May 15, 2014 12:43
Stanotte ho sognato J, realizzando che è ormai uno dei Leitmotiven dei miei sogni.
Come Leitmotiv, è un personaggio molto simile al se stesso reale - quel poco che conosco. Amichevole, gentile, accorto, e con quel qualcosa che lo rende, nella mia testa e nei miei sogni, un archetipo dell’amico. Forse persino un cliché dell’amico, ma in senso buono: amichevole, accorto, pronto a divertirsi. Accanto a ciò, c’è un dato più fondamentale di quanto vorrei: J è il ragazzo di A.
A è un po’ più che un Leitmotiv. Volendo essere romantica (lo sono), A è la persona che iniziò la sottoscritta adolescente all’amore per una donna. Volente o nolente. Volente o nolente, le voglio bene, per quell’affetto che si riserva a ciò che ha modellato la nostra visione del mondo. A che sparisce a fasi alterne, più o meno in corrispondenza con il suo avere o non avere un ragazzo. Non ho mai capito - forse non capirò mai, e questa è la mia maledizione personale - se sparisca perché, essendo impegnata, si sottrae al rapporto con me - quel rapporto che, quando si riattiva, non è poi così diverso da quello che ci ha fatte conoscere - o se sparisca per gelosia - e ancora: gelosia nei confronti di chi? Mia o del ragazzo? Di entrambi? L’ipotesi di J è “entrambi”, ma J è parziale, ma lo sono anche io, e il dilemma rimane irrisolto, e con esso il paradosso.
Conto sulle mani, ma mai finisco di contare, le donne che mi hanno allontanato dalla loro vita - a fasi o definitivamente - come si allontana una bestia non addomesticabile e che può mordere. Non loro. Che può mordere il loro ragazzo, suppongo, in questo grande regno delle supposizioni in cui, solitaria, cerco un senso a tale ingerenza di Murphy. Aborro la rivalità femminile - aborrò la rivalità in generale, quando presa troppo sul serio, ma quella al femminile mi è ancor più intollerabile - e questo dovrebbe garantirmi l’esserne esclusa. Quel “dovrebbe” è una speranza vicina alla fede: la speranza che, se noi eviteremo di fare una cosa, quella cosa eviterà noi. Ah-ah-ah. No. Vedo queste donne, che prima di tutto desidero, aver timore che io possa essere loro rivale - quando, semmai dovessi accettare un po’ di rivalità nella mia vita, questa si svilupperebbe con i loro ragazzi. E’ frustrante e sa di presa per il culo da parte del Creato, ma, ehy, sono stata io a scegliermi il Dio Che Ride.
Non che io senta una qualsiasi rivalità con J. Lo vedo troppo come un amico, e averci visto passare tempo assieme interrogandoci su A - entrambi un po’ preoccupati per lei, un po’ preoccupati per noi - mi rende impossibile ogni rivalità. Non è il primo. Non è il primo ragazzo, o ex-ragazzo, di una ragazza che ho frequentato, con cui sviluppo briciole di amicizia mentre ci tastiamo per trovare nell’altro qualche spiegazione su di lei.
Sembra un culto del femminile - io, che sono tanto anti-gender, e Dio ride mentre mi ficca in queste configurazioni e mi guarda nuotare perplessa come un pesce rosso in una boccia.
Intanto, nei sogni, un altro più presente Leitmotiv è S, la cui presenza mi conforta perché i nostri incontri avvengono in mare aperto - lì, al di fuori dei giochi sociali, in un più ampio territorio in cui si possa riconoscere la sacralità dell’incertezza.
Sogno S e guardo Hannibal anche a causa di S, del suo sentirsi vicino a Mr Lecter. Guardo Hannibal e mi trovo in mezzo - un po’ Hannibal e un po’ Will, un po’ di psicopatia e un po’ di iper-empatia.
Da qualche tempo a questa parte sto riconsiderando le diverse variazioni (deviazioni, credo si dica) della mente umana. Rifletto sulla psicopatia dopo averne (ri)realizzato - come di quante altre “malattie mentali”? - la dimensione sociale. Una disfunzione sociale che viene tramutata in disfunzione mentale e niente di nuovo sul Fronte occidentale. Porre la mancanza di una morale come un sintomo ha tanti presupposti, tra cui mi spicca il pensare che l’essere umano debba al naturale averne una. Non che io conosca molte persone pressoché prive di una morale - in bene e in male - ma, ehy, le minoranze vogliono sempre evitare il linciaggio.
Rifletto sulle malattie mentali perché non ci credo - o, perlomeno, non credo alla rappresentazione “popolare” delle stesse. Credo a un continuum di variazioni umane, più o meno morale, più o meno empatia, più o meno megalomania, più o meno ansia e via discorrendo. Credo al sentirsi stabili o instabili nella propria unicità, ma è un criterio assolutamente utilitaristico derivato dall’esperienza personale. Credo, poi, alle giuste e sbagliate coincidenze. A come un certo essere umano possa divenire il peggio o il meglio di sé a seconda della situazione in cui vive. Togliete un Will Graham dall’FBI e mettetelo a lavorare come artista e probabilmente vivrà felice e soddisfatto. Toglietelo dall’FBI e fatelo lavorare come contabile e la sua instabilità sarà molto meno romantica, molto più insensata, un senso di inutilità in aggiunta per farlo stare peggio. E speculo per opportunismo, ovviamente, per capire dove mettermi. Contare sulle serie TV, di norma, non aiuta. I personaggi che assommano in sé molte di quelle caratteristiche che reputo in me centrali finiscono male - o partono come Male, e quindi poi finiscono male. E’ come se non esistesse un modello di riferimento per le varie variazioni (sempre le deviazioni, sì) mentali. Solo due scelte: finire male o guarire. Come se quella parte di noi fosse un brutto e cattivo parassita che improvvisamente si è innestato nel cervello, e che il restante cervello ne sia passivamente assoggettato. Ma sono parziale.
Guardo Hannibal e da un certo punto di vista non vedo l’ora di finirlo.
Guardarlo sta accelerando un duplice processo che sta avvenendo nei miei sogni. Che sono sempre lucidi. E privi di morale, ovviamente.
Una volta non erano sempre lucidi. C’era eccezioni, ed erano tutte negative: da persona abituata a sapere di essere in un sogno, non ero abituata a dover subire quelle situazioni potenzialmente assurde e spaventose che compongono i miei sogni. Non sono spaventose e assurde, ovviamente, se so di esservi dentro. Chi teme di essere torturato quando sa che è un sogno, e che quindi finirà a breve? E poi avere sogni lucidi comporta, almeno il mio caso, l’averne un certo controllo - utile, quando ti stanno torturando. Puoi decidere di svegliarti, allora, come spesso faccio. E credi di essere sveglia, ma in realtà sei piombata in un altro sogno, non lucido, e nei sogni non lucidi le cose sono più assurde e spaventose e fatali.
Poi i miei sogni sono diventati tutti lucidi. Problema risolto da una parte, appare da un’altra. Sono lucidi ma fatico a uscirne. E’ da anni che non posso ricorrere al trucchetto del “mi ammazzo così mi sveglio”: il sogno, più sagace di me, fa in modo che io non riesca a farlo. Ho provato altri modi, uno dopo l’altro, fino a giungere alla pura volontà: nel sogno decido di svegliarmi. E mi sveglio, eh, anche se con una certa fatica, ma non so mai se mi sto svegliando in un sogno o se nella realtà della veglia. E vado avanti così, sogno dopo sogno, svegliandomi in un sogno da cui mi sveglio per entrare in un altro sogno e nel frattempo tutto scompare e rimango io in un letto, nella mia stanza, o in nella stanza in cui credo di essere, immobile nel tentativo di alzarmi, senza sapere se quello sia sogno o veglia.
E qui giunge il secondo problema: come distinguere i sogni dalla realtà. Immagino ognuno abbia il proprio trucchetto. Io li sto esaurendo. E’ come se la mia mente, per fottermi bene, avendo io sogni lucidi, li stesse rendendo sempre più simili alla realtà. E così, dopo i basilari “vertigini”, “solletico” e “piacere sessuale”, la sfera onirica sta apprendendo sempre più cose dalla veglia, Ora nei sogni sento alcuni tipi di dolore - gli arti tirati, contusioni, bruciature - e pian piano aumentano, in tipologia e intensità. Darsi un pizzicotto - cosa che comunque non ho mai fatto - non mi aiuta a capire se sono in un sogno o se nella veglia. Né fare calcoli matematici. Né fare altre prove di verosimiglianza con la veglia - e così mi trovo, mentre cerco di emergere dall’ennesimo sogno, ad allungare a fatica il braccio per svegliare VB perché mi svegli, e si sveglia e mi sveglia, ma poi sento rumore di passi in corridoio - e sto sognando o è realtà? Ehy, quella testa che fa capolino nella stanza, quella testa sconosciuta, è in un sogno o nella veglia? La mia visione del mondo post-strutturalista, in cui accade ciò che credi che accada, non aiuta. Quella testa che volteggia come una nuvoletta di fumo è nel sogno o nella veglia? Potrebbe essere nella veglia e potrebbe essere un solitario sintomo di scollamento con la realtà (lo attendo al varco). O potrebbe essere un sogno. E allora ci provo, di nuovo, mi concentro per svegliarmi - posso ancora svegliarmi? - ed ecco che sì, mi sento nuovamente inchiodata al letto, e VB dorme, e io fatico per allungare il braccio e la scuoto e cerco di chiamare il suo nome, a voce bassa che esce a fatica, e qualche notte fa ce l’ho fatta: sono riuscita a urlare il suo nome. L’ho urlato così forte da assordarmi (dicendomi, tra parentesi, che la volta successiva avrei dovuto moderarmi), ma lei non si svegliava, e allora era ancora un sogno?
Quando mi sveglio definitivamente ho nelle membra i dolori subiti nel sogno. Il pulsare di una contusione, se ho combattuto. La tensione dei muscoli tirati allo stremo, se ho cercato di muovere il mio corpo immobile. E mi domando: ma nel sonno non dovrei riposare?
angst,
dreams,
people