solo e decide di aver disturbato e sembra che debba esplodere per la quantità di imbarazzo che gli riversa addosso, sparandogli un miliardo di scuse concentrate in meno di un minuto e insistendo per lasciarlo in pace anche quando Daniele ride e dice che non stava facendo nulla di che, che Riccardo non ha interrotto niente, che non l’ha affatto infastidito, ci mancherebbe.
«Scusami, veramente, ti lascio,» dice Riccardo, per la trentesima volta, e Daniele, d’accordo, un po’ gli si arrende. «Fai buon viaggio, sì? Ci sentiamo quando sei a casa, la prossima volta che ti annoi.»
«Allora te chiamo tra dieci minuti,» ride Daniele, e sente Riccardo sbuffare, esasperato e divertito e ancora arrabbiato con se stesso.
«Cretino,» lo rimprovera, bonario. «Ti saluto Giampi, tu goditi, uh, qualunque cosa ci sia da godersi a Liverpool.»
Daniele promette che lo farà, e sta ancora ridacchiando quando mette giù il cellulare. Si accorge che Marco gli si è seduto accanto, ha gli occhiali da sole in cima alla testa e lo sta guardando con un’aria un po’ corrucciata, si morde le labbra.
«Trovato qualche papera?» gli chiede, inventandosi tranquillo.
«No,» risponde Marco, la voce neutra, distaccata e Daniele rabbrividisce, perché se Marco fa così lui come può convicersi che non c’è niente di strano? «Era Riccardo?»
Daniele annuisce, Marco annuisce e rimangono seduti lì. Daniele ha l’impressione di essersi perso qualcosa, e le scarpe di Marco gli sembrano un po’ meno gialle di quanto non fossero questa mattina.
seconda parte »