Titolo: When the hunger for your touch rises from the hunger
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Daniele De Rossi/Marco Borriello, Marco Borriello/Camila Morais, Francesco Totti/Ilary Blasi, altra gente vagamente menzionata
Rating: R
Conteggio Parole: 7829 (
fidipu)
Avvertimenti: vampirli, What If?, slash, biting, angst, vago linguaggio
Prompt: Red Velvet Cake @
Sweet Scary Challenge di Fanworld.
Note: ...IDEK, alright? Daniele è un vampirlo. No, non è un typo, è solo il Pirlossi che una volta di più mi saluta da lontano sorridendo saputo. Ah, niente è come il primo amore. E, no, non è AU. NOT IN THE SLIGHTEST. Che è la cosa che più di tutte mi spaventa, se volete sincerità *ride*
- VRRRRRRRRRRRR.
- La Morais sta con Sborri da aprile, e tutti e due vanno a cena con la famiglia Totti e, chiaramente, io non shippo Sborri e Totti, e la Morais e Ilary. Chiaramente no. Zitti, ho detto di no.
- Una cosa importante! Daniele in questa fic
è pettinato così. Ve lo dico, because of reasons.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.
~ When the hunger for your touch
rises from the hunger.
And when the hunger for your touch
Rises from the hunger,
You whisper, "You have loved enough,
Now let me be the Lover."
Leonard Cohen, You have loved enough
Francesco dà una festa di Halloween. No, sul serio. Francesco, l’adulto, adultissimo, ormai praticamente alle soglie della senilità capitano della Roma, Campione del Mondo, persino, nel modo che conta, cioè con la Nazionale, non quelle scemenze scemissime in cui, per la gioia e il divertimento di tutti, gente tipo il Barcellona finisce a giocare contro squadre che nella migliore delle ipotesi sono un po’ peggio dell’Albinoleffe, Francesco, Francesco Totti, dà una festa di Halloween.
Tragico, drammatico, seriamente, soprattutto perché Francesco è uno di quelli che non ci arriverà mai al concetto che, ad una certa età, conviene smetterla di pensare come un diciassettenne in crisi ormonale costantemente sotto l’effetto di stupefacenti.
Ah, e poi c’è che Daniele è un vampiro.
Un mezzo vampiro, a dir la verità: suo padre è un vampiro, sua madre no, e il risultato è che Daniele è più forte delle persone normali, ci vede meglio delle persone normali, ha un debole per le bistecche al sangue e no, grazie, della sopa de ajo farà volentieri a meno, gli spagnoli non gli s’offendano, ora. È vivo, eh, indiscutibilmente, altrimenti, beh, vaglielo a spiegare agli ossequiosissimi impiegati della FIFA perché il suo cuore non batte. Non avrebbe potuto fare il calciatore, perciò, insomma, grazie tante, questa è probabilmente l’unica cosa positiva dell’essere un ibrido vampiro-umano, né preda, né predatore, solo un coglione che deve nascondersi la bocca con le mani ogni volta che qualcuno in campo si fa anche solo un taglietto, perché i canini affilati che spuntano all’improvviso probabilmente sarebbero più che sufficienti per valergli un rosso diretto.
Comunque, il fatto che Francesco voglia dare - e darà - una festa di Halloween, con i costumi e l’aperitivo che sembra sangue e le tartine a forma di pipistrello e tutto il ciarpame vario ed eventuale assolutamente indispensabile per certe occasioni, - è notevolmente più sconfortante.
*
Daniele ci va davvero vestito da vampiro, alla fine, alla festa di Francesco, perché è la cosa meno impegnativa cui gli riesca di pensare: per i canini è già a posto, e per rimediare un po’ di vestiti datati gli basta tornare a casa dei suoi per un pomeriggio, e lasciare che sua madre si metta a frugare nel guardaroba sconfinato che suo padre ha accumulato nel corso degli ultimi sette secoli.
Sebbene con addosso un mantello inamidato e le scarpe lucidissime e i capelli pettinati all’indietro, la barba curata perbene, un gilet di velluto a coste e il papillon annodato stretto sulla gola e il pantalone elegante e i canini di fuori Daniele si senta ridicolo come in pochi altri momenti della sua vita, si costringe a dare un sospiro e suonare il campanello.
Ilary è a dir poco spettacolare, il viso radioso incorniciato dai capelli annodati alti sulla nuca, qualche ciocca lasciata accuratamente libera di accarezzarle il collo sottile; indossa un magnifico vestito nero che dai fianchi in giù si svasa lievissimamente, più morbido, e finisce in uno strascico compensato, sul fianco opposto, da uno spacco vertiginoso.
Daniele non ce la fa a trattenere un sorrisetto di compiaciuta ammirazione.
«Sposa di Dracula?» tenta, perché, ehi, il suo è un travestimento da vampiro generico, ma per una moglie così non avrebbe problemi a mentire. Ilary, comunque, sorride.
«Non proprio,» dice, piazzandosi in testa un cappello da strega e Daniele ricambia il sorriso, annuisce. Lei si fa da parte per lasciarlo entrare, e alla luce tenue dei faretti Daniele distingue sulla stoffa scura del suo vestito un’infinità di ragnatele fatte di perline nere.
«Queste dove le metto?» domanda, tirando su le due confezioni di birra che ha portato. Ilary si acciglia un pochino.
«Danie’, non c’era bisogno,» dice, quasi come un rimprovero, ma Daniele non le dà retta e lei sbuffa appena. «In cucina, ti ringrazio,» si arrende, con uno svolazzo della mano. Daniele annuisce, si avvia in quella direzione.
È già piena di gente, casa di Francesco, volti più e meno famosi del calcio e dello spettacolo, e Daniele fa del proprio meglio per sorridere amichevolmente a chi riesce ad intercettare il suo sguardo sebbene lui stia praticamente sgattaiolando nell’ombra, schiacciandosi contro i muri perché finché ha dodici chili di birra in braccio non è proprio dell’umore adatto per fermarsi a fare conversazione.
Pure quando si è liberato del peso dell’alcol, comunque, non è che gli venga improvvisamente chissà quale bisogno di fare amicizia, e distrattamente si domanda perché diamine, alla fine, sia venuto.
Perché sei il vicecapitano, e lo sai quanto Francesco ci tiene a questo genere di... robe con la squadra, suggerisce la voce della sua coscienza, esitando appena. Daniele potrebbe obiettare che la serata non ha niente a che fare con lo spirito di gruppo e solidarietà e tutti gli adorabili sentimenti di cui sono pieni i loro abbracci prima delle partite, perché, per dirne una, non ha ancora visto nessuno dei suoi compagni, però, ehi, ormai è qui, non può di certo scappare via dopo neanche cinque minuti.
Oh, Dio, perché non può scappare via dopo neanche cinque minuti?
*
La festa smette di essere una tortura quando Daniele è, più o meno, intorno alla sua terza birra. Ha mangiato un paio di tartine, mentre vagolava su e giù per la casa alla ricerca di facce conosciute da salutare tanto per non sembrare maleducato, e al momento, cioè quando lo colpisce come un fulmine la realizzazione che, ehi, in fin dei conti la serata non sta poi andando così male, se ne sta seduto sulla poltrona più comoda della storia dell’universo, con Nico - Frankenstein - e Simone - il suo travestimento da mummia si è un po’ srotolato in giro per la casa, ma tutto sommato resiste ancora, - buttati sul divano lì accanto che si scambiano consigli sui tagliaerba.
Daniele butta giù un altro sorso di birra e gli sfugge un sorriso.
«Guarda,» ridacchia Nico, ficcando il gomito nel costato di Simone e strappandogli uno sbuffo. «Daniele si sta divertendo.»
«Ma no,» dice Simone, scuotendo la testa. «È una paresi, non vedi? Dev’essere la colla dei canini finti che gli ha fatto allergia.»
Nico scoppia a ridere, e Daniele sfodera il sogghigno più inquietante che ha. Se solo Simone sapesse, davvero.
*
Marco lo intercetta verso le undici, quando ormai la festa è proprio nel vivo e la casa è piena piena piena piena, come neanche a Natale quando ci si riuniscono insieme le famiglie di Francesco e Ilary fino al dodicesimo grado di parentela. Il respiro di Daniele gli si strozza in gola, lì per lì, perché Marco, maledizione, è vestito da - da - da, boh, sopravvissuto ad un incidente d’auto? Insomma, ha i vestiti strappati e lividi e tagli e macchie rosse dovunque, e per un momento Daniele crede che sia sangue vero, ed è quello, poi, che gli spegne per un attimo tutte le luci dentro la testa e gli azzanna lo stomaco.
Quando finalmente se ne rende conto, che è solo trucco e Marco non gli sta davvero crepando dissanguato sotto gli occhi, è già troppo tardi, perché il suo cervello si è già perso dietro la pericolosissima voglia che Daniele ha un po’ da sempre, di mordere Marco e assaggiarlo. Non è la prima volta che gli capita, eh, per carità, ed è giunto alla conclusione che è qualcosa che ha a che fare con l’attrazione fisica, però, Cristo santo, con nessun altro Daniele ha mai sentito una spinta, un bisogno tanto violento.
Deglutisce, si morde le labbra e si fa pure male, coi canini di fuori. I graffi si richiudono in un attimo, però, e Daniele gli fa un cenno.
«Ehi,» dice, e Marco è fin troppo felice di fermarsi, riconoscerlo, avvicinarglisi, guardarlo. Per una volta non si trattiene, e fa questo sorriso raggiante che ruba a Daniele il respiro anche più che le macchie di sangue sul suo collo, sul petto muscoloso lasciato un po’ scoperto e un po’ no dalla camicia strappata. Cristo santo.
«Dani, oi,» saluta, porgendo la propria bottiglia di birra perché Daniele, presumibilmente, ci faccia tintinnare contro la propria. Ok, Daniele, è facile, ce la puoi fare. «Bel costume, cazzo. Non venirmi dietro in un vicolo buio, per piacere.»
Daniele ridacchia, scuote la testa.
«Non ti prometto niente,» dice, perché, ehi, è la cosa giusta da dire, no? Sì, a giudicare dal sorrisino contento che Marco gli fa, prima di stringere le labbra attorno all’orlo della bottiglia e bere. Uh. Guarda da un’altra parte, Daniele. «Tu, invece, saresti...?»
«Uno zombie!» Marco scoppia a ridere, fa un passo indietro per farsi guardare meglio, esattamente quello di cui Daniele aveva bisogno. «Dai, Dani!»
«Oh, uh, uno zombie, certo,» precisamente quello cui Daniele stava pensando, perché Daniele non stava pensando, tanto per dire, al fatto che il jeans di Marco è strappato in un sacco di punti in cui un jeans non dovrebbe essere strappato, e c’è Osvaldo, dall’altro lato del salotto, che lo guarda con un’espressione che a Daniele non piace per niente, e gli direbbe di andarsene all’arrembaggio da un’altra parte, - è vestito da pirata, Osvaldo, chiaramente, - se solo non fosse una cosa così assurdamente inopportuna da dire ad un compagno di squadra. «L’avevo capito.»
Marco fa una smorfietta contenta e furba e Daniele lo sa che non se l’è bevuta per niente, ma non ha alcuna voglia di convincerlo del contrario. Probabilmente rimarrà qui ad ammirare il rilievo molto significativo delle clavicole di Marco ancora per un momento, e poi se ne andrà a casa perché c’è persino per lui un limite alle cose che può sopportare.
«Scemo,» sorride Marco, ad ogni modo, e fa ancora mezzo passo in avanti e Daniele non avrebbe bisogno dell’olfatto di un vampiro per sentire l’odore penetrante, pieno del suo corpo, nascosto appena sotto quello artificiale e non del tutto spiacevole del trucco, però, ecco, diciamo che aiuta, ma nel senso che peggiora la situazione già critica nei suoi pantaloni eleganti. Nei pantaloni eleganti di suo padre, vecchi di trecento anni. «Comunque va bene tutto, basta che non ti fai sentire da Cami.»
Cami.
Daniele impiega un attimo a fare il doveroso due più due: Cami. Camila. La ragazza di Marco. Ah, giusto. E, nell’istante esatto in cui l’illuminazione sopraggiunge sulla sua emofiliaca capoccia bionda, Camila si materializza al fianco di Marco, e chiaramente i loro costumi sono coordinati, anche lei sembra che l’abbiano appena strappata dai resti accartocciati di un qualcosa, dopo un frontale con un autobus.
«Cos’è che non mi deve fare sentire?» sorride, genuinamente curiosa. Daniele vede con la coda dell’occhio Ilary, cinque passi più in là, che li fissa con un cipiglio piuttosto pericoloso. Un flute di champagne tra le sue mani sa come essere più minaccioso di un bazooka.
Marco ridacchia, bacia Camila lievemente sulle labbra e Daniele, ah, Daniele vuole darsela a gambe.
«Che è anche lui un grande fan di Sex and the City,» dice Marco, guardandolo in tralice con gli occhi che scintillano, e Daniele annaspa e vorrebbe chiarire che è una cazzata, che non sa neanche di cosa diamine Marco stia parlando, ma Camila sgrana gli occhi e subito si entusiasma, vuole sapere chi è il suo personaggio preferito, e cosa spera che succeda nella prossima serie e come ha fatto a sopravvivere alla pausa estiva e Daniele sorride, annuisce, si stringe nelle spalle ed è tutto sommato sorpreso, quando si rende conto che la conversazione prosegue magnificamente anche senza il suo contributo.
Sorride attorno ad un sorso di birra, rilassandosi appena.
«Amore, non abbiamo ancora salutato Francesco,» dice Marco, perché è ovvio che non gl’interessi star lì a guardare come Daniele riesca a non essere a disagio. Camila si zittisce, schiocca le dita.
«Accidenti,» mormora. «Non vogliamo essere dei pessimi invitati, vero?»
«Non vogliamo no,» concorda Marco, e lei si volta verso Daniele con un sorriso di scuse.
«Dani, ci perdoni un momento?»
«No, sì, assolutamente,» scatta lui, sollevando le mani, impacciato. Marco sorride. «Fate pure, voglio dire, non c’è problema.»
Camila annuisce, gli sorride.
«Sei gentilissimo,» dice, stringendogli un polso per un attimo, in un tintinnio di sottili braccialetti dorati che sarebbero decisamente appropriati in caso di un’Apocalisse di zombie. Daniele, comunque, non riesce a non sorriderle. «Devi assolutamente venire a cena, qualche volta, sì? Marco è un cafone, considerati invitato da me, quando vuoi.»
«Non mancherò,» annuisce lui, e sticazzi, pensa, ma mantiene il sorriso e li guarda andare via a cercare Francesco. Non gli sfugge il modo in cui la mano di Camila si sistema comoda contro la curva della schiena di Marco, in basso, sopra l’orlo dei jeans, in quel punto che lui si sente impazzire, alle volte, per la voglia che ha di toccare; sospira, beve un altro sorso di birra, e pensa che, perlomeno, quel lembo di pelle ha qualcuno a viziarlo, e più o meno va bene così, tutto sommato, anche se non si tratta di lui.
*
Fa già un po’ troppo freddo, a Roma, a quest’ora di notte, per cui la balconata è deserta, ed è per questo che Daniele scappa lì, più tardi, quando ne ha le palle piene delle persone e delle chiacchiere e della luce soffusa, di Halloween e della birra e dell’odore di Marco che non ne vuole sapere di smetterla di tormentarlo.
Più di tanto lui non lo soffre, il freddo, e comunque il mantello di suo padre è ben imbottito e lo copre meglio di tanti cappotti che ha avuto negli anni e non lo hanno salvato da raffreddori più o meno pestilenziali. Daniele appoggia i gomiti alla balaustra di marmo, il più lontano possibile dalla portafinestra che dà sul soggiorno, e rimane a guardare Roma e respirare, perché, diamine, se lo può permettere, no?
Chiamerebbe Gaia, se non fosse così maledettamente tardi, perché ha voglia di sentire la sua voce, di sapere com’è andata la sua prima spedizione a caccia di dolcetti da raccogliere e scherzetti da seminare. Avrebbe voluto esserci anche lui, accompagnarla di porta in porta e guardarla ridere nel vestitino da fatina dei denti che hanno scelto insieme il mese scorso, ma Tamara è partita venerdì per andare dai suoi, allungandosi il ponte dei morti con l’intero finesettimana, e ha portato Gaia con sé, e Daniele, insomma, magari le feste non gli piacciono, ma avere a che fare con i parenti di Tamara è diventato un incubo, dopo il divorzio, sia per lui che per lei, e, beh, Daniele sarà anche un vampiro, ma apprezza il quieto vivere come chiunque altro.
Non è distratto abbastanza da non accorgersi che qualcun altro è uscito sul balcone, e che si tratta di Marco. D’altra parte, Daniele non è mai distratto abbastanza da non accorgersi di Marco. Si volta a guardarlo, quando sente i suoi passi abbastanza vicini, e Marco sorride, tiene in mano una tazza di qualcosa di caldo, che fuma tantissimo e profuma spettacolarmente di tè.
«Non riesco mai a coglierti di sorpresa,» dice, divertito, andando ad affacciarsi accanto a Daniele, vicino abbastanza perché i loro gomiti si tocchino. Ha addosso un cappotto lungo, scuro, pesante dei suoi, e Daniele comunque non riesce a non guardarlo come se fosse nudo sotto i suoi occhi. Cristo. Marco beve un po’ di tè.
«Stai bene?» domanda Daniele, sottovoce, accennando alla tazza. Marco ne guarda il contenuto per un momento, e poi ride piano, annuisce.
«Sto bene, solo che non ne potevo più della birra,» mormora, e Daniele, davvero, conosce la sensazione. Marco esita solo un momento, e poi lo guarda negli occhi. «Ne vuoi un po’?»
Daniele ci pensa.
Annuisce, alla fine: ne vuole un po’. Marco non è che gli offra la tazza, no; la solleva, fino ad accostargliela alle labbra, e Daniele è costretto ad appoggiare le mani sulle sue per inclinarla quel tanto che basta per bere, e mentre ne prende un sorso lungo, caldo, dolce, buono, non riesce a smettere di guardare Marco negli occhi, e Marco ricambia il suo sguardo, e perché gli sembra quasi che lo stia baciando? Però poi Marco sposta la tazza e lo bacia davvero, quasi di fretta, e Daniele deve fare leva su ogni briciola di autocontrollo che ha per non prenderlo per i fianchi e schiacciarselo contro, azzannargli il collo e berlo.
Dio.
«Marco?» mormora, non esattamente spaventato, no, è solo sorpreso come un pazzo. Marco sorride un po’ sulle sue labbra, e Daniele lo bacia di nuovo, stavolta gli stringe il viso tra le mani e lo attira a sé, cede, giusto un pochino. È già troppo, però, e se ne accorge quando Marco si spinge nel bacio e le sue labbra sono morbide, la sua bocca buona, dolce, calda, e poi la sua lingua gli accarezza piano la chiostra dei denti e là, contro la punta affilata dei canini, Marco si graffia e Daniele si strappa via da lui, deve, l’odore del sangue, anche se è solo una goccia, che gli fa girare la testa.
Marco sgrana gli occhi, si lecca le labbra e le macchia appena di rosso brillante. Daniele stringe i pugni tanto forte da farsi male, respira, respira, respira. Il suo istinto ruggisce e gli scalpita nel petto, sta già pensando a Marco sul pavimento di quello stesso balcone, la testa reclinata all’indietro per offrirgli la gola, le palpebre pesanti sugli occhi, il respiro spezzato; sta già pensando al calore intossicante del suo sangue, al sapore che avrebbe, che avrà, al gemito di Marco e a dove gli permetterebbe di toccarlo, aperto e caldissimo sotto di lui. Sta già pensando che potrebbe assaggiare la pelle di tutto il suo corpo e mordere la carne tenera di una coscia, e berlo da lì, dove magari il suo sangue sarebbe ancora più bollente, ancora più dolce.
Sta già pensando.
Marco si lecca un pollice, lo guarda curioso, e poi guarda Daniele.
«Dani,» dice, lievemente sorpreso, ma niente di più. «I canini. Non sono finti.»
Daniele ha il respiro pesante, tenta d’ingoiare via tutte le assurdità che il mostro sul fondo del suo stomaco sta bisbigliando alla sua voglia, e un po’ ci riesce, almeno finché Marco non gli si avvicina di nuovo, lo bacia di nuovo, un sapore un po’ sbiadito di ferro sulle labbra gonfie. Daniele ha una vertigine, si aggrappa ai suoi fianchi, lo stringe.
Marco sorride nel bacio, si scosta appena, gli lecca le labbra, gli sfiora il viso in una carezza. Daniele non sa cosa pensare.
«Non hai paura?» domanda, perché è certo che i suoi occhi abbiano preso quella sfumatura spaventosa di rosso, perlomeno per un momento, e a Tamara è bastata intravederla per un attimo una singola volta per rimanere terrorizzata, e non ha mai voluto parlarne. Marco invece continua a guardarlo e Daniele, sinceramente? Daniele non capisce.
Marco si stringe nelle spalle.
«Sei Daniele,» dice, come se tanto potesse bastargli. E Daniele gli è bastato per mollare il Milan e venirsene a Roma, e gli è bastato, poi, per rimanere, ma questo è diverso, non si tratta di un contratto e non si tratta di soldi, non si tratta de anna’ a vince; si tratta del fatto che Daniele è un vampiro, e vuole il sangue di Marco.
«Dovresti avere paura,» insiste Daniele, aggrottando le sopracciglia. Marco alza gli occhi al cielo, un po’ esasperato; gli sorride, gli dà un bacio.
«Sei Daniele,» ripete.
E gli basta.
*
La batteria dell’auto di Marco pensa bene di farsi trovare morta, quando lui e Camila vorrebbero solamente tornarsene a casa. Francesco, da bravo padrone di casa, si offre di accompagnarli, ma è ubriaco come una spugna e alla fine è Daniele che insiste e insiste e insiste e alla fine si carica la coppia di zombie in macchina, Camila sul sedile posteriore e Marco davanti, e domanda:
«Dove vado?»
Camila gli spiega fin troppo nel dettaglio come arrivare a casa sua e, quando Daniele accosta in seconda fila sotto un palazzone dall’aria un po’ anonima ma convenientemente vicino al centro di Roma, lei si sporge in avanti e bacia rapidamente Marco sulle labbra, e poi anche Daniele, su una guancia.
«Grazie,» dice, e poi si volta verso il suo - cazzo - ragazzo: «Ricordati--»
«Il coso detergente, sì,» la precede Marco, chiaramente annoiato, e Camila s’imbroncia, Daniele lo vede nello specchietto retrovisore.
«Il latte detergente,» dice lei, e poi sguscia via dalla macchina, portandosi dietro il suo profumo buono, femminile, lasciando Daniele in una delle situazioni al contempo migliori e peggiori della sua esistenza. È vestito da vampiro in macchina con un tizio vestito da zombie che sa che il suo travestimento non è solo un travestimento, e l’unica cosa che riesce a pensare è che il cuore di Marco batte dannatamente in fretta e lo sta facendo impazzire.
«Andiamo da me,» mormora Marco, dopo qualcosa come un quarto d’ora che sono rimasti lì a fissare la strada vuota oltre il parabrezza. Daniele deglutisce, fa inversione di marcia e pensa, con tanta forza che si sente morire, mio Dio, questa è una pessima idea.
*
Marco neppure accende la luce, e Daniele gliene è grato perché il buio lo aiuta a convincersi che sia tutto una specie di sogno pericolosamente realistico. Lo segue fino in bagno, e se ne pente, naturalmente, nel momento in cui lì Marco la luce l’accende, e Daniele si rende conto che, oh, sono in bagno.
Nell’enorme specchio che occupa praticamente l’intera parete sopra il lavandino ci sono due tizi dall’aria estremamente confusa che lo fissano. Si tratta di lui e di Marco, naturalmente, ma si rassomigliano poco, Daniele conciato come suo padre trecento anni fa e Marco col viso livido, gli occhi cerchiati di scuro, i vestiti strappati ad arte, i capelli impolverati di borotalco e, di tutto il suo corpo, soltanto le labbra conservano un colore giusto, normale, sono rosa e un po’ imbronciate e soffici e Daniele vuole morderlo. Daniele vuole soltanto morderlo - ed è quel soltanto che lo spaventa e lo diverte, al tempo stesso, perché soltanto non esiste, con la gente come lui. Un vampiro non è capace di mordere e basta, e sicuramente Daniele non sarebbe capace di mordere e basta Marco.
Lo zombie, comunque, probabilmente gli legge nel pensiero, o forse no, forse è solo che non ci vuole un genio a capire cos’è che Daniele sta pensando; sta di fatto che Marco gli si avvicina, nella luce fredda dei faretti del bagno, e lo bacia, scostandosi subito, tentandolo, più che altro. Daniele chiude gli occhi, si sente tremare, o forse è Marco che trema e lui che semplicemente lo segue. Non lo sa, non lo vuole sapere.
Risponde al bacio, alla sola vicinanza del suo corpo, probabilmente, e Marco gli si spinge addosso e combacia contro di lui con precisione magnifica; se solo Daniele non volesse prosciugarlo di tutto il sangue delizioso che ha in corpo, sarebbe tutto così impensabilmente perfetto.
«Marco,» mormora, la voce tesa, scostandosi appena dalla sua bocca. Marco lo guarda da sotto le ciglia, forse neanche si rende conto dell’effetto che gli fa o, più probabilmente, lo sa fin troppo bene. Dannato stronzetto con una faccia e un corpo per cui chiunque farebbe un’ecatombe di animali pelosi e carini. «Dovresti... dovremmo...»
Non lo sa, ovviamente no che non lo sa, ma Marco annuisce, fa un passo indietro.
«La doccia, lo so,» dice, e non riesce a mantenere una faccia impassibile; arriccia all’insù un angolo delle labbra, malizioso, contento, Dio, si sta spogliando. Non è che Daniele non l’abbia mai visto nudo, negli spogliatoi, ma questo è diverso. Questo è Marco che si spoglia sotto i suoi occhi per lui, Marco che lo vuole nonostante i canini affilati e il lampo di rosso sangue nelle sue iridi; forse, questo è soltanto Marco, Marco e basta, e tutt’a un tratto Daniele ha una paura fottuta che non c’entra niente col fatto che potrebbe ammazzarlo, se solo si lasciasse andare.
«Marco,» ritenta, e Marco è ostinato, è incorreggibile, ma non è cretino e non è stronzo, e si accorge che qualcosa è cambiato, nel suo tono, che c’è una nota un attimo più disperata, e si ferma, con la camicia buttata per terra, il torso dipinto di ferite finte nudo e comunque bellissimo, si ferma, mentre si sta sbottonando la cintura, e lo guarda, si morde le labbra.
Si passa una mano tra i capelli, Marco, tirandoli indietro. Il taglio che ha da un paio di mesi a questa parte è più che decente, normale, una versione più presentabile della roba che portava ai tempi del Genoa; a Daniele certe volte manca da morire il ciuffone arricciato e soffice che poteva stropicciare in tutte le direzioni, e la nuca rasata di fresco ogni settimana, i capelli corti sui lati della testa che rimanevano sorprendentemente morbidi.
«Non è che non ho paura, Dani,» dice Marco, vagamente in imbarazzo, vagamente in difficoltà. Daniele fa un passo avanti, istintivamente, e gli stringe una mano sul fianco tatuato, riusciendo a strappargli un sorriso. «Solo che ho più voglia che paura.»
Daniele quasi ride.
«Voglia?» ripete, sorpreso, divertito. Marco si stringe nelle spalle, abbozza un sorriso sbilenco, senza guardarlo.
Voglia, pensa Daniele; Marco ha voglia. Anche Daniele ha voglia, ha un sacco di voglia, di voglie, anzi, e qualcuna ce l’ha in comune con Marco, ma qualcun’altra - la voglia più forte, la più spaventosa, la più terrificante; ah, e poi c’è anche quella di bere il suo sangue, - probabilmente no. Chiude gli occhi, per un momento.
«Non mi dire di no,» soffia Marco, così piano che Daniele, se non ci sentisse meglio di qualsiasi essere umano, se lo sarebbe perso. E detta così, non mi dire di no, sembra quasi che Marco voglia quello che vuole pure Daniele, fosse anche solo un pochino, fosse anche solo un capriccio.
Daniele ci pensa su. Suo padre, che è un purosangue, sono quarant’anni che riesce a non ammazzare sua madre ogni volta che se ne nutre. E comunque, Marco lo sta guardando e c’è qualcosa nei suoi occhi, nella sua espressione, nel modo in cui non respira, aspettando che lui si decida, e Daniele non ce la fa a dirgli di no. Non ce la fa.
Lo bacia, piano piano, contando i battiti del suo cuore e sorridendo sulle sue labbra quando quello, di punto in bianco, impazzisce e si crede il motore di un’auto da corsa, la grancassa di una batteria isterica. Marco gli slaccia il mantello, il papillon, la camicia, la cintura. Gli tira giù i pantaloni, gli sfila il gilet e fa un passo indietro, lo guarda, tutto sbottonato e coi pantaloni alle caviglie e tutto il resto ancora addosso, in piedi in mezzo al suo bagno, e sorride con una dolcezza che a Daniele spezza il fiato.
«È meglio se non la buttiamo per terra, ’sta roba,» dice, sollevando un po’ il gilet per amor di chiarezza, e Daniele un po’ incespica per togliersi i pantaloni, e se li piega sul braccio.
«E dove, allora?»
«Dai a me, metto tutto di là.»
È un po’ imbarazzante, levarsi tutto - meno le mutande, grazie tante, - e ficcare indumento per indumento tra le braccia di Marco, che invece sogghigna tra sé ed è arrossito come una vergine; Daniele comunque resiste, e quando Marco esce dal bagno per andare a sistemare la sua roba chissà dove lui si guarda un po’ attorno, a disagio, e sistema le scarpe contro la parete. Sta disperatamente tentando di fracassare la calotta di gel che gli fissa i capelli all’indietro, quando Marco ritorna, e, beh, è imbarazzante, davvero, però poi si stanno baciando, che è una cosa che Daniele ha appena deciso non si stancherà mai di fare, e Marco gli accarezza la schiena e le mani di Daniele mettono vanno in pilota automatico e gli sbottonano i jeans, gli stringono i fianchi, gli si premono contro la nuca, e non è più tanto imbarazzante, no, diventa, piuttosto, tutto decisamente interessante, a parte per quella considerevole porzione del cervello di Daniele impegnata a trattenere tutto il resto di lui dallo scaraventarsi come un animale sul collo fin troppo invitante di Marco.
Il corpo di Marco è morbido sotto le dita di Daniele, stranamente scivoloso in certi punti, ed è lì che Daniele si ricorda del trucco da zombie - che probabilmente si sarà ampiamente trasferito pure addosso a lui e alla sua barba, dannazione, - e del latte detergente di cui parlava Camila. Uh, Camila. Un pensiero da evitare, possibilmente.
«Marco,» mormora, tra un bacio e l’altro, no, tra un bacio e un morso di Marco al suo labbro inferiore e, Cristo, ma perché non si controlla? Almeno un pochino? Daniele sta facendo uno sforzo più che considerevole per non ammazzarlo, d’altronde. No, d’accordo, va benissimo se Marco vuole morderlo. No, davvero.
«Cosa, Dani?» mugugna lui, più che altro una vibrazione dolcissima contro il collo di Daniele, e lui rabbrividisce, preme le dita contro la base della sua schiena con abbastanza forza da lasciargli un livido vero.
«Dovresti, uh, il, sai. Il detergente, o cos’era,» soffia, e Marco si prende ancora un momento per strusciarglisi addosso in un modo delizioso, che suggerisce un sacco di cose belle alle quali Daniele avrebbe preferito non pensare perché, sangue, strilla il mostro dentro di lui, sangue!, al solo pensiero di Marco in un letto con lui. Fa un passo indietro, alla fine, e poi va a frugare in un armadietto sotto il lavandino.
A Daniele manca il contatto con la sua pelle bollente, ma ne approfitta per riprendere fiato, per imbavagliare e prendere a cerebrali badilate sulle gengive il suo vampiro interiore.
«Ok, trovato,» dice Marco, e si rialza, due flaconi formato famiglia di latte detergente tra le braccia con su una confezione di ovatta in equilibrio decisamente precario. Daniele lo libera subito, appoggiando tutto sul ripiano di marmo del lavandino, e poi lo guarda.
«Uh,» annaspa, perché, Dio, l’imbarazzo. «Suppongo che non-- ti serve ’na mano?»
Marco diventa un po’ violaceo, per una strana combinazione del suo rossore e del fondotinta grigioverde da zombie.
«Non... no, no,» dice, perché ci sono un sacco di cose che lascerebbe fare a Daniele, ma che si metta lì a struccarlo non rientra precisamente nei suoi piani per la serata. Non che Marco abbia dei piani per la serata. Cristo santo, è talmente privo della seppur minima idea di come andrà a finire tutto questo - se non, beh, un sospetto generale sulle prossime ore in particolare, che poi è più che altro una speranza, anche se a giudicare dallo stato delle mutande di Daniele è una speranza quantomeno piuttosto fondata, più di quanto non lo fosse ieri, comunque, - che potrebbe anche cedere alla paura e scappare via. Peccato solo che sia a casa propria. Ah. Idea geniale, portare qui Daniele.
Marco si ripulisce più in fretta che può, e per fortuna Camila è una donna assennata e non l’ha riempito di roba peggio che un clown, per cui ‘più in fretta che può’ è, nei fatti, un tempo insperatamente breve. Daniele nel frattempo un po’ guarda lui e un po’ guarda se stesso allo specchio, esaminandosi da vicino la barba, probabilmente temendo che il fondotinta gli si sia spiaccicato addosso, con tutto quello strofinarsi.
Marco arrossisce, però sorride mentre si friziona le occhiaie con il cotone imbevuto di detergente.
«Guarda che non è mica roba cinese, no che non ti ho macchiato,» dice, dandogli di gomito contro il fianco nudo, dal lato dell’inguardabile, oh-ti-prego-fa’-che-sia-un-incubo tatuaggio a forma di cuore ritagliato in un grumo di asfalto o qualsiasi cosa Daniele voleva che fosse.
Nello specchio, Daniele si acciglia un pochino.
«Mi fido,» decide, alla fine. Marco è talmente impressionato - Daniele che si fida?, - che si morde la punta della lingua ed evita di dirgli, e comunque, qualsiasi macchia sarebbe meglio dei quadri impressionisti che ti porti addosso e chiami tatuaggi. E, per impressionisti, chiaramente Marco intende impressionanti, non in un’accezione positiva.
L’ultima finta crosta di sangue rappreso sul fianco viene via in una sola passata, e Marco getta l’ultimo batuffolo nel cestino con un canestro perfetto. Si stiracchia, e non gli sfugge il modo in cui Daniele si morde il labbro inferiore, i canini che spuntano come punte candide di chiodi.
Gli sorride, gli si avvicina, lo bacia. Le mani di Daniele si sistemano sui suoi fianchi con quella che già comincia a sembrargli abitudine, e la sensazione gli solletica piacevolmente il retro dello stomaco.
«Doccia?» mormora, e gli occhi di Daniele danno un lampo di rosso che fa rabbrividire Marco in tutti i modi sbagliati; lui annuisce, dopo un attimo d’incertezza, e Marco si tende e non riesce a trattenere un gemito quasi patetico quando Daniele, senza preavviso, intrufola le dita sotto l’elastico delle sue mutande e gliele fila piano, accarezzandolo quasi distrattamente.
Ha voglia di morire, Daniele, quando si ritrova nudo contro Marco nudo, perché così, indifeso fino all’ultimo lembo di pelle, il richiamo del suo sangue è praticamente irresistibile e lo ubriaca come nessuna nottata spesa a bere schifezze ha mai saputo fare.
Daniele geme dal fondo della gola, stringendosi addosso a Marco perché non ha la forza di allontanarsi da lui; Marco gli accarezza la nuca, gli bacia la curva della mandibola, lo spinge dentro l’ampio box della doccia e apre l’acqua, il rubinetto fisso sulla temperatura perfetta, la caldaia perennemente tenuta in funzione dal fatto che è un cazzo di calciatore e guadagna troppi soldi e può permettersi roba che i comuni mortali neanche si sognano, tipo, per esempio, l’acqua calda che comincia a riscaldarsi dieci minuti prima che lui anche solo decida di farsi una maledetta doccia.
Daniele s’inarca un po’ contro il getto, stiracchiando la schiena, e Marco non può fare a meno di tracciare la curva decisa del suo collo con la bocca, coi denti, e poi succhiargli un marchio rotondo e arrossato contro l’angolo della clavicola. Daniele serra le mani sui suoi fianchi, respira a fatica, gli divora le labbra con un bacio che costringe Marco ad aggrapparsi ai suoi capelli e spingere in avanti i fianchi alla ricerca già disperata di un po’ di frizione.
Daniele ringhia, Dio santo, spostando il bacio famelico verso l’incavo dietro l’orecchio di Marco, la mandibola, e prima che se ne renda conto è sul suo collo, lo assaggia palmo a palmo e Marco ha chiuso gli occhi da un pezzo, la bocca che si schiude ritmicamente attorno ad un sospiro, un gemito, un sospiro, un ansito, una parolaccia e il nome di Daniele. Sussulta, sorpreso, quando sente la pressione dei denti, ma dura solo un momento e Daniele si ritrae di scatto, come se si fosse bruciato.
Non va molto lontano, perché Marco non glielo permette, e vorrebbe dire qualcosa, ma, di nuovo, Marco non ha nessuna voglia di lasciarglielo fare: gli tappa la bocca con un bacio lento, umido per il tocco della sua lingua e per il getto d’acqua che piove sulle teste di entrambi, e Daniele si rilassa di nuovo contro di lui, rimette a bada, perlomeno un pochino, il mostro e il vampiro, e lo tocca, le mani spalancate sulla sua pelle morbida, e se lo spinge contro, muovendo i fianchi a ritmo coi suoi, incastrandosi contro di lui così bene che non gli sembra vero.
Marco lo asseconda, mugola contento nel bacio e quando Daniele gli sfiora la schiena, scende giù fino alla coscia con due dita e ne accarezza l’interno, risalendo appena, percorrendo la mezzaluna alla base di una natica, trema contro di lui, e sente che potrebbe venire anche soltanto per quel tocco gentile.
Allunga un braccio oltre le spalle di Daniele, allora, per prendere il docciaschiuma e fare perlomeno finta di avere serie intenzioni d’igienizzazione. Daniele ride un po’, ma gli dà retta e ci mette davvero un attimo ad insaponarlo tutto, senza attardarsi più del necessario da nessuna parte.
Daniele ha una paura fottuta che se cominciasse a toccare Marco per davvero, non riuscirebbe più a smettere, né a controllarsi. Marco, dal canto suo, ne ha piene le palle, - eh, poverino, - e non è che non apprezzi la sua preoccupazione, ma, Cristo santo, non ha bisogno di essere ficcato sotto una campana di vetro, lui vuole che Daniele sia felice, tranquillo, che allenti la presa, per una volta, e si conceda qualcosa - si conceda Marco, per esempio; si conceda a Marco.
E, magari, d’accordo, è un pericoloso mostro leggendario che si nutre di sangue umano, - discutibile, comunque; gli mancano un sacco di qualità per fare il vampiro: innanzitutto gli batte il cuore, è indiscutibilmente vivo, si riflette negli specchi e gironzola allegramente sotto la luce del sole, per cui, magari anche no, - ma è comunque Daniele, e Marco è comunque Marco, e se fare felice Daniele significa che Marco deve rinunciare a due o tre litri di sangue, d’accordo! È un po’ come donarlo alla Croce Rossa, solo che non è una croce e semmai è giallorossa, e, no, non esiste che Marco rinunci al suo proposito; è un po’ troppo innamorato di Daniele - eh, poverino, - per poter anche solo pensare di rinunciare.
Ragion per cui, gli si spinge addosso con tutta la fiducia in sé stesso che - non - ha, e gli bacia un angolo delle labbra.
«Dani,» bisbiglia, abbassando la voce più che può perché, ha scoperto, alla gente piace quando lo fa. Ed evidentemente piace anche a Daniele, se il sussulto che la sua erezione dà contro la coscia di Marco deve essere interpretato come un indizio. Vai così, Sherlock. «Mordimi.»
Daniele va un po’ in tilt, a questo punto.
La battaglia campale che si stava srotolando nel suo cervello, trecento testardi neuroni spartani contro mille miliardi di mostruosità assetate del sangue di Marco, è come se venisse spazzata via da un tornado, che solleva tanta di quella polvere che lui non ci capisce più niente, e quasi gli lacrimano gli occhi. La doccia non serve a schiarirgli le idee, anzi, semmai le goccioline d’acqua che corrono sulla pelle dorata di Marco, trascinando giù le tracce di schiuma e gli ultimi residui di trucco, riescono solo a distrarlo ancora di più perché, oh, quanto vorrebbe leccarle via.
E, insomma, Daniele non-- Daniele. Non.
Proprio si blocca, sconcertato. Marco lo prende come una specie di buon auspicio, si allunga di nuovo, abbassa la voce di un’altra ottava.
«Mordimi,» ripete, quasi in un gemito, e Daniele, per un secondo, cede. Gli afferra la nuca con una mano, costringendolo a piegare il collo, ed è lì che spalanca la bocca e sta per azzannarlo, - animale animale animale animale animale romanista, - ma grazie a Dio riacquista il controllo, scuote la testa, si strofina le tempie tra pollice e indice, esce dalla doccia.
Gli dispiace sgocciolare sul pavimento, per cui prende il primo asciugamano che vede, che fortunatamente è uno di quelli giganteschi e morbidi, e se lo strofina addosso, spettinandosi i capelli, e poi se lo annoda in vita.
Marco intanto chiude l’acqua, viene fuori anche lui. Non è per niente contento.
«Dani,» dice, ma Daniele scuote la testa, non si volta a guardarlo.
«Scusami,» mormora, perché ha praticamente tentato di mangiarselo vivo, come minimo deve chiedergli scusa da qui finché campa. «Non dovevo, non-- Marcoli’, veramente, me devi scusa’. Mo’ è meglio che me ne vado.»
«No, aspetta, Dani, e aspetta!» Marco gli si piazza davanti, nudo e imperlato d’acqua; Daniele si lecca le labbra, ha la gola secca. «Mi ascolti un momento?»
«È meglio che me ne vado,» ripete, e gli guarda gli occhi, le labbra, le spalle, i fianchi, il petto, le labbra, le cosce, gli occhi. Non si calma per niente, la voglia di mangiarlo. «Marco, fammene anna’.»
«Prima ascoltami.»
«Marco--»
«Ascoltami.»
Marco, Daniele lo sa, è talmente testardo che l’hanno inventato per lui, l’aggettivo testardo. È talmente testardo che si aggrappa ad un sacco di cose per puro principio, e finisce per farsi male da solo. Daniele non vuole essere un’altra tacca sulla sua capa di chiummo, - che gliel’ha insegnato Marco, il termine, a lui e a tutta la squadra, quella settimana che s’era fissato che dovevano imparare tutti perlomeno un po’ di napoletano, - ma, per quanto abbia paura, non vuole neppure scappare così presto.
Gli viene da sorridere, allora, quasi, quando pensa, ho più voglia, che paura.
Si arrende, perché ascoltarlo non può fargli male, no? E probabilmente glielo deve.
«Dimmi,» sospira, quindi, incrociando le braccia al petto, poi ci ripensa. «È meglio se ti vesti, prima, però.»
Marco tentenna per un momento, poi gli fa un sorrisino furbo.
«È meglio se ci vestiamo tutti e due,» dice, e senza neppure prendere un asciugamano - per asciugarsi o coprirsi o, magari, tutte e due le cose; ah, quanto è ingiusto il mondo, - si avvia in camera da letto. Daniele lo segue, per quanto un po’ esitante, e lungo il tragitto si ferma a raccogliere da terra i propri boxer.
Marco non si preoccupa della biancheria, ma s’infila il pantalone largo di un pigiama, troppo leggero per la stagione, ma che perlomeno ha gli elastici sulle caviglie e non gli si arriccia addosso da nessuna parte. Di sopra s’infila una canotta, e Daniele sta per tirargli una manata dietro la nuca e dirgli di coprirsi come Dio comanda, ma si accorge che non fa affatto freddo, in casa, neppure per lui che è ancora mezzo nudo. Marco deve avere un termostato che funziona.
Daniele sospira, si dirige verso i propri vestiti, che Marco ha piegato ordinatamente e sistemato sulla seduta della poltrona accanto ai piedi del letto, il cappotto che riposa appeso alla spalliera. Gli si riempie il petto di una roba dolce e appiccicosa, ma si costringe ad andare oltre perché, Daniele, l’obiettivo primario è andarsene prima di ammazzare Marco Borriello. Sì, giusto.
«Che fai?» domanda Marco, e prima ancora che Daniele possa rispondergli, si è già chinato su un cassetto e ha tirato fuori un pantalone e una t-shirt. «Prendi questi, scemo. Halloween è finito.»
Sta sorridendo, cosa che ammorbidisce un sacco il suo tono di voce, e Daniele prende al volo i vestiti, quando Marco glieli lancia, e se li infila in fretta, imbarazzato non sa più neppure da quante cose. Sono comodi, e della sua taglia, quasi, e, beh, grazie.
«Grazie,» dice, ma Marco agita una mano per aria.
«Sciocchezze. Mi stai a sentire, però?» chiede, aggrottando le sopracciglia, e Daniele annuisce, un po’ stancamente.
«Sì,» sospira, e le braccia non le incrocia, stavolta.
Marco gli si avvicina, gli si avvicina, gli si avvicina, Daniele crede che voglia parlare, trema, quasi, in attesa di sentire cos’ha da dirgli e invece Marco gli accarezza la nuca, fa come per baciarlo e poi, quando le loro labbra sono ad un soffio di distanza, tira giù il viso di Daniele, e se lo preme contro la curva del collo.
Per un attimo, Daniele è come annegato nel buio; poi esplodono le sensazioni, tutte insieme, come un cazzotto sul naso. L’odore di Marco, la morbidezza della sua pelle, il rombo del suo sangue dentro le vene, più giù dentro le arterie, dovunque nei capillari; il suo respiro, lo schiocco di un osso quando sposta il peso da una gamba all’altra, e poi, Dio, il suo odore. Il suo odore, il suo odore, il suo odore è qualcosa per cui morire e Daniele dà uno spasmo impazzito, gli stringe i fianchi, tenta di alzare la testa perché non ce la fa, Marco è troppo vicino e il suo sangue e il suo odore e lui non riesce a controllarsi, non riesce a smettere di volerlo, lo vuole, lo vuole, il sangue, l’odore, lo vuole - e poi l’onda passa, Daniele respira, si riempie i polmoni di Marco ma gli sembra di riuscire a restare calmo.
Marco allenta appena la presa sul suo collo, e lui si raddrizza, lo guarda: gli basta guardarlo, gli occhi nocciola, il naso dritto, la bocca piena, per capire che, no, non è calmo, non è calmo per niente, è solo un fottuto leone acquattato nell’erba, pronto a saltare al collo della gazzella.
Marco glielo offre, il collo. Sta dicendo qualcosa, ma Daniele non c’è più e non lo sente, percepisce appena, come distante chilometri, il suono della sua voce, calda, gentile. Non gli importa. Si china su di lui, piano piano, per non spaventarlo; è freddo, sotto le dita di Marco, e Marco, sotto le sue, scotta come magma. Daniele lo sente dentro di sé, il mormorio del suo sangue. Chiude gli occhi, con le labbra cerca il punto in cui il battito della sua carotide è più forte. Marco si tende contro la sua bocca, non per nervosismo ma per cieca fiducia, per stupida voglia. Daniele sorride, lo punge coi denti per un momento e poi sta per morderlo e poi si tira su di scatto, gli occhi sgranati, terrificato.
È tornato.
«Dani?» Marco lo guarda, sorride un po’.
«Dio mio, Marco,» mormora lui, ti ho quasi ammazzato. Il sorriso di Marco s’allarga, si fa furbo e cazzone.
«Mi hai quasi ammazzato,» dice, come se fosse capace davvero di leggere nel pensiero. «Però quasi, vedi? Quasi. Un poco alla volta, se mi stai a sentire.»
Daniele non è proprio sicuro che sia la cosa giusta da dire, non è sicuro che Marco sia nel pieno delle proprie facoltà mentali, non è sicuro di niente, se non del fatto che l’ha quasi, quasi, quasi ammazzato. Quasi.
«Gesù,» soffia, spaventato, e Marco lo bacia piano, come un ringraziamento. Daniele non ci può credere, e ricambia il bacio, per scusarsi, per dirgli che, Dio santo, non vuole lasciarlo mai più. Magari a quello è meglio se non ci pensa troppo.
«Ti va di dormire?» domanda Marco, con un altro bacio. Daniele ha voglia di premere i canini contro le sue labbra morbidissime e leccare via il sangue, ma si controlla, ci riesce; si concede di languire nel pensiero solo per un momento, e poi lo butta via, premendo le dita contro la curva della schiena di Marco e baciandolo. Ancora.
«Dormire, sì,» annuisce. Marco sorride, lo prende - oh, - per mano e lo trascina a letto, buttandosi senza grazia sopra le coperte e poi calciandole via finché non riesce ad infilarcisi sotto. Daniele scuote la testa, ridacchia, s’intrufola accanto a lui con una certa educazione.
Marco gli si arriccia addosso dopo un istante, gli ficca i piedi in mezzo alle caviglie. Daniele gli accarezza i capelli ancora umidi, fissa il soffitto, ascolta il proprio cuore aggiustare il ritmo fino a battere a tempo con quello di Marco e poi, mentre sta allungando un braccio al di sopra della testata del letto, verso l’interruttore per spegnere la luce, - comodo, cazzo, perché non ci ha mai pensato?, - gli viene un dubbio. Ma piccolo, eh.
«Marco,» chiama, e Marco per tutta risposta gli si struscia addosso, ricordandogli molto delicatamente che hanno lasciato un paio di questioni in sospeso, là nel bagno, per colpa del suo demone interiore. Eh, Daniele è molto dispiaciuto. «Ascolta, com’è che... sai. Com’è che sei così tranquillo?»
Marco alza un po’ la testa dalla sua spalla, aggrotta le sopracciglia.
«In che senso?» chiede. Daniele fa una smorfia.
«Nel senso che-- sei tranquillo. Sono un vampiro, io, cioè, mezzo, in realtà, ma comunque, tu t’aspetti che la gente je venga un po’ un colpo, no? Ma tu gnente.»
È un po’ un mistero, eh. Marco sbuffa, torna a buttarsi tra i cuscini. Troppi cuscini.
«Richiedimelo tra due settimane,» brontola. C’è la luna piena, tra due settimane, non che Daniele lo sappia, perciò si acciglia di nuovo e non capisce. Gli accarezza il collo, gentilmente, la pelle che gli punge perché ha voglia di toccare di più, di baciare ancora, di mordere, magari, - maledizione, non gli passerà mai?, - e Marco s’inarca contro il suo tocco, mugola contento.
«Seriamente, Marcoli’,» mormora Daniele, con la voce più convincente che ha.
Marco sospira, lo guarda, tutto serio, lo bacia. Daniele, dopo, china un po’ la testa di lato, curioso. Marco sorride, tutto denti e occhi che luccicano.
«Sei Daniele,» dice, come se bastasse.
E, in effetti, basta.