Titolo: My whole world surrounds you
Autore:
ary_true Beta:
lisachanoando Fandom: Inter F.C.
Personaggi/Pairing: José/Zlatan, accenni non troppo velati a Mario/Davide e comparsate di praticamente tutti gli uomini di casa Inter e dei bimbi del Barça \O/
Rating: R
Warning: Slash
Disclaimer: Questa fanfiction non è a scopo di lucro. Non si vuole offendere o essere lesivi nei confronti delle persone reali descritte. Niente di quanto narrato in questa fanfiction è realmente accaduto ma è frutto di fantasia, pertanto non si pretende di dare un ritratto veritiero di eventi o personalità. (Sono pigra e ho piccicato quello del regolamento \O/)
Note: completamente dedicata a
lisachanoando , per quanto ha fatto per me mentre la scrivevo, per quanto intensamente l'ha vissuta e perché senza di lei non avrei concluso niente. Davvero, viste le basse aspettative che avevo, sentirmi così capita mi ha fatto un piacere che neanche immagini. Vedere che tutto quello che mi pareva impossibile tradurre in parole per te era semplicemente lì, tra le righe, mi ha aperto il cuore e mi ha impedito di mollare il documento, anche se solo per te, quindi ti devo un grazie che neanche immagini quanto sia grande. Sei meravigliosa, mammina del mio cuore. *abbraccia*
Zlatan sa di non aver nessun diritto di sentirsi vulnerabile per quello. Lo sa perché è stato lui a volere qualcosa di più, qualcosa di nuovo e soprattutto lontano (il fatto che niente sia andato come si aspettava, poi, non c'entra proprio un cazzo). È stato lui a cercare una lingua sconosciuta, notti più lunghe e più calde, sfide più stimolanti, visi meno marcati dall’abitudine. È stato lui a mettere tutto quello tra sé e Milano, tra la sua carriera e una squadra troppo difficile da gestire, troppo invadente nel suo modo di amare per non spaventarlo, in qualche modo. Ma, soprattutto, Zlatan è dolorosamente consapevole di aver messo tutto quello tra sé e lui e questo, più di ogni altra cosa, gli dovrebbe impedire di lasciarsi sopraffare a quell’ammasso confuso di sentimenti che sente stingergli lo stomaco. Gli deve almeno questo. Ma nonostante non abbia il diritto di sentirsi così, nonostante se lo ripeta costantemente, più il 16 Settembre si avvicina e meno si sente padrone si sé, ed è una sensazione spaventosamente nuova. E l’incertezza che quello che sente possa filtrare in un suono gli impedisce di rispondere al cellulare. Che dopo giorni di incessanti vibrazioni, torna al silenzio.
*
Gli stadi affollati non lo hanno mai intimidito. Non ha mai avuto nessun timore delle urla e dei fischi avversari, anzi, li ha sempre accolti con la furia selvaggia di chi vuole zittire in modo perentorio e violento, e questo è un qualcosa che nessuno può cambiare. Anche adesso, a innervosirlo non sono gli ottantamila sugli spalti di San Siro, quanto il ritrovarsi a vagare nella casa di tante domeniche. Forse ciò che lo innervosisce è l’abitudine che lo lega a quel posto, l’automatismo con cui il suo corpo si muove da un corridoio all’altro, lo stato di confusione che deriva dallo scontro tra l’abitudine e l’idea di essere lì in vesti di avversario, di nemico.
Gli spogliatoi degli ospiti gli sembrano sconosciuti (e non lo sono, cazzo. Perché è da avversario che è entrato lì per la prima volta) e allo stesso tempo non riesce a pensare di andare da loro neanche per salutare. Non vuole salutare, non vuole sorridere a Javi e Ivan, non vuole abbracciare Douglas e Deki, non vuole giocare con Marco e Sulley e sicuramente non vuole che i bambini lo guardino con i loro occhi pieni di divertimento e affetto; non vuole fingere di essere lì con piacere, non vuole che il Presidente lo abbracci e lo guardi con occhi sereni come lo ha visto fare tante volte con tanti altri prima di lui. Non vuole essere trattato come verrebbe trattato Adri, perché lui non è Adri: non è un figliol prodigo, qualcuno da ricordare con affetto e trattare con benevolenza, ma uno stronzo che non merita più di una stretta di mano, uno che ha borbottato e rotto i coglioni sino alla fine, lamentandosi di una situazione in cui nessuno avrebbe avuto un rimbrotto, una specie di randagio sporco e cattivo che finalmente si è deciso a mollare la presa e a levarsi dalle palle.
L'armadietto in ferro è fresco contro la fronte e per un attimo sembra che la sua testa possa smettere di essere calpestata da tanti piccoli e malefici mostri terribilmente somiglianti a Gremlins.
Sa che tutto quello che si sta raccontando è un mucchio ignobile di balle. Che è meglio ripetersi che no, non vuole le carezze di nessuno, perché se si permettesse di cedere a quei gesti probabilmente la paura lo paralizzerebbe. E non può permettere che succeda. Non si è mai permesso di avere paura in vita sua, neanche quando si è ritrovato fuori di casa per la prima volta, ad Amsterdam, o quando a Torino andava tutto male e nessuno aveva fiducia in lui: se lo avesse fatto non avrebbe ottenuto niente e nessuno saprebbe chi è Zlatan Ibrahimović. Probabilmente sarebbe uno dei tanti immigrati di Malmoe, sotto pagato e stressato, e Helena non lo avrebbe mai sposato e non avrebbe Max e Vince. E lui non vuole pensare a cosa sarebbe stato se avesse permesso a se stesso di essere mangiato anziché di mangiare. Lui vuole solo scacciare quella sensazione di equilibrio precario, vuole vincere a tutti i costi e vuole dimostrare a tutti di non aver sbagliato. Cazzo, vuole avere San Siro ai suoi piedi e esultare e godere della disfatta interista così da ristabilire una linea di confine netta che separi cosa gli è lecito provare da cosa non lo è, così che da quelle parti nessuno cerchi più una buona parola per lui o lo costringa a sua volta a cercarne. Non se lo può permettere, di stare così. Non in questo momento cruciale della sua vita.
Ma probabilmente Dio se ne frega dei suoi desideri e di ciò che si può permettere. E quindi Davide e Mario riescono a braccarlo mentre sistema le sue cose e inizia a cambiarsi, nonostante i propositi di stare lontano da tutti e di concentrarsi sulla sfida.
Sentire le loro voci gli fa provare un senso di sollievo che gli libera le spalle in modo quasi comico da quella tensione nervosa che lì si era accumulata, pesante come un macigno. Davvero, si può essere più contraddittori e patetici di così? Può essere normale, a quasi trent'anni, risultare totalmente incapaci di resistere a una tentazione come quella? Probabilmente sì, per uno che non ha mai rinunciato a un desiderio che fosse uno. E tutto questo gli fa spuntare sulle labbra il primo sorriso da giorni. E non è un sorrisetto beffardo o sarcastico, è un sorriso piccolo e sincero. Si perde un attimo nella divertente constatazione che sono ancora così piccoli da fregarsene altamente del fatto che, di norma, non si va a rompere i coglioni a un avversario nel suo spogliatoio, specie se si gioca in casa (e quindi diventa maleducazione), specie se l’avversario non è una squadretta ma il campione d’Europa. E se ne fregano perché entra in conto l’affetto e la voglia di averlo tutto per loro almeno per cinque minuti, prima che questo scontro epocale tra nuovo e vecchio amore monopolizzi l’attenzione di tutti.
Non sa dire se la prima cosa che nota è la dolcezza del sorriso di Davide o il brillio vivace degli occhi di Mario, perché sembra che dall’ultima volta che li ha visti il loro affiatamento sia ulteriormente aumentato. Sa però di ridere di gusto e di avvicinarsi a stringerli, uno per uno, con Mario che lo abbraccia forte quasi fosse lui il ragazzino e non il contrario e Davide che è morbido e caldo come sempre e si fa coccolare come un cucciolo. Magari è questa complementarità nei gesti e nell'essere stesso a renderli uno necessario all’altro, così simbiotici, e si trova a invidiarli un po’ perché per lui niente è mai stato così semplice e così pulito. Mentre Zlatan continua ad accarezzare la testa bionda del più piccolo, l’altro borbotta uno sproposito di novità e conclude con qualcosa che somiglia molto a “Vieni da noi, che se il mister scopre che siamo scappati qui si incazza come un animale e ci sbatte in panchina per il resto dell’anno”, con un tono a metà tra l’eccitato e il cauto. E la sola menzione a lui lo fa tremare un po’, loro se ne accorgono e ignorano educatamente la cosa, trascinandolo fuori senza maglietta e con i jeans slacciati e continuando a stordirlo di chiacchiere sino a che non si trova di fronte al loro spogliatoio. E davanti a quella porta sente che tutto può avere ancora una collocazione ordinata e precisa, una collocazione che non lo spaventi e che gli faccia riprendere il controllo di sé, che renda la realtà reale e gli consenta di tornare a respirare la sua vita a pieni polmoni. E allora è lui ad aprire e a guardare chi è rimasto di quella famiglia sbilenca che si era costruito lì dentro: e lo fa con impazienza, con eccitazione e ansia insieme. E le urla che lo accolgono, le risate, gli asciugamani volanti... sono sempre gli stessi. Ci sono sempre Javi e Ivan che parlottano da una parte, e come lo vedono sorridono con indulgenza, come farebbero con un ragazzino della Primavera troppo eccitato e troppo spaventato per avanzare e cambiarsi come tutti gli altri; c'è Marco che fa commenti sconci sullo stato in cui si è presentato, prima di arruffargli i capelli e di ordinargli di entrare e chiudere la porta, perché "non ho intenzione di ghiacciarmi il culo. E visto che sono vecchio, piccolo stronzo, dovresti tutelare la mia salute!"; c'è Douglas che lo abbraccia ridendo e gli dice che davvero, ha bisogno di tagliarsi i capelli, e Deki che si limita a dargli una robusta pacca sul culo dandogli dello svergognato. E adesso non gliene fotte più un cazzo di raccontarsi niente, perché sente come deve muoversi ed è una cosa che non capitava da uno sproposito di tempo. E quindi ride e si abbandona a quell'attimo di tranquillità con la consapevolezza che vuole tutto: essere baciato e abbracciato, ridere e parlare con loro come sempre. Che l’affetto è ancora lì e non deve avere paura di lasciarlo fluire e di lasciarsene investire. Perché fa bene al cuore e alla testa e anche alle gambe, che smettono di essere pesanti e fragili assieme. E come ibambini blaterano qualcosa tipo "ma che stronzo, adesso che è qui tutti sono più importanti di noi che lo abbiamo recuperato!", lui si guarda intorno e vede anche quello che è cambiato ed è nuovo. E quindi un paio di occhi azzurri e limpidi, quelli di Diego, accompagnati da un sorriso morbido e da un "ciao": quello è il nuovo re di San Siro, da che ha capito. Anzi no, è il Principe. E poi Samuel, che lo guarda con un’espressione che non è né accogliente né infastidita, semplicemente indecifrabile: ma i suoi occhi sono scuri e Zlatan capisce che lo sta soppesando, per capire come, di preciso, abbiano potuto preferirlo a lui e come, soprattutto, abbiano potuto tagliarlo fuori da un progetto che era anche suo per uno che gira praticamente nudo in uno stadio gremito, facendosi tra l'altro molestare sessualmente dai suoi ex compagni. E lui risponde allo sguardo con una particolare occhiata, quella che vuol dire Sono cazzi miei quello che faccio. Sì, anche le molestie sessuali. Se non ti sta bene, fottiti. Poi qualcuno gli si presenta, vestito di tutto punto, ed è Sneijder, e lui gli stringe la mano senza pensarci, ricordandosi poi di averlo visto troppo vicino a lui per poter apprezzare la sua esistenza. E inoltre il dieci è di Adri e non c'è storia (Ed era suo. Solo che lui non lo ha voluto. Quindi è inutile guardarlo così): vorrebbe scoccargli quella verità sul muso, ma si trattiene perché non ne ha il diritto, perché quello sorride con una dolcezza unica e perché, in fondo, gli basta che lo sappiano tutti. Che lo sappia anche lui, nonostante quei sorrisi e quelle carezze. E comunque vedere Motta con il suo otto non gli provoca lo stesso fastidio, forse solo un'altra ondata di nostalgia, ma non fastidio. Forse perché lui non ha toccato ciò che non doveva toccare, forse perché ha sempre preferito lasciare ad altri il fardello di essere il simbolo affettivo della squadra e quindi il suo numero lo ha sempre considerato abbastanza emotivamentedistante dal quattro del Capitano e dal dieci del Fantasista, del Cuore. Un numero giusto, ecco, un numero privo di responsabilità indesiderate e di domande scomode (poi però il dieci lo ha voluto lo stesso. E quel suo volerlo davvero, sino a starci male, più di ogni altra cosa lo ha convinto che era tempo di fare le valigie. Se fosse stato un po' meno stronzo, magari non avrebbe bisogno neanche di pensarci, a cose del genere). Adesso che ci ripensa però, gli sembra solo un'idea del cazzo di un fottuto presuntuoso. Scuote la testa come a scacciare questo pensiero molesto e nel mentre dalla porta entra Julio César: l'abbraccio è ruvido questa volta, e come quello attacca a fare conversazione Zlatan ricomincia a guardarsi attorno, per imprimere ancora una volta i dettagli di quella stanza nella testa. È così che lo nota, un altro viso estraneo, sistemato in un angolo e con indosso soltanto i pantaloncini: pelle chiara, capelli biondi e gambe chilometriche. Deve essere l'austriaco, non ricorda il suo nome. Probabilmente è l'unica persona in quella sala a non prestargli nessuna attenzione, perché ciò che lo interessa è ben altro: sta osservando la curva del collo e della schiena di Davide con uno sguardo concentratissimo, sfacciato nella sua assoluta mancanza di preoccupazione che qualcuno lo noti e soprattutto carico di una voglia nuda e difficilmente fraintendibile. E anche Mario deve essersene accorto, perché attira Davide più vicino e gli posa un bacio sulla nuca, sussurrando qualcosa al suo orecchio. La reazione di Davide è immediata: i suoi occhi si chiudono per un attimo e il suo corpo si rilassa completamente tra le mani di Mario, mentre il rossore risale dal collo sino alle guance. Quello sorride allora, e continua a sussurrare qualcosa e ad accarezzarlo fregandosene della posizione in cui si trova e concentrandosi unicamente su Davide, che lo abbraccia stretto e nasconde il viso nell'incavo del suo collo. Questo è il loro modo di difendere la loro relazione: tornare ad essere uno per il tempo che i loro corpi necessitano di aversi e di respirarsi, per poi affrontare qualsiasi cosa insieme. E l'altro ragazzo deve averlo capito, perché scuote la testa e sorride un po'. Ma lui invece si sente ancora una volta un po' geloso, perché tra Davide e Mario sembra tutto così equilibrato e semplice e spontaneo e lui sensazioni simili non ne ha mai provate: per lui tutto è sempre stato troppo sbilenco e complicato e bruciante, e gli scoppi di sentimento con cui è iniziato tutto sono stati anche la causa della fine.
Così, quando Julio solleva un po' la voce e gli dice che Susana sente la mancanza di Helena e dei bambini, la morsa del senso di colpa gli stringe lo stomaco: non gli è importato di sradicare la sua famiglia da Milano, non gli è importato quante settimane Helena abbia passato rispondendogli a monosillabi. Non gli è importato perché non è lei quella a cui dovesse una spiegazione, non è lei che ha tradito con la voglia di farlo, non è lei che ama, non in quel modo almeno. E per quanto questo possa dargli la nausea, sa bene di non temere il suo sguardo e che potrebbe sopportare l'idea che lei possa voltargli le spalle, perché non è lui (Che le spalle non gliele ha voltate. E' stato lui a farlo per primo, senza preavviso e senza spiegazioni, con una fretta comica e maldestra).
E il nodo della sua paura, ora che è lì, non può più nasconderlo: tutto quello che non voleva, in fondo, era che gli unici occhi che davvero sono importanti fossero gli unici a guardarlo con indifferenza, o peggio ancora, a non guardarlo affatto. Perché allora essere lì, ancora in piedi, nonostante tutto non avrebbe avuto alcun senso.
*
Leo ha segnato. Lo vede correre, l'eroe della serata, e sente che tutti i compagni gli corrono incontro. Con la coda dell'occhio vede Bojan scattare dalla panchina e saltargli sulle spalle, perché una vittoria in rimonta solo lui poteva fargliela conquistare (perché per gli altri sembra essere così semplice e naturale ottenere quello che lui desidera e non ottiene mai?). E mentre loro festeggiano, Zlatan rimane fermo come un coglione in mezzo al campo, a guardare una scena che, probabilmente, sarebbe un siparietto privato. E quindi lui che con una mano scivola e stringe il fianco di Milito e con l'altra gli accarezza la nuca costringendolo ad abbassarsi per potergli parlare all'orecchio, le labbra che si muovono piano, praticamente incollate a quella pelle sensibile e piegate in quella smorfia a metà tra il divertimento e la solita espressione stronza di quando ha voglia di piazzare il colpo bastardo e vincente (L'espressione con cui si rivolgeva a lui, di solito). Gli occhi di Milito sono luminosi, la sua mano è poggiata sulle spalle del mister e si muove un po', come a voler saggiare la consistenza della pelle in quel punto, mentre lo ascolta con un sorrisino; come quest'ultimo si allontana e lo guarda in cerca di una risposta, Diego si morde le labbra e annuisce piano, ricevendo un sorriso luminoso in risposta e una carezza a palmo aperto, pigra e lenta, lungo tutta la schiena. Riesce quasi a sentirla sulla sua, di schiena, quella mano tozza e calda che scivola sempre più giù, carica di promesse. Riesce a sentire lo spettro di quelle mani sui fianchi, come quando erano lui che stringevano a palmo aperto, per toccare tutto subito con voglia, con possessività e l'esatta pressione di quelle labbra sul collo, sulle spalle, sulla mascella, sulle sue labbra stesse. Ricorda la prima volta che ha assaggiato quella bocca, con che aggressività l'abbia fatto, per poi sciogliersi piano, in tanti piccoli baci umidi e pazzi abbastanza da farlo uscire di testa; ricorda la prima volta in cui si è trovato a desiderare violentemente quel corpo addosso, durante una partita particolarmente esaltante; ricorda il calore bruciante e la sensazione soffocante di piacere della prima notte, come se quel momento fosse destinato a non tornare più; ricorda come sia stato facile abituarsi a quella voce, a quei tocchi casuali, a quei capelli pazzi e alle mille espressioni di quel viso e come, a quella tranquillità gioiosa, sia subentrata l'ansia febrille che non potesse durare, che dovesse andare, che non fosse il momento per quello. E ora, a distanza di mesi, è sempre al punto di partenza, perché la fitta di desiderio che lo attraversa per un attimo gli toglie il fiato, ma non è comunque intensa quanto la gelosia che in quel momento sente mordergli ferocemente le cosce e la pancia.
Era così anche con lui? Visti dall'esterno, i gesti che li legavano erano così sbilanciati e scomodi, ma soprattutto così evidenti? Le loro carezze erano così asimmetriche e disturbanti, agli occhi di un osservatore? I loro sguardi erano così carichi di non detti sconvenienti? Zlatan non sa rispondere a quelle domande che gli bombardano la testa. L'unica cosa che sa è che da parte sua non è cambiato niente, per quanto cazzo ci abbia provato e per quanto se lo sia imposto. E quindi presume che la fame dei suoi occhi sia rimasta inalterata nonostante il tempo, e così la naturale propensione del suo corpo a cercarlo. L'unico segno tangibile del tempo che è passato è la sua nuova maglia e il fatto che dall'altra parte nessuno lo guardi e si tenda in risposta verso di lui. E sa che è tutto quello che ha voluto. Ma non pensava potesse essere così, non lo pensava proprio, e vorrebbe urlare dalla frustrazione per quanto è stato stupido e presuntuoso pensare di essere l'unica pedina in campo di cui gli importasse. Ma invece comincia a correre, a sforzarsi di entrare in partita e quando Milito segna il gol del pareggio vorrebbe prenderlo a pugni sino a sfigurarlo. Quando serve l'assist vincente a Mario per il gol della vittoria e lo vede correre dal mister per un abbraccio invece è di nuovo fermo come un coglione in mezzo al campo. Perché è tutto troppo simile a un qualcosa di passato e privato e intimo per non sentirsi sul punto di crollare; così guarda i ragazzi festeggiare, pazzi di gioia per quella vittoria storica e sofferta proprio a casa e pensa stancamente che, nonostante l'affetto e l'intimità e le parole, quello non è più suo e con lui non c'entra più niente con quell'impresa.
In vita sua non crede di aver mai sbagliato tempi e modi come in quel momento preciso, perché sta lì mezzo ed è lontano anni luce da ognuna di quelle persone (come se stesse nel suo limbo personale) e nonostante tutto il fatto che quella gioia non lo riguardi più è comunque il pensiero più sbagliato che gli sia mai capitato di formulare.
*
Non sa da quanto tempo è chiuso in quello stupido stanzino. Non ha voglia di vedere i suoi compagni e le loro occhiate amareggiate e non troppo sottilmente scazzate, specie per quanto riguarda la sua prestazione, e non ha voglia di andare a congratularsi perché, grazie tante, ha perso. Su tutta la linea poi, quindi non vede per quale fottuto motivo dovrebbe volere attorno qualcuno o sorridere o parlare. È semplicemente stanchissimo, ecco. E vuole stare da solo per evitare che tutta l'acredine che sente sulla lingua possa combinare qualcosa di irreparabile. Non c'è niente di male nello stare seduti in un vecchio stanzino, in fondo. È familiare e lo fa sentire al sicuro, anche se ha trent'anni ed è fradicio di sudore e una doccia calda rappresenterebbe l'apice della sua giornata. In effetti però - avendo trent'anni ed essendo fradicio di sudore - c'è qualcosa di male a stare nascosti come marmocchi in uno fottutissimo stanzino, quindi non è il caso di continuare quella scenetta patetica con il rischio di essere beccato da una qualsiasi persona che, convinta di averlo capito (che poi, c'è davvero qualcosa da capire, in tutto quel caos?), si sentirebbe in dovere di aiutarlo e consolarlo - e lui sa che in risposta si sentirebbe davvero in dovere di picchiare forte questa persona, e non deve succedere. Esce da lì a testa bassa, vede davanti a sé il corridoio vuoto e sospirerebbe di sollievo se un dettaglio così insignificante in una giornata di merda fosse appena sufficiente a farlo sentire un po' più fortunato, ma non è così. E allora continua a camminare in quel modo, con la testa bassa come quando aveva dieci anni ed era buio e camminare per Rosengård metteva un po' paura, basso e magro com'era poi, fino a che non sente dei passi proprio davanti a sé. Non gli serve sollevare lo sguardo per capire chi è, anche perché una scena del genere, che sembra tratta da un filmetto romantico per anziani, solo con lui poteva viverla. Si prende tutto il tempo necessario, come sente quei passi fermarsi interdetti, per assorbire quel suono e capire che è tutto vero, per trovare il coraggio di sollevare la testa e guardarlo apertamente, ora che per l'altro è impossibile evitarlo e non può scappare e cazzo, anche lui lo deve guardare per forza (vero?).
Quando solleva finalmente la testa, non sente nessuna di quelle sensazioni devastanti che si sarebbe immaginato: nessun colpo al cuore, nessun respiro trattenuto, nessun cedimento delle gambe; tutto è normale, silenzioso e calmo, e questo gli lascia il tempo di notare quei particolari sicuri nella loro evidente notorietà, come i pantaloni neri di uno dei suoi millemila completi Armani che gli cadono morbidamente sulle gambe, i primi due bottoni della camicia chiara sbottonati che lasciano scoperta la pelle calda tenera e scura, le maniche arrotolate sugli avambracci abbronzati, l'orologio nero che porta sempre e la fede all'anulare sinistro (lui nel matrimonio ci crede davvero, si ricorda ancora una volta). Gli è tutto così dolorosamente familiare in quell'immagine che per un attimo pensa che ad allungare la mano potrebbe semplicemente toccarlo, senza nessuna implicazione. Poi focalizza bene le sue labbra contratte (vorrebbe allungarsi e sciogliere quella tensione evidente con le sue, di labbra, in un bacio infinito e dolce. Ma è sbagliato anche solo pensarci), le narici lievemente dilatate e infine gli occhi (e adesso, a guardarli, le sensazioni devastanti arrivano tutte: le gambe tremano, il respiro accelera e il cuore fa un po' tanto male); sono loro, ancora loro, e lo fanno sentire nudo come sempre, perché lì dentro c'è tutto quello che gli serve per capire a che punto sono arrivati, loro due: e quindi la tensione di un Che cazzo vuoi ancora?, la rabbia di un Non ti basta quello che hai fatto a loro, che hai fatto a me?, la delusione di un Non posso credere che tu, tra tutti, mi abbia fatto questo.; ma c'è anche qualcos'altro, che forse lo ferisce persino di più: la preoccupazione di un Che ti sta succedendo, Zlatan?, la tenerezza abortita di un Tu sai che vorrei ma non posso, la voglia violenta e nuda di un Negalo quanto ti pare, ma sei mio comunque. E lo sarai sempre. E non è possibile provare cose tanto distanti tra loro, tanto diverse e feroci nelle loro distanze da risultare infine complementari come due facce di una sola medaglia, ma sono loro e questa è l'unica spiegazione che dia a tutto un senso preciso. Sono loro e lui non è semplicemente lui, ma José. Quello che gli sta davanti adesso, bruciandolo con uno sguardo, le mani strette in un pugno per impedirsi di colpirlo (o di accarezzarlo?) e il corpo teso, sbilanciato per l'arresto improvviso, è José. Vorrebbe pronunciare quel nome ad alta voce per sentirne di nuovo il sapore, per sentire quanto un nome di una lingua dolce come il portoghese sia sbagliato sulle labbra di uno svedese, di uno slavo, e per fottersene di tutto, perché sono oltre questo. Ma sta zitto e lascia che il sollievo di quella trasformazione in termini scorra in ogni sottilissimo capillare del suo corpo insieme al sangue.JoséJoséJoséJoséJoséJoséJoséJosé. Ed è così liberatorio permettersi di pensare quel nome, permettersi di mettere in fila quelle letterine innocenti nel giusto ordine, provare la sicurezza che questo non sia andato perduto proprio da nessuna parte, lasciarsi cullare dall'abbraccio fantasma del ricordo solo per un attimo, che le lacrime pungono sotto le ciglia all'improvviso e senza controllo. Non vorrebbe fare anche questo, costringerlo in qualche modo a vedere cosa è rimasto di quello che è ed è stato, ma non c'è niente che possa fare per trattenersi con lui che lo guarda in quel modo e la terra che sembra mancargli sotto i piedi.
E allora stanno in mezzo al corridoio: José elegante e impeccabile nel suo completo e nella sua camicia di sartoria, adulto e lontano e serio, e lui sporco di terra e umido di sudore, con le ginocchia sbucciate, che si sente infinitamente piccolo e senza speranza davanti ai suoi occhi, nonostante il metro e novantadue e le spalle larghe e gli anni che si porta addosso. E continuano ad essere troppo lontani; sa di non poter colmare quella distanza, sa di non averne le forze e le risorse e sa che non è mai stato così in vita sua, e per questo allora anche lui lo guarda. Lo guarda per davvero, occhi negli occhi, con le lacrime che scendono impietose sulle guance come se non dovessero smettere più, e glielo dice: Prendimi, ti prego; Cristo, ti prego. Prendimi perché non ne ho mai avuto più bisogno di così.
E qualcosa cambia, impercettibilmente ma cambia. Le mani di José si aprono e tremano un attimo, la fronte si distende e il suo corpo si rilassa lentamente, quasi si stesse sciogliendo. Lo guarda attentamente e poi inizia ad avvicinarsi, mentre Zlatan ad ogni suo passo sente di stare andando sempre più in pezzi.
Poi ci sono solo le sue braccia, il suo collo, il suo odore. Non capisce bene cosa gli stia sussurrando all'orecchio mentre gli accarezza la nuca e la schiena, probabilmente è una battuta sul fatto che potranno ancora stare, in futuro, nella stessa squadra, dato che lui non gli ha segnato contro. Non ha molta importanza perché può finalmente toccarlo e lasciarsi cullare dal suo accento senza nessuna preoccupazione. Lo abbraccia come non ha mai abbracciato nessuno, neanche i suoi bambini, e singhiozza di sollievo quando sente la sua bocca sul collo, sulla guancia e infine sulle labbra. Si perde nel bacio, nel sapore del palato e nei denti che cozzano per la voglia di avere comunque di più, subito. E in quel momento sente che i pezzi stanno finalmente e definitivamente tornando insieme.
*
Zlatan non è esattamente consapevole di come siano arrivati in quella camera o di come sia rimasto completamente nudo. L'unica certezza è che la mano tozza di José non ha più lasciato la sua e che il suo pollice ha tracciato disegni indefiniti sulla sua pelle per tutto il tragitto dallo stadio all'albergo, rilassandolo al punto da farlo assopire sulla sua spalla. Ricorda vagamente che la voce di José non si è spenta neanche un attimo, ma il suo era un mormorio indistinto nella sua lingua madre, uno sfogo privato che lo ha visto indirettamente protagonista senza un reale coinvolgimento.
Adesso invece José è zitto e lo guarda tanto intensamente e con talmente tanta attenzione da stordirlo. Mentre il suo bacino lo inchioda contro il dannato muro le sue mani lo sfiorano ovunque, con calma e riverenza, saggiando il calore e la tenerezza della sua pelle e l'elasticità dei muscoli, Zlatan non riesce a muoversi, non ha la forza di farlo o più semplicemente non vuole farlo, perché l'unica cosa che desidera in quel momento è che il suo corpo sia solo di José e ne soddisfi la fame e ogni desiderio che si nasconde in quei tocchi un po' tremanti. A tenerlo fermo (non fermo fermo però, perché il suo corpo risponde alle carezze involontariamente e quindi è teso e vibrante) è soprattutto quello: le mani di José che tremano in quel modo, come neanche la prima volta insieme. Quelle mani che lo toccano quasi incredule, cercando di riprendere confidenza con ogni dettaglio e ogni spigolo del suo corpo, facendogli capire fino a che punto lo abbia ferito, fino a che punto gli appartenga nonostante tutto e fino a che punto quell'uomo lo ami, facendolo sentire prezioso, importante, bellissimo. E nessuno lo ha mai fatto sentire così, perché sentirsi desiderato (e lui si è sentito desiderato in un sacco di modi differenti) è una cosa completamente diversa dal sentirsi bello; per desiderare qualcuno bastano le parti basse, per farlo sentire bello invece ci vuole il coraggio di amarlo senza condizioni, e Zlatan solo adesso capisce cosa significhi essere il destinatario di un sentimento simile da parte di una persona come José. Lo capisce perché prima di quest'unico, ultimo anno a casa, prima di lui e di tutto quello che lui rappresenta e prima di tutto quello che hanno condiviso, non aveva mai saputo che esistesse una differenza tanto abissale tra le due cose. E ora che la conosce non può ignorarla, non può accontentarsi, non può fingere che si possa tornare indietro, perché tornare indietro significherebbe negare che tutto quello che gli ha cambiato la vita sia accaduto e Zlatan non è coraggioso (o stupido?) sino a quel punto, non fino al punto di perdere volontariamente la parte migliore di sé.
"Sei dimagrito troppo. Perché? Non stai mangiando?". La voce di José presenta una sfumatura di preoccupazione, come lo stringe ai fianchi per bene, facendogli scappare un mugolio persino imbarazzante. Gli viene da ridere a sentirlo così, preoccupato che in Spagna lo tengano alla fame, e quando la risata diventa reale apre gli occhi per vedere la sua espressione: lui risponde gonfiando un po' le guance in un’espressione terribilmente offesa e Zlatan allora ride più forte, abbracciandolo e lasciando scivolare baci umidi lungo la clavicola, mentre dalle labbra gli sfugge un "Grazie". José sospira e lo spinge più forte contro la parete, costringendolo ad allacciargli le gambe attorno alla vita e rendendo il contatto tra i loro bacini ancora più doloroso e piacevole insieme.
Zlatan lo vuole, lo vuole subito, contro quel fottuto muro e tutta la notte e tutta la vita, e ora che lo capisce, ora che non c'è spazio per l'indecisione e ci sono di nuovo solo loro due, non ha più paura. E ora che la vita e tutte le stronzate che ha fatto gli hanno dimostrato che ci sono cose che sfuggono alla volontà e alla ragione e ai limiti emotivi e mentali che ciascuno si pone, che il suo posto è uno solo ed è accanto a José, può sentire che non è solo in tutto quello, può sentire che effettivamente c'è una risposta ai suoi ti amo ti amo ti amo, ed è la più semplice e la più bella di tutte, perché è anch'io anch'io anch'io. José lo grida con ogni suoi gesto: è un anch'io ogni bacio sulle labbra, ogni morso, ogni spinta contro i suoi fianchi, ogni affondo all'interno del suo corpo e ogni carezza alla sua erezione furiosa. E Zlatan a quel punto sente solo quelle due paroline nelle orecchie, che lo stordiscono e lo sconvolgono e lo fanno sentire così bisognoso e supplicante e dipendente da tutto quello che quella scopata significa da farlo venire più intensamente di quanto non abbia mai fatto in vita sua, con un grido che non riesce a controllare e il corpo che collassa tra le braccia di José, che lo bacia ovunque mentre viene a sua volta. E non c'è niente da dire o da pensare, gli basta sentire quel respiro pesante contro la pelle sudata del collo per capire che ha finito la ricerca di una vita da nomade: semplicemente per lui non c'è altra casa che vada oltre quelle braccia.
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Il Bernabeu è luminosissimo e talmente pieno da fargli credere che il campo possa essere inghiottito da un momento all'altro da tutti i tifosi pazzi sparsi per gli spalti.
E' la partita della sua vita, Zlatan lo sa, quella per cui ha lavorato da quando il calcio è diventato più che un semplice sport, eppure, nonostante tutto, non sente la pressione di un evento del genere. L'unica cosa che percepisce, alla fine dei conti, è che si sente felice. Felice e soddisfatto e libero dal complesso di quella stupida Coppa, perché è arrivato fin lì e nessuno può togliergli questa conquista; felice perché il Barça non è più una squadra di estranei, ma semmai di nuovi compagni, con i loro gesti e le loro storie da riconoscere e da proteggere da sguardi indiscreti (e quindi una pacca sulla spalla di Pep, che prima ha guardato Bojan con occhi talmente intensi da far arrossire quel povero ragazzino, che si è piantato in mezzo al campo con un'espressione talmente carica di bisogno da impietosirlo), con le loro cazzate da prevenire (e quindi Leo che allontana le mani di Thierry dai fianchi del solito Bojan, che hanno indugiato un po' troppo per non imbarazzare il bambino di casa e per non far incazzare il mister) e con le loro conquiste da condividere (e quindi quella partita, quella finale, quella giornata e quella stagione intera); felice perché a vivere quel momento con lui (a separarlo dalla Coppa, a voler essere stronzi) ci sono i suoi ragazzi, i suoi amici, la sua squadra e quindi è sentirsi ancora parte di loro, nonostante tutto. Zlatan si sente molto orgoglioso di loro, che sono cresciuti e sono arrivati a guadagnarsi a suon di gol il tetto dell'Europa; all'inizio vedere quella cavalcata trionfale ha fatto un po' male, perché era esattamente quello che sognava per loro (per lui e per l'Inter, insieme) e invece i ragazzi ci sono arrivati da soli, senza di lui, e questo ha fatto riemergere tutti i se e tutti i ma di quando ha deciso di chiudere con Milano (Se non andassi? Se rimanessi qui per sempre? Ma se non cambia niente? Ma se lo faccio, che cazzo succede poi?). Ora semplicemente pensa che questo è il destino e che evidentemente la sua vocazione è quella di tenere ciò che più ama lontano da sé per poterlo sentire più vicino al suo cuore. E' così che è andata con José, alla fine, e quale altro esempio potrebbe calzare altrettanto bene? José è l'Inter. José è il motivo per cui lui è in quello stadio e si sente così sereno da potersi giocare quei fottuti novanta minuti fino in fondo. José è quello che in quel momento strilla contro Mario che ha preso in spalla Davide e lo porta in giro come un pacco, quello che si è presentato a casa sua a sorpresa uno sproposito di volte, anche solo per una notte insieme, quello che lo ha chiamato alle due del mattino per dirgli Voglio che a Madrid ci arriviamo insieme e quello che gli dà la sicurezza che questa serata sarà memorabile comunque, a prescindere dal risultato. Perché se vincerà lui, Zlatan non sa neanche che cosa farà, talmente sarà bello il momento in cui solleverà la Coppa; e se invece vincerà l'Inter, vincerà il suo cuore, vincerà la sua famiglia, e quindi godrà di ogni urlo, di ogni sorriso e di ogni abbraccio e di ogni lacrima; e in quel caso vincerebbe José, e la gioia e l'orgoglio di José sarebbero i suoi, perché lui è José e José è lui, e questo è l'unico comandamento verso cui ha deciso di orientare la sua vita.
Così, quando Zlatan sente chiamare il suo nome dagli altoparlanti, il primo sguardo che cerca è il suo, già puntato verso di lui. José sorride un attimo, lo incita con un gesto e poi si volta dall'altra parte, verso i suoi ragazzi. Ed è con il suo sguardo ancora addosso che Zlatan corre verso i suoi compagni e urla sollevando la testa al cielo, sentendosi finalmente invincibile e libero di volare sul campo.
Note:
Avrei voluto spiegare un sacco di cose di questa storia, ora che mi trovo a compiere il grande passo della pubblicazione invece non so più che dire. L'idea mi è venuta al mare, il giorno stesso dell'estrazione dei gironi di Champions, e semplicemente grazie al supporto di liz sono riuscita a concluderla.
Non mi aspetto che piaccia o che la si giudichi particolarmente originale (dato che io stessa non lo penso XD), semplicemente mi pare giusto pubblicarla dopo quanto è stato fatto (non da me, ma dalla citata liz XD) per farla venire fuori fino all'ultima parola.
Non sono una che scrive spesso, anzi non lo faccio quasi mai. Probabilmente è per questo che tutto mi pare strano e nella mia testa tutto suona meglio di quanto non faccia nero su bianco, però va bene così.
Il titolo è preso dalla bellissima Blurry dei Puddle of Mudd, che poi sarebbe la colonna sonora delle sensazioni di Zlatan in questa storia <3
Beh, non so che altro dire (e ciò è strano). Spero solo che il mio contributo al Jobra non scateni le ire del DDF \O/ *manda baci a tutte le casuali lettrici/i casuali lettori*