Fic: Principi E Principesse

Jan 07, 2012 17:16

Titolo: Principi E Principesse
Autrice: lisachanoando (lizonair)
Beta: el_defe
Capitolo: 1/1.
Riassunto: Mario prova per una volta a salvarsi da sé. E stranamente ci riesce.
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Mario Balotelli, Roberto Mancini.
Generi: Introspettivo.
Rating: PG.
Avvertimenti: Gen.
Wordcount: 1010
Note: Niente, boh, cioè. *ride* Potrei nascondermi dietro un dito e dire che questa storia l'ho scritta per la Maritombola @ maridichallenge (actually, sì, per il prompt #73, "Le favole sono la cosa più importante della nostra vita. Anche da grandi si scrivono favole." (Roberto Benigni)), ma la verità è che, anche senza tombole e binghi di mezzo, questa storiellina l'avrei scritta comunque. Non so perché, è che boh, ogni tanto Mario mi ritorna in testa di prepotenza, e si mette a parlare a macchinetta, e io in qualche modo devo dargli sfogo, o non me ne libero più. *ride*
Vorrei dedicarla alla ary_true perché sì, comunque. Avrei voluto che la leggesse in anteprima, ma non siamo arrivate a beccarci, quindi niente XD Però è comunque tutta sua.

PRINCIPI E PRINCIPESSE
Mario ha sempre creduto nelle favole. Favole un po’ strane, forse, sì, d’accordo, non certo le favole che chiunque altro racconterebbe ai propri figli nel tentativo di aiutarli a dormire, ma lui ci ha sempre creduto, ecco, nella sua personalissima visione favolistica del mondo lui ci ha sempre creduto, così come ha sempre saputo che, quando sarebbe stato abbastanza grande - non adesso, forse mai, non quantifica i tempi, e d’altronde nelle favole è tutto sempre c’era una volta, ma una volta quando?, e per sempre felici e contenti, ma per sempre da quando in poi? - quando si fosse sentito pronto, sarebbero state quelle le storie che avrebbe raccontato ai suoi bambini. Le sue.
Per Mario è importante credere nelle favole, perché lui da una favola è venuto fuori. Abbandonato da genitori troppo poveri per potersi permettere il lusso di amare un bambino che fin dalla nascita pretendeva troppo denaro anche solo per essere tenuto in vita - attaccato a tubicini troppo sottili, aperto in due su un tavolo operatorio fino a lasciargli sulla pelle segni irregolari e indelebili che si sarebbe portato dietro per sempre - poi adottato da due anziani sovrani che di figli ne avevano già avuti tre ma sembravano non poter fare a meno di un altro piccolo erede, poi cresciuto a sgomitate e calci, temprato dai campi di calcetto di una terra in cui resti negher anche quando parli lo stesso dialetto del tuo cazzo di vicino di casa, e poi trasferito altrove, in una realtà più grande, in un posto che invece coi luoghi in cui era cresciuto non c’entrava proprio niente. Un posto tutto pulitino, tutto perfettino, tanto, troppo per sentircisi a proprio agio.
E mentre lui stava lì in Pinetina a fare la principessa sul pisello e a non farsi piacere niente e a lamentarsi di quanto gli mancasse casa angosciando chiunque gli capitasse sottomano in uno stordimento di chiacchiere senza senso sulla polenta di sua madre che oh, come la faceva lei, minchia, nessuno, la favola intorno a lui si andava raccontando, e lui neanche se ne accorgeva.
E poi era successo che un giorno l’allenatore era tipo passato dal campo sul quale lui si allenava assieme a tutti i suoi compagni, e l’aveva visto. E l’aveva fermato. Ed aveva voluto parlare con lui.
- E tu da dove vieni? - gli aveva chiesto, e Mario aveva ghignato.
- Brescia. - aveva risposto, senza preoccuparsi di nascondere l’accento, anzi, sfoggiandolo sfacciatamente.
Mancini s’era fatto quasi indietro di un passo, stupito dalla cadenza inaspettata della sua voce, e poi aveva sorriso.
- Ah, Balotelli! - gli aveva detto, battendogli una pacca di quelle pesanti - di quelle da uomo - sulla spalla, - Proprio te cercavo. Vieni, vieni dall’altro lato.
E Mario era andato dall’altro lato, e da quel lato dal quale era venuto non ci era più tornato. Salvato da un principe in tuta di acrilico, senza mantello, senza cavallo e col più vezzoso ciuffo di capelli bianchi a spiovere sulla fronte che lui avesse mai visto.
*Mario ha continuato a crederci, nelle favole, ha continuato a crederci intensamente anche quando la sua favola sembrava dovesse andargli a rotoli sotto i piedi. Quando l’idea di gestire il pallone non era neanche un problema perché tanto il pallone, al di fuori dell’allenamento, neanche lo vedeva. Quando tutti intorno a lui diventavano grandi, si laureavano campioni d’Italia e d’Europa e del mondo, e lui restava un po’ indietro, un po’ in disparte, assente a tutti gli appuntamenti importanti, in lotta con l’imperatore crudele che sembrava divertirsi a rifiutarsi di capirlo.
Mario ha continuato a crederci, anche se ad un certo punto della propria vita era arrivato a capire che i principi azzurri, specie se non hanno un cavallo e nemmeno un mantello, non puoi pretendere di restare lì ad aspettarli se non hai mai provato ad andarli a cercare.
È per questo che, a un certo punto, Mario solleva il telefono e chiama il Mancio per primo. Perché non può farcela da solo, ma non ci sta a restare principessa in un mondo in cui le principesse esistono solo per essere addobbate in trine e merletti ed esposte al fianco del loro principe salvatore.
Lui a salvarsi da solo non può riuscirci, ma può provarci, almeno, ad essere il principe di se stesso.
*Quando arriva a Manchester, piove, e lui ha subito l’impressione di dovercisi abituare in fretta. Guarda il cielo grigio sopra la città e un po’ gli ricorda Milano, e distrattamente pensa che forse abituarsi non sarà poi così impossibilmente difficile.
Poi abbassa lo sguardo e c’è il Mancio che lo guarda con aria schifata, facendo la radiografia alla vecchia tuta da ginnastica che indossa e alle scarpe da tennis devastate dagli anni che calza ai piedi.
- Non credo di averti mai visto conciato così male. - commenta, - Si può sapere da dove vieni?
“Dritto da casa,” vorrebbe dirgli Mario, “avevo tanta fretta di partire che mi sono messo addosso la prima cosa che ho trovato, ho ficcato le prime quattro cose in vista alla rinfusa in un borsone e mi sono precipitato a Malpensa.” Ma non lo dice, perché un po’ si vergogna. Sorride, invece, e quando parla lo fa sfoggiando sfacciatamente il proprio accento come al solito.
- Da Brescia. - risponde, e nel farlo gli viene quasi da piangere. Mancini non capisce, non ricorda, forse, e a Mario non importa.
- Tu ti sei completamente rincretinito. - sospira, voltandogli le spalle e facendogli strada verso la macchina privata che li aspetta appena fuori dall’aeroporto, e Mario è così contento che potrebbe anche scoppiare, perché tutto è nuovo e ci sono mille storie che partono proprio da questo punto, e lui non vede l’ora di riuscire a raccontarsele. Poco importa che per Mancini questo momento non abbia il minimo significato, che per lui non sia un’emozione, forse non lo è stata neanche la prima volta, quando gli ha aperto le porte di una vita diversa senza stare a rifletterci poi molto, l’importante è che Mario lo sappia.
Che lo sappia. Che è stato salvato ancora. Ma stavolta è stato un po’ anche merito suo.

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