Sep 03, 2016 18:17
Mentre faccio pausa dalla preparazione della lezione di martedì (vorrei tanto parlarvi dei miei apprendenti - passati, presenti e futuri - ma non soltanto c’è di mezzo la solita questione della privacy, che rispetto, ma anche un accordo di riservatezza firmato: affinerò sempre più l’arte di parlare di tutto senza parlare di niente, o viceversa), riprendo in mano il romanzo che sto leggendo (L’uomo che metteva in ordine il mondo di Backman) e lo apro all’altezza del post-it a pagina 123:
Un’ora più tardi, sono di nuovo nel garage di Ove. A quanto pare, l’imbranato ha un braccio e una gamba ingessati e dovrà restare in ospedale qualche giorno. Mentre Parvaneh lo informava, Ove aveva dovuto mordersi il labbro per non farsi scappare una smorfia di disgusto.
Ora toglie i fogli di giornale dai sedili della Saab, che puzza ancora orribilmente di gas.
Notate qualcosa di strano? No? Rileggetela di nuovo.
Ancora niente?
Neanche se vi dico consecutio temporum?
Dirvelo, più che aiutarvi, vi confonde? Un po’ confonde anche me, lo ammetto. Non sono neanche sicura di non averla menzionata a sproposito. A dirla tutta, non sono neanche sicura che lì ci sia un errore. D’altro canto l’uso del passato prossimo e del trapassato prossimo, quando usare l’uno e quando l’altro a seconda del tempo principale della narrazione, o meglio, del tempo a cui si riferisce, è stato al centro di diversi scambi che ho avuto con gli autori e le autrici di alcuni racconti che ho editato (nonché di qualche scambio con un’editor di professione).
Potrei, come ho fatto con gli autori e le autrici e l’editor di cui sopra, parlarvi di come il trapassato prossimo si usi per riferirsi un’azione che è passata rispetto al passato. Quel giorno mi svegliai alle 6. Mi era già capitato di svegliarmi così presto. Così come il passato prossimo si usa per riferirsi a un’azione che è passata rispetto al presente. No, grazie, non mi va un caffè. Ne ho già bevuto uno. (Paradossalmente, ma neanche troppo, ho imparato a razionalizzare l’uso del perfetto in italiano apprendendo quello inglese. Ma comunque.) E quindi:
Mentre Parvaneh lo informava, Ove si è dovuto mordere il labbro per non farsi scappare una smorfia di disgusto.
Ora...
(C’è un’altra postilla, a proposito di modali e tempi verbali: in teoria si dovrebbe usare, come ausiliare dei modali, quello del verbo che segue il modale - mordersi, qui, e quindi essere. Ma questo è in qualche modo secondario nel discorso che sto cercando, molto alla larga, di farvi.)
Gli scambi che ho avuto con autori e autrici mentre editavo sono stati dovuti proprio al caos che si spalanca quando in una narrazione usiamo flashback. C’è una linea narrativa al presente (No, grazie, non mi va un caffè, ne ho già bevuto uno.) e una al passato (Ma ieri sera lo avrei accettato: alle sette non avevo ancora bevuto un goccio di caffè.). Così sembra semplice. Quando però ci mettiamo a scrivere un racconto in cui presente e flashback si intervallano e richiamano l’un l’altro, il tutto sulla scia dell’ispirazione, a volte ci si perde. Per una frase, o per interi paragrafi, o addirittura per interi blocchi di narrazione.
Ma sto divagando.
(Ho detto che la sto prendendo molto alla larga, vero?)
Se ho messo un post-it all’altezza di quella pagina è stato perché quel trapassato prossimo poco convincente mi ha fatto ri-riflettere su una questione più ampia: quella della semplificazione della lingua. E non semplificazione nel senso di: Diciamo la stessa cosa ma con meno parole. E’ più un: Smettiamo di dire certe cose perché perdiamo la capacità di utilizzare le forme con cui esprimerle.
Oppure diciamo, senza volerlo, cose diverse, o cose ambigue:
«Ti va un caffè?»
«L’avevo già preso questa mattina.»
«Sì, ma adesso te ne va un altro?
Oppure succede il contrario: la mancante padronanza di una struttura fa sì che non venga neanche riconosciuta.
«Dal suo punto di vista, se tu l’avessi trattato bene, ti avrebbe risposto diversamente.»
«Ma io l’ho trattato bene!»
«Ma dal suo punto di vista l’hai trattato male. Quindi, se dal suo punto di vista tu l’avessi trattato, diciamo, diversamente da come l’hai trattato dal tuo punto di vista...»
«Ma io non l’ho trattato male!»
Per casi come questi (e la loro escalation che fa sì che una serie di notizie in congiuntivo vengano rilette come fatti assodati all’indicativo; o che eventi di vent’anni fa vengano riletti come se fossero accaduti l’altro ieri, quindi come ancora rappresentativi delle tendenze attuali, senza considerare le svolte che hanno seguito un trapassato prossimo) si esce dalle discussioni prettamente linguistiche e si sfocia in altro. Non so bene che cosa sia, quest’altro. Non so quanto distante o vicino sia (d)all’analfabetismo funzionale. So che è un qualcosa che non riguarda più soltanto la padronanza di strutture della lingua, ma la capacità di rappresentare fatti e opinioni e di interpretare le rappresentazioni linguistiche di un fatto o di un’opinione. Che è una questione che è tutt’altro che intrappolata nei libri: è il pane quotidiano di tantissime cose, tra cui la pubblicità (che, nella maggior parte dei casi, non mente, perché non può mentire; ma può usare la lingua apposta perché sia vaga e conduca, nella sua vaghezza, all’interpretazione più utile a chi vende).
Non è un problema nuovo, né per il mondo né per me. Ma sta diventando un problema per me più cruciale ora che vivo in Germania. Ora che, ossia, la mia esposizione alla lingua italiana è limitata, e quella alla “buona lingua” dipende sempre più da ciò che leggo. Ed è importante, ciò che leggo, in queste settimane in cui il mio numero di refusi ed errori in italiano è esponenzialmente cresciuto mano a mano che apprendo il tedesco. E’ una fase e da tale passerà. Nel frattempo, dipendo dalla lingua esterna a me come una poppante. Dipendo dalla lingua a me esterna come qualsiasi persona le cui abilità linguistiche stiano andando formandosi (beh, dai, un po’ meno - o forse un po’ più, chissà). Per questo, quando inciampo in una frase che non mi convince, vado in paranoia in loop:
Ma quella frase è veramente scorretta?
italiano,
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