Fic: Attraverso lo specchio

Mar 16, 2011 01:31

Titolo: Attraverso lo specchio
Autore: el_defe
Beta: Anybeaver (solo la prima storia)
Personaggi: Un bel respirone? Bedy Moratti/Massimo Moratti, Diego Milito/Samuel Eto'o, Dejan Stanković/Siniša Mihajlović, José Mourinho/Mario Balotelli, Cristiano Ronaldo/Luìs Figo, Mario Balotelli/Zlatan Ibrahimović, Daniel Alves/Douglas Maicon, Wesley Sneijder/Yolanthe Sneijder-Cabau, Davide Santon/Mario Balotelli, José Mourinho/Zlatan Ibrahimović
Rating: 16+
Warning: slash, linguaggio, missing moment, what if?, future!fic (i warning non valgono per tutte le storie della raccolta)
Conteggio Parole: 4,720 (FDP)
Note: Dunque XD Il titolo è una citazione dell'omonima opera di Carroll. Tutte le lyrics di questa raccolta vengono dalle canzoni dell'album La finestra dei Negramaro.
Tutto nasce quando io e liz facciamo insieme un challenge su picspammy, in cui ci viene chiesto di produrre sullo stesso tema, scelto insieme. Nello specifico, dieci OTP sull'Inter. Va a finire che produciamo due picspam bellissimi, con punti in comune e differenze, scelte di foto simili o completamente all'opposto, e che il suo sta qua.
In questa raccolta, troverete dieci storie: alcune ripercorrono momenti passati, altri l'immediato o un remoto (e improbabile) futuro. Tutte, senza eccezione, si ispirano alle citazioni scelte da liz in quel picspam. E niente, buona lettura - e buon compleanno, mio tesoro. ♥
Prompt: Regalo, Sera, Doccia, Divergenze, Compleanno, Cena a lume di candela, Follia, Premio, Jolly - Ritorno a casa, Avventura @ bingo_italia
Disclaimer: Questa fanfiction non è a scopo di lucro, non vuole offendere o essere lesiva nei confronti delle persone reali descritte, né pretende di dare un ritratto veritiero di eventi o personalità
Intro: Attraverso uno specchio che distorce lo spazio, annulla il tempo, si apre su una dimensione che è privata e insieme di tutti.


ATTRAVERSO LO SPECCHIO
(e quel che insieme ci trovammo)

Occhi dentro occhi e prova a dirmi se
Un po' mi riconosci o in fondo un altro c'è sulla faccia mia
Che non pensi possa assomigliarmi un po'
Mani dentro mani e prova a stringere
Tutto quello che non trovi negli altri
Ma in me quasi per magia
Sembra riaffiorare tra le dita mie
Potessi trattenere il fiato prima di parlare
Avessi le parole quelle giuste per poterti raccontare
Qualcosa che di me poi non somigli a te
(Quel posto che non c’è)

Bedy ti poggia una mano sulla spalla, così lieve che faresti fatica a sentirla, se non riconoscessi la sua presenza nel modo così naturale che vi contraddistingue; quasi certamente vuole soltanto sapere se stai bene - come è possibile anche solo pensare di stare meno che bene, in una notte così? - o se hai bisogno di qualcosa - fermare il tempo, è possibile? - o solamente farti sapere che ti è vicina - grazie.
«Ricordi lo scudetto?» le chiedi, stupendoti di quanto sia tremolante la tua voce; è una reazione comprensibile, di certo non è inaspettata, eppure il tuo stesso suono ti lascia ugualmente basito.
«Non sono ancora così vecchia, Massimo» ti risponde, e ti riesce facile immaginarti alle tue spalle il suo sorriso che ha impiegato più di cinquant’anni per essere un tutt’uno col tuo.
«Non questo» precisi, sorridendo a tua volta e ignorando il fatto che non possa vederti. «Il numero quindici» dici, sicuro che non avrà difficoltà a ricordare con esattezza la partita giusta, l’annata esatta, perfino le facce di quei giocatori che hanno brillato una sola giornata o un’intera stagione. Come te.
Dopo un attimo di silenzio commosso, mormora semplicemente: «Certo». In quella sola parola, racchiude una vita intera, da una treccia castana tirata per dispetto nel cortile di casa all’antiquato schermo televisivo su cui avete seguito partite di calcio e repliche di film fin troppo noti per essere dimenticati o liquidati con una risata nostalgica. Sai cosa fare, d’un tratto.
«Portala tu.»
«Eh?» Bedy è seminascosta dalla mole del trofeo. Comprendi la sua confusione, ma non cambi idea.
«Portala tu» ripeti, lasciando la presa sui grandi manici della Coppa, con la C maiuscola (o è COPPA, ogni lettera grande come l’impresa che ognuno di voi ha perseguito fino alla fine?) e vedendola barcollare per la sorpresa - ma solo per un istante - sotto il peso del trofeo. «Vorrei che potessi reggerla per sempre.»
«Grazie.»
Riesci anche a ridere, nonostante il groppo in gola che non va più via. «Smettila di tramare alle mie spalle» le dici, ben sapendo che si inventerà qualcosa perché questo momento resti davvero per sempre nella tua memoria: magari tappezzerà il tuo ufficio con le foto che avete scattato tutti insieme dagli spalti, o raccoglierà le firme di tutti i tuoi giocatori e tornerà qui personalmente per raccogliere l’ultima che manca, chissà... ma ti imponi di non pensarci, di non far altro che inspirare l’aria umida e calda di Madrid, finché dura.

Quando vai via da me porta via quello che sei
Sai che peso su di me la tua pelle se poi non c'è
Tanto non mi importa quanto cielo dovrò strappare
Per coprire e accarezzare quel sorriso
Che neanche il mare sa di avere
E se sarai via da me io sarò quello che sei
(Neanche il mare)

Nei momenti precedenti alle grandi sfide (e non necessariamente le partite “memorabili, comunque vadano”), Diego è nervoso. Lo era il giorno che ha rimesso piede a Genova e quello in cui, con le lacrime agli occhi, ha salutato quella città per affrontare un futuro che (finalmente) si riprometteva di essere radioso; lo è prima di scendere in campo, quando si rende conto dell’importanza dei tre punti per un turno di campionato favorevole e quando sa che, senza una vittoria, ogni speranza di andare avanti in coppa sparirebbe d’incanto.
Il suo non è mai un nervosismo tale da bloccarlo, da impedirgli, se non di giocare men che bene, di impegnarsi al massimo delle sue possibilità; spesso basta il primo tocco al pallone, una pacca sulla spalla dopo l’allenamento di rifinitura, anche soltanto uno sguardo incrociato con le persone che conosce meglio, quelle di cui può incondizionatamente fidarsi.

Samuel - o meglio, il sorriso di Samuel, quello che gli si estende da una parte all’altra della faccia - ha scardinato quel suo sistema di certezze con l’efficienza di uno scassinatore. Anche quando tutto va decisamente per il meglio, anche quando le squadre battute si accumulano, l’una dopo l’altra, nel bagaglio di vittorie che si fa sempre più imponente e che comincia a trasformare un’ottima annata in una stagione in cui vincere la sfida più grande non sembra essere così proibitivo, cercarlo con gli occhi e vederlo sorridere sempre, per lui, ha il potere di rilassarlo come ormai nient’altro riesce a farlo.
Diego inspira, sorridendo di rimando, ed espirando sembra che la nuvola di inquietudine e tensione si disciolga in quell’alito, come sempre. Sì, si dice, allacciandosi gli scarpini e saggiandoli sul pavimento degli spogliatoi per assicurarsi che tengano, posso farcela.

Madrid li attende entrambi, distesa in un immenso abbraccio soffocante, in attesa della sera del Principe.

Respiri tra i denti i miei pensieri
Prima che ritornino
Quaggiù nella pancia quelli di ieri
Speri non dover sentire mai più dalle labbra
Che ti han saputo dire
Di più dei pensieri che non ti so spiegare mai
(La finestra)

«Ehi.» Siniša apre la porta quel tanto che basta per permettere a Dejan di scivolare all’interno della stanza, ancora fresco di doccia. «Non ti aspettavo.»
«Volevi tenerti la stanza più grande tutta per te?» ironizza, tornando serio dopo appena un momento. «Nervoso?»
«Non troppo» ammette di rimando, passandosi una mano sulla nuca. «Non ho ancora sonno, comunque, quindi un po’ di tensione credo di avercela.» Fissa Dejan negli occhi con un sorrisetto che fatica a trattenere - lo conosce troppo bene perché possa intendere diversamente quella visita notturna. «Non ne hai neppure tu, immagino.»
«Già» risponde semplicemente, pensieroso come non mai; Siniša si dibatte tra la voglia di sapere cos’è che tormenta lui, invece, e quella di smettere di parlare, tanto per cominciare a fare qualcosa per rompere quella tensione improvvisa, inconsueta e comunque non troppo piacevole. Alla fine opta per quello che gli sembra un buon compromesso, avvicinandolo a sé per baciarlo piano sulle labbra umide, ignorando le gocce d'acqua che gli piovono sulla fronte, e attendendo una spiegazione alla mancanza della sua solita irruenza.
«Non lo so» risponde automaticamente Dejan alla domanda che Siniša non osa porgli, in un fiato che riesce a insinuarsi tra loro mentre approfondisce piano quel bacio, proprio come se fosse la prima volta. «Forse è che...» balbetta, accarezzandogli la schiena al di sotto del pigiama, e all’improvviso sorride, «... non l’ho mai fatto con l’allenatore in seconda. È un’esperienza che mi mancava.»
Siniša si allontana di qualche centimetro da lui, incredulo. «Sei serio?» dice, scoppiando a ridere un attimo dopo.
«Certo che no» lo prende in giro, sfilandosi la maglietta e avventandosi su di lui un bacio dopo l’altro. «Però è diverso, devi ammetterlo» aggiunge, spiccando un balzo che costringe Siniša a una fatica immane per tenerlo in equilibrio, anche aiutandosi con la provvidenziale parete dietro la schiena di Dejan.
«Sì, proprio» ironizza a sua volta, senza smettere di baciarlo e toccarlo. «Dormiamo insieme da così tanto tempo che neanche me lo ricordo più, quand’è che è iniziata, e mi vieni a raccontare balle come questa.»
«Credimi, non vuoi ricordartela, la prima volta» sorride innocentemente, lasciandosi trascinare a letto. (Dopotutto hai una certa età, lo deriderà nel cuore della notte, nuovamente sotto la doccia, e soltanto per costringerlo a smentirlo seduta stante.)

Ti servirà cercarmi se
Il tempo chiede il resto poi
A te che non hai pianto mai
E il tempo per il resto vuoi
È così, e va via un po’ di noi
È così che se ne va
Senza tante parole
Senza fare più rumore
(È così)

«Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?» Il sarcasmo nella voce di José non sembra naturale, anzi la forzatura è evidente al punto da mettere a disagio entrambi non appena il silenzio si estende tra loro come un muro di gomma che minaccia di non lasciar passare le parole dell’uno o dell’altro; neanche il caffè che viene servito da un’impiegata o le tre telefonate che arrivano al telefono di José servono a molto per stemperare la tensione.
«Florentino punta molto su di te» aggiunge dopo un bel po’ di tempo, gli occhi chiari e velati di stanchezza dall’ennesima notte insonne fissi nei suoi, scuri e inquieti e in generale a disagio nel ritrovarseli ancora addosso, ma non abbastanza turbati da abbassare lo sguardo. «Al punto che potresti chiedergli la luna ogni mese.»
«Come mezza Europa. O almeno, quella metà che può permetterselo.»
«Non c’è così tanta gente, fidati. Non devono pagare solo te, ma anche Mansour.» José torna a guardarlo negli occhi, e ancora una volta lui lo sfida e non distoglie lo sguardo. «Ma questi sono problemi di cui discuterà lui con quel maiale del tuo agente. Quindi il punto è: cosa vuoi tu?»
«Giocare. Nelle squadre migliori, con gli allenatori migliori.» Si apre in un sorriso un po’ sghembo, come se lo facesse soltanto per caso. «Cos’è che vuoi tu, José? Perché tu non sei Florentino, tu non mi vuoi.»
«Dovrei? Non hai paura di niente, non porti rispetto a nessuno, e a me meno di chiunque altro; e dubito fortemente che due anni in Inghilterra abbiano estinto i tuoi bollenti spiriti.» Si alza con lentezza, facendo il giro della scrivania e dandogli le spalle mentre si trova dietro di lui. «Al massimo li ha sopiti.»
«Forse. O forse no. Mettimi alla prova, se ci tieni.»
«Te l’ho mai detto, che mi piaci proprio per questo motivo?» José glielo sussurra sul bordo dell’orecchio, senza preavviso, e lui fa letteralmente un balzo dalla sedia per la sorpresa e lo sgomento, cercando un appiglio mentale per comprendere l’enormità di quella ammissione. «È per questo che non ti voglio, qui. Un anno o due è un periodo troppo breve per lavorare bene con te. Non voglio ripetere di nuovo lo stesso errore che ho fatto con tanti giocatori di talento.» Si lascia scappare una risata amara. «O con te.»
«Quindi?» ribatte, appoggiando le mani sui braccioli della poltroncina, ma senza osare far forza per alzarsi e andarsene.
«Quindi, se per una volta hai intenzione di ascoltarmi nella tua vita: va’ a Milano, Mario.» José, se possibile, lo vede ancora più sorpreso di prima. «E cerca di capire, una buona volta, non cos’hai lasciato lì, ma chi.»
Mario non risponde. Cincischia un paio di minuti con il cellulare, squadra ogni particolare di quello studio senza dire alcunché, poi si alza, senza stringergli la mano o salutarlo. Soltanto quando è già per metà fuori da quella stanza, si volta verso di lui, sorride e gli chiede: «L’hai sempre saputo, José?»
«Ovvio che l’ho sempre saputo... ho più neuroni di te, ragazzino. L’unica cosa che non so è se mi darai ascolto.»
«Farò di testa mia come sempre, probabilmente» replica, stringendosi nelle spalle e facendo scattare la porta.

Un passo avanti ed ora io, io non parlo più
E tra le mani, mani stringo
A che servon le parole
Amore dai, dai, dai muovimi il sole
Perchè sei nell'aria sei
Tu che aria vuoi
Ma che aria dai se poi mi uccidi
(Un passo indietro)

«Toc toc?»
«Ma tu sei fuori di testa» ringhia Luís, alzandosi immediatamente dalla poltroncina e scattando in avanti per chiudere la porta. «Ti rendi conto che se ti ha visto entrare anche solo un magazziniere passiamo tutti quanti una quantità di guai che ce la sogniamo?»
«Buon compleanno, eh. Non mi ha visto nessuno, Luís, rilassati» replica, appoggiandosi contro l’anta con malcelato divertimento di fronte al nervosismo dell’altro; spiazzarlo, metterlo in imbarazzo, sono le uniche rivalse che può concedersi di prendere, di tanto in tanto. In ogni caso, Luís non riesce affatto a rilassarsi, e prende a passeggiare avanti e indietro per lo studio, in preda a quella che Cristiano giudica essere una vera e propria crisi di nervi.
«Questo lo dici tu. Dio. Dio Dio Dio. Se anche solo un paparazzo ti ha inquadrato è la fine, cominceranno a dire che vuoi andartene dal Real dopo neanche tre mesi, Pérez comincerà a sputare fuoco e fiamme, il presidente si incazzerà da morire e-» Il fiume in piena di parole di Luís si spegne in un mugolio - che dovrebbe essere una lamentela, ma come ci si può davvero lamentare? - tra le labbra di Cristiano, morbide e avide di colmare una lontananza che si è protratta più a lungo del previsto.
«Non mi ha visto nessuno» ribadisce, allontanandosi lentamente da lui e ammirando cosa sono riusciti a combinare con un solo bacio: Luís ha la cravatta storta e la camicia mezza fuori dai pantaloni, i capelli sulla nuca tutti arruffati e il fiatone come se avesse corso la mezza maratona - molto probabilmente, a giudicare dall’aria calda dei termosifoni che gli solleticano la pelle, lui stesso dev’essere in condizioni ben peggiori, assolutamente impresentabile per poter pensare di sgattaiolare al di fuori della sede dell’Inter senza farsi notare.
«Sei vestito così di merda che non posso credere che nessuno ti abbia additato per riderti dietro. Chi ti ha fatto entrare?»
«Non faccio la spia, io. E poi non metterei nei guai qualcuno dei vostri, spifferandotelo?» Cristiano si ritrae quando Luís tenta di baciarlo di nuovo, sogghignando per la sua frustrazione. «Non metterei nei guai te, se scopassimo nel tuo ufficio?»
«Sta’ zitto, una buona volta.» Cristiano si lascia trascinare da Luís fino alla scrivania, opponendo una resistenza poco più che simbolica di fronte alla sua impazienza, e ride - ride sempre - sapendo di essere molto più di un regalo. E poco meno del centro del suo universo.

Se chiudo gli occhi non ci sei in fondo a tutti i miei vorrei.
Almeno tu lasciassi scia, saprei come lavarti via.
Se chiudo gli occhi dove sei davanti a tutti i dubbi miei.
Almeno tu lasciassi scia saprei come mandarti via.
Una volta tanto dimmi sempre, sarà per sempre.
Quanto ti costa dirmi sempre se poi sempre è una bugia.
Prendimi in giro e dimmi sempre, sarà per sempre.
Ma che ti costa dirmi sempre se poi sempre è una bugia.
Se chiudo gli occhi forse sei tutti gli errori quelli miei.
Almeno tu fossi poesia saprei cantarti e così sia.
(Una volta tanto (canzone per me))

«Questa non è una cena a lume di candela, voglio sperare» borbotta, sedendosi di malagrazia a tavola e scrutando, nello spazio vuoto tra loro, il fusto di quello che, invece, sembra essere tremendamente simile a un candeliere; dal canto suo, l’altro si limita a ridacchiare, tirando fuori dal taschino il pacchetto di sigarette che gli ha sottratto con destrezza prima che potesse accendersene una in macchina e accendendo la candela bianca che vi troneggia.
«Direi di no.»
Mario fa una smorfia corrucciata a quella risposta allegra e alza appena lo sguardo dal piatto, anche se per il bene di entrambi decide di non rispondere; Zlatan non ha ancora smesso di sorridere (è una cosa decisamente inquietante) e c’è qualcosa, nel suo modo di fare, che gli ricorda terribilmente qualcun altro. Non può avere la severità di José, è naturale - principesse riottose si nasce, non si diventa - e di cloni di Mourinho e dei suoi metodi è ormai disseminata l’Europa, anche da prima che lui dicesse, una buona volta, “basta”; eppure c’è una maturità diversa da quella puramente anagrafica che lascia un’ombra dietro quel sorriso, una serietà che sembra essere evoluzione dell’agonismo e degli sforzi immani in campo per inseguire, lottare e vincere. Forse, dice Mario tra sé, passare dall’altra parte della barricata ha quell’effetto.
I camerieri servono gli spaghetti. Sono di quanto meno simile si possa desiderare rispetto alla sana e ottima pasta italiana, e Mario li manda giù con una certa fatica. «Non ho fatto in tempo ad abituarmici» dice, lasciandone alcune forchettate nel piatto e chiedendosi come faccia Zlatan a ingollare tutto, nonostante il saporaccio, «e speravo di non doverlo fare mai più.»
«Ti lamenti troppo.»
«Cominciamo già con le critiche» ribatte con una punta di acidità.
«È un mio diritto. Non mi hai detto né sì, né no.»
«Be’, scusa tanto se mi stai chiedendo qualcosa che mi costringerebbe a mollare tutto un’altra volta.» Mario lo fissa direttamente negli occhi, ormai. «C’è il pericolo che Tu-sai-chi non mi abbia ancora perdonato completamente per essere fuggito qui a Manchester, e sono passati dieci anni da quando sono tornato a Milano. Non posso rischiare che mi spelli vivo per usarmi come tappetino davanti al caminetto.»
«Dare a Davide del “Tu-sai-chi” è offensivo, Mario. E comunque, per tua informazione, con lui ho già parlato» commenta Zlatan, sbocconcellando un panino; si aspetta che gli chieda qualcosa tipo “E che ti ha detto?”, ma, messo di fronte al suo silenzio, continua senza alcuna imbeccata. «Ha sempre saputo il perché ti ho fatto tornare fino a qui. E l’unico motivo per cui vuole ucciderti, a parte “aver lasciato il bagno come un porcile, come sempre e peggio di sempre”, sta nel fatto che non sai prendere una decisione da solo neanche se ti puntasse una pistola alla nuca.» Zlatan si sporge in avanti, scostando cestini del pane, candeliere e bottiglie prima di colmare la distanza tra loro. «Andiamo, mica è così difficile giocare con me?»
«Guarda che sarebbe un giocare “per” te» gli fa notare, ma lui alza una spalla con somma noncuranza e congiunge le mani davanti al naso, fin quasi a toccare i volti di entrambi, in attesa della sua risposta. «Non lo so» dice Mario dopo un lungo momento, lisciandosi la testa rasata di fresco, e si apre nel primo vero sorriso da che si sono rivisti. «Dimmelo tu, se è difficile giocare con me» propone, e la gioia di Zlatan è più palpabile che mai, nonostante l’arrosto sembri non arrivare mai.

Senza peso, senza fiato, senza affanno
Mi travolge e mi sconvolgi
Poi mi asciughi e scappi via
Tu ritorni poi mi bagni
E ti riasciughi e torni mia
Senza peso e senza fiato
Non son riva senza te
(Senza fiato)

Quando Daniel ignora il suo cenno di saluto e, anzi, gli volta le spalle, il minimo che Douglas può fare è lasciar cascare di qualche centimetro la mascella, in una “O” quasi perfetta che causa più di un’occhiata sospettosa e un paio di risatine sarcastiche (Robi pagherà anche per questo). È una reazione così inaspettata e spropositata perfino da parte sua, che tende a straparlare ed esagerare un po’ per farsi notare e un po’ per dissimulare una timidezza su cui nessuno scommetterebbe neppure una moneta da cento pesetas smarrita in un cassetto, che non fa nulla per indagare sulla sua origine fino alla fine dell’allenamento, quando Daniel sembra essere intenzionato a interpretare la parte della fidanzata offesa vita natural durante.
«Io non ho intenzione di passare più di un mese a fare il gioco del silenzio solo perché ti brucia ancora la coppa.»
Daniel lo fissa da sotto in su, spostando lentamente i suoi occhi dal braccio nudo teso contro la parete dello spogliatoio, ma non fa una piega; resta qualche secondo in silenzio e gli risponde, «Non è per quello, no.»
«Mi pareva. Cos’è che ti ho fatto, allora?»
«... hai preso il mio armadietto.»
«Eh?!»
«Hai. Preso. Il. Mio. Armadietto.» Daniel gli tira uno schiaffo sull’addome senza troppa forza, col dorso della mano. «Ed è inutile che fai la faccia da merluzzo, è una questione di principio.»
«Ma se non me ne sono neanche accorto! Insomma, sono arrivato prima di te, ne ho preso uno a caso!» ribatte, allibito dal fatto che gli abbia tenuto il muso per un’intera giornata soltanto per questa sciocchezza. «E poi, non c’era scritto il tuo nome.»
«Io so quale armadietto prendi tu. Ed è quello vicino al mio. E adesso non possiamo.»
«Tu non hai ventisette anni, tu hai due anni e sette mesi. Ma non ci si può mai rilassare, con te?» Douglas ride, ride fino a far girare di nuovo mezza squadra dalla sua parte, e poi torna ad essere tutto compunto l’istante successivo.
«Non sei divertente» brontola Daniel, ma si ritrova stretto in un mezzo abbraccio senza neppure capire come, perciò tace, in attesa che Douglas gli dica qualcosa.
«Puoi sempre mettere la tua roba insieme alla mia, Dani» butta lì poco dopo, come da previsione. Daniel continua a non dire niente: è già contento così.

Non scordarti più il mio nome
Non fra tutte le persone
Sai son quello che somiglia
Somiglia, somiglia a te
E ruberai per me la luna
Se il buio mi farà paura
E se non trovo più qui dentro te
La bianca immagine di me
(E ruberò per te la luna)

A Yolanthe capita di svegliarsi per la prima volta prima di Wes due sere dopo la finale di Coppa: fino a quando l’Inter non è riuscita a conquistarla non si era resa conto del picco toccato dalla sua tensione - nessuno dei due l’aveva fatto, molto probabilmente - e guardarlo dormire adesso, la testa sprofondata contro il cuscino e le coperte disordinate che gli lasciano la schiena scoperta, le fa capire quale peso è svanito, quanta adrenalina si è dissipata solo quando sono riusciti ad alzare quel trofeo nel cielo di Madrid. Trova che ci sia qualcosa di buffo in questo, perché le sembra di essere sul punto di sposare anche la sua squadra, insieme a lui, e perché non sembra una cosa troppo brutta, tutt’altro.
Senza fare rumore, distende il lenzuolo aggrovigliato sulla schiena di Wes e scivola fuori dal letto, sfilandosi la sottoveste.

Aprire gli occhi e non trovare Yolee addormentata a pochi centimetri da lui non turba Wesley più di tanto: si sente stanco come raramente gli è capitato da quando gioca a tempo pieno e se il tempo rimasto prima della chiamata in nazionale non fosse tragicamente poco lo passerebbe a dormire ininterrottamente.
Ciondola a piedi nudi prima in bagno, poi in soggiorno, e la trova assopita e acciambellata sulla poltrona davanti alla televisione, un pacchetto di biscotti in mano ancora intatto, le gambe nude che sporgono al di là del bracciolo e i seni strizzati nella sua maglia della finale, che - e gli sembra un miracolo - le sta così bene da sembrarle cucita addosso. A parte le mutandine, non indossa altro: Wesley resta sulla soglia della stanza a guardarla per quelle che gli sembrano ore, prima che Yolee si svegli di soprassalto, facendo sfracellare i biscotti sul pavimento, e gli rivolga un sorriso un po’ colpevole.
«Tienila» mormora, prima ancora che dica qualcosa; prima di contare I passi che li separano, la sta già baciando.

E dimmi che serve restare
lontano in silenzio a guardare
la nostra passione non muore
ma cambia colore
tu fammi sperare
che piove e senti pure l’odore
di questa mia pelle che è bianca
e non vuole il colore
(Cade la pioggia)

Davide potrebbe giurare di aver individuato il suo viso - premuto contro l’oblò dell’aereo con la stessa intensità con cui lui si è schiacciato contro le vetrate dell’aeroporto - ancor prima che l’atterraggio sia completato, nonostante il cielo buio e i riflettori accesi; di sicuro lo scorge nel momento in cui spunta in cima alla scaletta e comincia a scendere con baldanzosa noncuranza, le cuffiette per ascoltare la musica quasi invisibili se non per i fili scuri che ballonzolano sulla felpa ad ogni scalino e un angolo della bocca appena incurvato verso l’alto, come a voler trattenere un sorriso nel rimettere piede a Milano per restarci, o per non ridere di fronte alle nuvole grigie e gonfie di pioggia e nevischio che stazionano pigre sulla città, gelando fin nelle ossa tutti i passeggeri dell’aereo. Davide si sente, per tutto quel lungo momento in cui i passeggeri sciamano all’unisono, uno di quei personaggi da romanzetto rosa, quando alla fine del libro mancano pochissime pagine.

Davide si allontana dalla vetrata di scatto, avviandosi verso l’uscita con le mani strette nelle tasche dei jeans, incurante di quanto possa sembrare cretino continuando a restare impalato al centro di una sala che smista due fiumane di persone frettolose o di quanto apparirà scontato, al limite dello stucchevole, il momento in cui se lo ritroverà di fronte. Sarebbe così facile voltare la testa di lato, distogliere lo sguardo per non vedere e rifiutarsi di accettare la realtà, di rendersi conto che gli unici momenti in cui potranno giocare con la stessa maglia indosso, almeno per i prossimi anni (e a questo punto probabilmente per sempre), continueranno ad essere quelli in cui vestiranno quella della nazionale, e soltanto per una manciata di partite all’anno; sarebbe facile dirgli che Milano è diventata troppo piccola per ospitarli entrambi, che non è il caso di uscire insieme la sera, che è inopportuno provare a raccogliere quel filo spezzato tre anni prima da ragazzini e provare a ricucirlo adesso che sono uomini. Sarebbe un vigliacco, uno stupido e un pessimo bugiardo.

Davide corre, colma la distanza che li separa e gli getta le braccia al collo non appena Mario si riscuote dalla sorpresa che l’ha lasciato, immobile quanto lui, a tre o quattro metri di distanza; sente le sue mani che gli frugano i fianchi e il suo corpo che oscilla lentamente con il proprio per la forza di quell’abbraccio, e per un istante si illude che non sia cambiato assolutamente nulla.
«Ma che fai, piangi?» gli ride direttamente nell’orecchio; quel soffio divertito è abbastanza per far rabbrividire Davide e da soffocare un gemito di sorpresa quando, nascosti dall’intrico di braccia, Mario posa un bacio sulla sua mandibola, sopra la barba folta, vicinissimo alla bocca - come se gli avesse letto nella mente e avesse compreso qual era il limite massimo cui poteva spingersi senza farlo sprofondare nell’imbarazzo o, peggio, nella paranoia.
«Un poco» ammette infine, stringendosi ancora un po’ più forte a lui.
«Scemo.» Lo lascia andare e lo guarda con gli occhi più seri e determinati che Davide abbia mai visto. «So che ti chiedo tanto, ma mi accompagni tu?»
Davide si asciuga in fretta gli occhi umidi. «Sono venuto apposta» risponde con un sorriso sul volto e un senso di ineluttabilità che attenua il dolore che sta provando: non ha capito che sta per riprendere il suo posto, ma, per sua fortuna, Mario capisce per entrambi.

Adesso c’è che mi sembra strano parlarti
Mentre ti tengo la mano e penso a te
Che mi riesci a guardare senza occhi e lacrime amare

Se potessi far tornare indietro il mondo
Farei tornare poi senz’altro te
Per un attimo di eterno e di profondo
In cui tutto sembra, sembra niente c’è
Tenersi stretto, stretto in tasca il mondo
Per poi ridarlo un giorno solo a te
A te che non sei parte dell’immenso
Ma l’immenso che fa parte solo di te
(L'immenso)

Zlatan, agli occhi di José, è sempre uguale al giorno in cui l’ha conosciuto, coi capelli lunghi tenuti lontani dal viso con l’elastico e una punta - un punteruolo, magari - di diffidenza nell’occhiata fugace che gli concede: allora, palleggiava distrattamente, mancando il bersaglio solo dopo quindici o venti colpi di fila, e gli rivolgeva dopo un istante un sorriso sfrontato di chi è certo di quale dei due immensi ego  avrebbe prevalso, alla fine; e adesso tiene le mani in tasca nel guardarlo dall’alto in basso, un lievissimo sorriso a increspargli le labbra ed evidenziare le rughe ai lati della bocca, abbassando la testa di quel tanto che basta per riconoscergli ancora una volta la vittoria nel suo essere incredibilmente un gran figlio di buona donna. Non sono passati che otto o nove mesi dall’ultima volta in cui si sono visti, eppure c’è un dettaglio in particolare, nella sua figura, che è davvero troppo evidente perché gli occhi di José, velati dalla nostalgia e dalla vecchiaia, possano fingere di non notarlo: Zlatan è impeccabile come in qualsiasi altra uscita pubblica (una delle camicie che gli ha regalato, azzurra e leggerissima, accompagnata da giacca e pantaloni adatti anche per la sopravvivenza nella torrida estate californiana: promosso per lo sforzo, ma con quelle scarpe non potrà mai camminare sulla sabbia), ma la brezza che spira costante dall’oceano non trova capelli da scompigliare se non quelli di José, che ogni angolo di Los Angeles conosce e che quindi non contano.

«Comincerà a vedersi il grigio, adesso» commenta, stupefatto; il sorriso di Zlatan si fa leggermente più ampio, anche se non risponde in alcun modo, limitandosi a fissarlo con l’aria di chi non ne ha abbastanza di guardarlo per tutto il tempo. «Dovrò farci l’abitudine, e chiamare in produzione per bloccare la linea di fascette.»

«Non le avrei portate comunque. Non ho intenzione di girare con il marchio dei Galaxy sulla fronte, come se fosse la stellina di un diadema» risponde Zlatan, senza distogliere gli occhi da José. «Come stai?»

«Adesso che parli già come il mio allenatore, molto meglio» ribatte, e Zlatan questa volta ride di gusto, seguendolo senza fare commenti fino al limitare della spiaggia - dove, con estrema naturalezza, si sfila scarpe e calze per raggiungerlo sulla battigia. «Sai, mi chiedevo se avresti portato con te il Pallone d’Oro sottobraccio, o magari una copia della Champions» mormora divertito, rabbrividendo subito dopo per un colpo di vento più freddo, insolito per il mese di agosto, e chiudendo un bottone della propria camicia. Zlatan allunga una mano per sistemargli il colletto, lasciandola poi sulla sua spalla e stringendola per spingerlo ad accostarsi a lui.

«Me le farò mandare, quando mi darai il mio ufficio, visto che ci tieni tanto. Pensavo che di Champions ne avessi viste abbastanza, comunque.»

«Se i miei cloni fossero davvero tali, di sicuro» ride, ripensando ai titoli dei quotidiani che, anche sui touchscreen degli Stati Uniti, avevano accompagnato la fase finale della coppa: il Real di Andrè e il Porto di Rui, l’Inter di Dejan e l’Arsenal di Rui, l’Ajax di Zlatan e il Barcellona di Samuel e il West Ham di Frank, con la Lazio che, di buon grado, lasciava rapidamente spazio alle sette squadre allenate dai “cloni” e agli incredibili incroci di figli, nipoti e allievi che erano causa e conseguenza della rilevanza mondiale di quella edizione. E poco importava se, guardandole giocare, erano sette squadre talmente diverse da non lasciare adito al dubbio che fossero allenate da cervelli pensanti e virtualmente incompatibili tra loro, perché la risposta che quei sette deficienti (almeno, a voler seguire la definizione della fonte di quei cloni) era sempre un sorrisetto che non voleva dire né sì e né no, ma che, puntualmente inquadrato dagli operatori, altrettanto puntualmente toccava il destinatario dello stesso dall’altra parte dell’oceano.

La presa di Zlatan si fa più salda sulla sua spalla, costringendo José a distaccarsi da quelle fantasticherie; quando torna a concentrarsi sulla realtà che lo circonda, trova ad accoglierlo la voce preoccupata di Zlatan, e gocce di pioggia che cominciano a venire giù nel più classico degli acquazzoni estivi.

«Non fare più così. Mi preoccupi. E dovresti riguardarti, questa è così leggera che se non rientriamo ti puoi buscare un malanno» borbotta concitato, stropicciandogli la camicia per saggiarle la stoffa sintetica, scura e quasi impalpabile.

«Come prima clausola del contratto pretenderò che mi tratti come si conviene e non come un vecchio rimbambito» ribatte José, per metà serio e per metà sarcastico. Zlatan, per tutta risposta, gli prende il volto stanco tra le mani e si china su di lui, incurante di passanti che in ogni caso non ci sono e se ci fossero non penserebbero di certo a loro, e baciandolo con una dolcezza che non ha riguardo per la sua età, almeno a giudicare dalle lacrime che gli riempiono gli occhi pur senza sgorgare sulle guance.

«Come seconda clausola, voglio baciarti quando mi pare, presidente» replica lui, fintamente stizzito. «Andiamo dentro?» ripete, tirando fuori dalla giacca una quantità di videocard belle impilate. «Ho un sacco di cose da raccontarti e i saluti di molti amici.»

José annuisce brusco, ma lascia che il braccio di Zlatan passi dietro la sua schiena.

FINE

1. Ispirata a questo momento in particolare, oltre che naturalmente alla finale di Madrid.
2. Ispirata alla finale di Madrid, con cui Diego sigilla una stagione epica, e a Samuel, che prima di essere un grande calciatore è un grande uomo.
3. Settembre 2006, prima di campionato (a Firenze). Ispirata a un'intervista doppia alle Iene che sembra sparita dalla circolazione (Mediaset l'ha eliminata da YT e sul suo sito non funziona...).
4. Ispirata anche a una certa canzone di Battisti. La prima battuta di José è troppo nota per non poter essere riconosciuta. XD
5. Ambientata a novembre 2009. Cristiano conosce bene un bel po' di gente della nostra squadra. XD
6. Ispirata a niente, o meglio, ispirata a cose che ho già scritto in qualche drabblina estemporanea: futuro remoto (2023?), allenatore!Zlatan, calciatore-sul-viale-del-tramonto!Mario. Riciclare le idee e renderle versioni 2.0, noi ce l'abbiamo.
7. ... Taccio, via. XD #incoerenza Se dico "non scriverò mai di...", non credetemi. Anche se poi il risultato è crack e Daniel sembra avere due anni mentali.
8. Ispirata al matrimonio di questi due esserini meravigliosi, a un'intervista sulla Gazzetta dello sport, e naturalmente alla finale di Madrid.
9. Ispirata agli ultimi gossip di mercato, alla presenza di uno stronzo a caso sugli spalti per Inter-Genoa, e a loro.
10. Los Angeles, da qualche parte dopo il 2030. Chiunque abbia al cuore il Jobra dovrebbe sapere a cosa mi sono ispirato XD ma per chi non lo sapesse, c'è un discorso di José agli Oscar del Calcio AIC 2009 in cui "dà appuntamento" a Zlatan nel 2030.

fic » fandom » sportivi » calcio, fic » people » daniel alves, fic » people » luís figo, fan » el_defe, fic » people » siniša mihajlović, fic » people » bedy moratti, fic » people » wesley sneijder, fic » people » zlatan ibrahimović, fic » people » josé mourinho, fic » people » diego milito, fic » people » yolanthe van kasbergen, fic » people » massimo moratti, fic » people » douglas maicon, fic » people » dejan stankovic, fic » people » davide santon, fic, fic » people » samuel eto'o, fic » people » cristiano ronaldo

Previous post Next post
Up