Titolo: La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare
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Personaggi: Mario Balotelli, Davide Santon, Marko Arnautović (Santonellautovic, che non è una 3some ♥)
Warning: slash
Word Count: 1785 (
FDP)
Disclaimer: Questa fanfiction non è a scopo di lucro. Non si vuole offendere o essere lesivi nei confronti delle persone reali descritte. Niente di quanto narrato in questa fanfiction è realmente accaduto ma è frutto di fantasia, pertanto non si pretende di dare un ritratto veritiero di eventi o personalità. Titolo: Mi fido di te, Jovanotti.
A/N: Uno spinoff della splendida L'affitto del sole si paga in anticipo, prego (
1,
2), di
ary_true (guardate anche la meravigliosa
fanart di
emo_globina o, meglio ancora,
il fan!pdf che ho creato io stesso).
La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare
A Davide sembra di fare ancora fatica per stare al passo, ultimamente. Come se tutto ciò che gli sta intorno si muovesse davanti ai suoi occhi al triplo della velocità e sia costretto a correre almeno quanto loro per restare esattamente dov’è, e a trottare ancora più velocemente per superarli. Roma, Siena e Madrid sembrano passate via ad una velocità allarmante, e nonostante ciò avrebbe voluto viverle ancora più intensamente di quanto non sia realmente stato - anche se per avere i sogni pienamente trasformati in realtà avrebbe dovuto chiedere conto a un tizio lussemburghese desideroso di aprirgli il ginocchio per vedere com’era fatto dentro e a chiunque abbia sorteggiato gli ottavi di Champions in modo da trasformare la finale dei sogni in una semifinale dei sogni; sotterrato com’è tra i libri che avrebbero dovuto aprire un po’ più spesso durante l’anno, poi, sembra che il complotto ai suoi danni sia stato pienamente compiuto e che gli sia stato impedito di godersi l’estate come un qualsiasi ragazzo - o come un qualsiasi compagno di squadra, perché pensare ai ragazzi divisi tra impegni ai Mondiali e vacanze tropicali lo fa solo fremere di impazienza, in attesa che la maturità termini e che possa godersi almeno una settimana, dieci giorni al massimo di libertà.
Il rumore delle chiavi nella toppa (dei quattro o cinque tentativi necessari per trovare quella giusta, quantomeno) gli ricorda che almeno lui è tornato. «Ehi» gli sorride Mario, sparendo un attimo in cucina per liberarsi delle scatole di gelati che regge tra le mani e tornando poi nel soggiorno - tremendamente caldo nonostante il condizionatore al massimo - offrendogliene uno. «Ho visto Tia e ti saluta e, be’, ci sono un po’ di cose che dovresti sapere» dice con un’impronta di serietà così irreale da costringere immediatamente Davide a pensare a uno scherzo o una battuta in arrivo.
«Sì, che oggi non hai voglia di studiare e che esci di nuovo, perché fa davvero tanto caldo in casa, fuori si sta bene e non è il caso di morire squagliato sui libri quando si può cercare un po’ di fresco da qualche parte.» Non è ironia, quella di Davide, o si darebbe la pena di alzare la testa e guardarlo con un sorrisetto sfrontato e un po’ fiaccato dal caldo: semmai si affida alle sue sensazioni, un po’ con la certezza di non aver mai sentito Mario tanto vicino come in questo periodo - fare tutto insieme, mangiare studiare guardare i Mondiali soffrire gioire sorridere respirare vivere, passare pochi minuti o intere ore accoccolati l’uno all’altro senza riuscire a capire chi dei due abbia più bisogno della presenza e della protezione dell’altro - e un po’ con la preoccupazione di dover correggere la strada imboccata da Mario quando lui stesso sente arrivare a ondate una voglia opprimente di chiudere tutte le persiane della casa e buttarsi sul letto a peso morto, con le braccia e le gambe aperte e quanti meno vestiti possibile.
«Non proprio.» Dall’incrinatura leggerissima, eppure perfettamente udibile, nella voce di Mario, Davide comprende che la sua serietà non è affatto fasulla. Alza gli occhi sgranati e un po’ impauriti, cercando di assorbire piano le parole che Mario gli riversa tutte in una volta, come se buttarle fuori subito fosse un cenno di premura per fargli sentire meno male. «Lo ha chiamato Alen mentre ero con lui ed era in lacrime, Tia non l’aveva mai sentito così, ha detto, e insomma, Marko l’ha lasciato, l’ha chiamato e, sì, be’, se ne va.»
*
(mi fido di te)
*
Marko mentirebbe, se dicesse che non si aspettava l’arrivo di uno dei due, o di entrambi, non appena il tam-tam telefonico avviato dalla disperazione di Alen li avesse raggiunti: semmai si stupisce che abbiano atteso fino a sera per bussare alla sua porta, visto quanto stretto era diventato il rapporto tra tutti i “bambini” nelle settimane che avevano preceduto, e poi seguito, il loro trionfo. In ogni caso, attende in silenzio che si decidano a parlare, dopo aver aperto la porta prima che bussassero e averli guidati nel piccolo cucinino, facendo lo slalom tra scatoloni aperti e chiusi che danno la sensazione di un labirinto soffocante.
«Hai imparato a fare il caffè» butta lì Mario quando riceve il suo bicchiere di carta, nel tentativo di rompere la muta tensione che li avvolge.
«È solubile» risponde infatti Marko, e ripiombano di nuovo in un silenzio fatto di sguardi preoccupati e impotenti tra Davide e Mario, e di occhiate nascoste, addolorate e discrete di entrambi verso Marko, che li solleva dal compito ingrato di fare quella domanda. «Perché doveva essere così e basta» mormora, appoggiandosi contro i mobili della cucina. «Non c’è spazio per me. Ecco perché vado via.»
«Non è vero e lo sai» obietta Davide. «José ha fiducia in te, adesso. Non hai giocato sempre perché… be’, se Diego è sempre in forma così, come fai a metterlo in panchina?» spiega, trattenendo a fatica un sorriso. «Non è titolare nessuno, gioca chi sta meglio… o chi non fa cazzate.»
«È inutile che mi fai quelle occhiatacce, Dà.» L’espressione di Mario sembra così genuinamente offesa che fa scoppiare a ridere gli altri due, per qualche istante, e sentire Marko ridere è a dir poco strano: Davide si accorge che probabilmente non l’ha mai sentito ridere davvero da mesi, da parecchio prima che provasse a distruggere in un colpo solo tutto quanto, e nota che ha un tono gutturale e duro che lo spinge a domandarsi se siano i tedeschi a ridere tutti così o cos’altro (poi si ricorda che Marko non ha nulla di tedesco e lascia perdere, dandosi dello stupido). Si perde anche il momento in cui Mario torna serio di colpo, allunga il braccio verso l’amico e lo tira a sé, costringendolo a sedersi sulla sedia vuota tra loro. «Dà ha ragione, Marko. Non fare il cinghiale, se te ne vai da qua adesso fai la più grande cazzata della tua vita. Sai quante volte ho pensato di andarmene da qua? Ogni volta che i coglioni sugli spalti fischiano perché non ho la pelle chiara come tutti, che fanno gli ululati delle scimmie e sventolano quelle banane che vorrei solo ficcare loro nel culo, ogni volta che io e il Mou arriviamo quasi a prenderci a cazzotti fino a ucciderci, che io e Davide litighiamo perché io e il Mou siamo quasi venuti alle mani…» Mario si rende conto che Marko si è perso molte, troppe parole fa, e gesticola per un paio di secondi, abbracciando l’aria prima di concludere dicendo: «… sì, insomma, se te ne vai fai una cazzata.»
Marko si volta verso Davide, che per tutta risposta annuisce in silenzio e basta: anzi, annuisce in silenzio e tiene gli occhi bassi perché potrebbe cominciare a piangere, e non gli va di farlo né davanti a Mario - non di nuovo - né davanti a Marko - non di nuovo, - neppure se potesse servire per incatenarlo a Milano per tutta la vita e oltre. Marko si concede un sospiro lievissimo e un sorriso tirato, prima di parlare.
«Ho sbagliato, con Alen, non avrei mai dovuto cercarlo. Non per quel motivo,» si affretta a spiegare quando Mario alza di colpo lo sguardo e lo fissa con una traccia di durezza, «o sarebbe andato tutto diverso, no? È che… mi piaceva, mi piace, ma è sempre una cosa fisica. E adesso non mi basta più.»
«Non è necessario andare via per trovare qualcuno che-»
«Davide. Qui sarò sempre il quinto, o il sesto. E credo di essere abbastanza bravo, quando sono in forma, per desiderare qualcosa di più.» Marko si alza, stiracchiandosi un po’ e nascondendo gli occhi lucidi con qualche battito di ciglia più lento. «Mi mancherete.»
“Ci mancherai anche tu” vorrebbe dire Mario, ma le parole gli muoiono in gola. E così lo abbraccia, forte abbastanza da sentire il battito del suo cuore pulsare contro il proprio, il suo respiro caldo e il dolore che sembra tremolare nel corpo di Marko come una cosa viva, strisciante, un serpente che gli stringe l’anima senza scampo e che se ne nutre con la voluttà della disperazione, lasciandogli solo la speranza che quella fuga possa servire a una salvezza. E poi anche Davide si alza e li abbraccia entrambi, e quel dolore lo sente anche lui che scorre nelle vene di tutti e tre come il sangue, ma è freddo e gli porta brividi come se fossero in pieno inverno anziché sotto una cappa d’afa di luglio che li fa sudare anche così, fermi in mezzo a una stanza e stretti come a farsi scudo da quella pena.
Si lasciano in silenzio, troppo commossi per dire alcunché.
*
(cosa sei disposto a perdere)
*
Mario e Davide non arrivano in fondo alla strada prima che il più piccolo lanci un gridolino. «Ho dimenticato il cellulare» esclama, tastandosi le tasche.
«Non te l’ho visto tirar fuori.»
«Ma ce l’avevo, ne sono sicuro. Torno su da Marko, l’avrò lasciato da lui» dice, uscendo dall’automobile e facendo di corsa la strada fino alla palazzina che l’amico sta per lasciare, facendo le scale due a due. Marko ha lasciato perfino la porta aperta, chissà per quale motivo, così se lo trova davanti così inaspettatamente da sobbalzare con un mezzo mugolio.
«Cosa?» chiede, notando il suo fiatone, ma Davide si incolla alle sue labbra per una manciata di interminabili secondi, attirandolo a sé con un abbraccio così stretto da mozzare il respiro anche a lui e lasciandosi assaporare, più che mantenere lo slancio con cui si è approcciato a lui.
«Non avevo bisogno di un bacio d’addio» borbotta Marko, senza poter trattenere una carezza sulla guancia arrossata di Davide. «Ma grazie.»
«Non volevo che… ricordassi solo… Non è un addio. Ci vediamo presto.» Davide ridacchia nervosamente. «Guarda con Zlatan, l’abbiamo beccato quattro volte, quest’anno. Capiterà anche con te, a meno che tu non vada a giocare in… che so, in Giappone, ecco.»
Davide se ne va di corsa così com’è arrivato, lasciando che la risata di Marko sia l’ultimo suono della sua voce registrato dalle proprie orecchie, e torna di corsa nell’auto di Mario che tamburella le dita sul volante con fare impaziente.
«Trovato» dice, facendogli segno di mettere in moto.
«L’hai baciato soltanto, vero?» fa Mario al primo semaforo rosso che beccano. Davide annuisce, appoggiando la testa contro la sua spalla, e Mario gli dà un buffetto affettuoso. «La mia gelosia ringrazia calorosamente e il mio amor proprio vorrebbe strozzarti con quella bugia.»
«L’ho davvero soltanto baciato» ribatte tranquillo, premendogli sulla spalla.
«Intendevo l’altra… ah, lascia perdere» sospira, sorridendo nello stesso istante in cui Davide nasconde un ghigno contro la sua maglietta. «Non parliamone più e torniamo a casa, ché abbiamo da studiare.»
«Non credevo che sarebbe mai accaduto che saresti stato tu a spingere per studiare.»
«Ho intenzione di portarmi te e i libri nel letto.»
Il sorrisetto di Davide si fa più largo. «Mi pareva.»
*
(mi fido di te)
*
FINE