Titolo: Tra il bene che mi vuoi e il male che mi fai, non c'è distinzione
Autore:
ary_trueBeta: Nessuno D: Segnalate eventuali minchiate abnormi D:
Fandom: RPF - FC Inter ♥
Personaggi/Pairing: Mario Balotelli, Davide Santon (Santonelli ♥) con un plus importante di Ibratelli e uno meno importante di Ibraton ♥
Rating: NC17
Warning: slash, drama, bottom!Mario, che è un warning bello pesante T_T
Word Count:2236 (
fiumidiparole ♥)
Disclaimer: Questa fanfiction non è a scopo di lucro. Non si vuole offendere o essere lesivi nei confronti delle persone reali descritte. Niente di quanto narrato in questa fanfiction è realmente accaduto ma è frutto di fantasia, pertanto non si pretende di dare un ritratto veritiero di eventi o personalità.
Note: Scritta per il
Terzo p0rn fest di
fanfic_italia su prompt => RPF Calcio (Inter FC), Davide Santon/Mario Balotelli, "Non preoccuparti." (Tirato proprio per i capelli, capitemi)
Per
el_defe, che aveva vinto per non ricordo cosa una reverse. Soffro molto. ♥
E per
janetmourfaaill, perché mi ha spinto a scrivere un ultimo p0rn :) <3
Serve a qualcosa dire che la odio?
Quando Zlatan lo abbraccia, sussurrandogli all’orecchio Bambino, mi raccomando. Controllami quei due e continua così mentre molla la valigia qualche metro più in là, Davide trema un po’ e non risponde, fondamentalmente perché non ha niente di giusto o intelligente da dire, ma anche e più semplicemente perché la gola gli fa male e non vuole credere che stia succedendo davvero (ma invece succede e gli addii fanno sempre schifo e Cristo, se ne va e basta, non si guarda indietro, non si preoccupa di come faranno a restare insieme senza di lui). Lo stringe più forte che può, baciandolo leggermente sulla pelle calda della clavicola, assaggiando ancora una volta il suo sapore e respirando il suo odore familiare; per un attimo pensa a come sarà stare in campo senza di lui, come saranno gli allenamenti e i festeggiamenti, come starà il Mister a vederlo partire dopo quanto hanno diviso (e Davide se lo ricorda l’abbraccio che si sono scambiati al gol di Adri col Panathinaikos, perché c’è stata talmente tanta emozione in quel momento solo, talmente tanta evidenza, come nello scoppio di una bomba, che non è riuscito a non distogliere lo sguardo dalle loro figure - neanche li stesse spiando - imbarazzato come un coglione), come starà Mario a vedersi abbandonare ancora da qualcuno che ama, ma non riesce a trovare risposta, e questo lo spaventa e lo intristisce ulteriormente, come quando era bambino e fuori pioveva e tuonava e lui stava alla finestra a guardare la violenza del temporale, sperando che smettesse presto.
“A proposito di quei due… Mario dov’è?” chiede Zlatan, allontanandolo lentamente ma continuando a strizzargli dolcemente uno zigomo, il pollice che si muove piano sulla sua pelle mentre si guarda intorno accigliato.
“Mi dispiace, non lo so. Aveva detto che sarebbe sceso! Vuoi che provi a chiamarlo?”
“No no, non preoccuparti. Devo andare. Digli che è un coglione e che mi ricorderò di questa mancanza di rispetto per i suoi superiori. Digli che lo dirò a José che lo sbatterà in panchina.”
Zlatan scherza e la sua voce è ferma e giocosa, ma Davide glielo legge negli occhi che c’è rimasto male, che voleva salutarlo, che in realtà non sa neanche se con il Mister ci parlerà più, ed è per questo che si spinge velocemente in avanti, baciandolo piano sulle labbra, come in una carezza consolatoria. Lo fa perché vuole che almeno parta sereno, perché vuole che sappia che da parte loro (da parte sua) ci sarà sempre solo affetto, perché vuole che sia consapevole che lui metterà le cose a posto e tutto sarà come prima, anzi, meglio di prima, a prescindere dalle distanze e dalle maglie e da tutto.
Quando si separano Zlatan sorride, un sorriso piccolo e soddisfatto, ma non lo guarda negli occhi, quasi si stesse perdendo in un mondo solo suo; Davide invece lo fissa sfacciatamente per qualche altro secondo, per imprimersi per bene un’ultima volta la sua immagine nella testa, prima di mormorare un ultimo Buon viaggio e scappare via, verso un luogo lontano dal sole cocente e dal cielo azzurrissimo di Los Angeles, verso l’albergo, verso Mario.
*
Quando Davide entra nella stanza che divide con Mario le tapparelle sono tutte abbassate e la camera è immersa nella più assoluta oscurità. Gli ci vuole qualche secondo perché i suoi occhi si abituino al buio e distinguano i contorni delle cose ed è a quel punto che riesce a scorgere il profilo di Mario, appallottolato sul suo letto sfatto, la testa sotto il cuscino e le lenzuola attorcigliate intorno alle gambe nude.
È un’immagine a cui non è abituato, quella di Mario bambino, e un po’ gli fa tenerezza e un po’ gli fa male, perché anche con tutto l’amore del mondo non sa cosa fare per farlo stare meglio e rimetterlo insieme. A vederlo così anche il rimprovero che si è ripetuto per tutto il tragitto dal campo a lui (Perché non sei venuto? Sei il solito. Zlatan ci teneva!) gli muore sulle labbra, sostituito da pensieri più morbidi, più dolci.
“Mà? Sei sveglio?” sussurra piano, avanzando sino al letto per poi fermarsi davanti alla sua figura distesa.
“Sì.” La sua voce è soffocata dal cuscino, ed il tono non lascia trasparire nessuna emozione, eppure Mario non si muove e non tenta di rendersi visibile, resta semplicemente così, come se potesse davvero nascondersi da quello che è successo, come se potesse nascondersi da Davide.
“Zlatan è andato via qualche minuto fa. Ha detto di salutarti. Tu perché non sei sceso?” chiede, con il tono più sereno che riesce a trovare, mentre si siede sul letto e allunga un braccio per accarezzarlo lentamente, una mano che scivola sotto la maglia larga e si perde nel calore della sua pelle nuda, nello spigolo deciso del suo fianco.
“Sai, credo di aver sempre avuto una specie di cotta per Zlatan. Come le ragazzine che ci vengono dietro all’Hollywood, hai presente?” mormora quello, inarcandosi morbidamente contro il suo tocco e ignorando completamente la sua domanda. Davide non sa cosa dire, perché in fondo è una cosa di cui è sempre stato consapevole, nonostante Mario non gliene abbia mai parlato, e poi è una storia talmente vecchia che quasi non la ricordava più. E quindi si morde un labbro e gli stringe un po’ più decisamente l’anca, con il palmo della mano ben aperto, provocandogli un brivido leggero mentre quello finalmente scosta i cuscini e si lascia osservare, gli occhi semi chiusi che fissano un punto imprecisato del pavimento.
“Abbiamo anche scopato, per un certo periodo. È un po’ come se lo avessi costretto, in un certo senso, visto che gli stavo sempre intorno e cercavo di fargli capire in ogni modo che uhm, ero disponibile ventiquattro ore su ventiquattro per qualsiasi perversione potesse avere. Forse sono stato anche peggio di quelle ragazzine, sai Dà? Perché loro lo fanno per dire di essere state con uno famoso, io invece perché non sapevo in che altro modo farmi prendere sul serio.”
Il tono di Mario è indifferente e adesso i suoi occhi sono chiusi, ma ha allungato una mano a cercare la sua, mollemente appoggiata su un ginocchio, e gioca con le sue dita, tracciandone i profili e poi stringendole e poi lasciandole per ricominciare tutto daccapo.
Davide non ha mai sentito il desiderio tanto forte di baciarlo, di toccarlo tutto, di farsi sentire, e non è una questione di gelosia, perché non gli interessa marcare il territorio, gli interessa soltanto portarlo via da quei ricordi troppo agrodolci, fargli perdere la testa quel tanto che basta per farlo stare bene di nuovo, anche solo farlo sorridere per un po’, perché da che sono a Los Angeles è una nuvola temporalesca che minaccia di scaricarsi da un momento all’altro.
E quindi lo spinge a distendersi sulla schiena, una mano ancora intrecciata alla sua e l’altra che si sposta dal suo fianco al suo stomaco rilassato, a vagare sulla sua pelle morbidissima e a tracciare quasi inconsciamente il percorso di quella cicatrice che tanto racconta della vita che ha passato.
“Il fatto è che mi mandava proprio fuori di testa, volevo piacergli a tutti i costi e volevo che mi considerasse un suo pari, anche se ero piccolo e giocavo più con la Primavera che con la prima squadra. Non sai quante cazzate ho fatto solo nel tentativo di farlo ridere o di farmi dire ‘bravo’, e non ho intenzione di raccontartele perché a distanza di tempo me ne vergogno come un cane.
Volevo essere come lui, ecco. Volevo essere come lui e giocare come lui e essere capace di stare sul cazzo e di farmi amare come riusciva a lui, perché mi sembrava fottutamente perfetto. E per un certo periodo tra noi ha anche funzionato. Ha funzionato ed è stato bello e pensavo che potesse durare per più di qualche mese.”
“E cosa è cambiato?”
Davide neanche lo sa com’è che ha trovato la forza di parlare e di interromperlo, non sa neanche perché la sua voce sia così bassa e desiderosa di sapere, come se non stesse ascoltando la persona che ama parlare di una relazione così profonda da turbarlo e scuoterlo ancora adesso, ma di una storia qualunque, con protagonisti ignoti e lontani. E il punto probabilmente è quello: una storia simile non gli interesserebbe mai, se i protagonisti non fossero loro, Mario e Zlatan. E gli interessa perché, seppur in modo diverso, li ama tanto perdere il senso della realtà e della misura per poterli comprendere fino in fondo, in quella natura troppo intensa troppo profonda che possiedono.
“Sei cambiato tu. Sei arrivato tu e ho perso la bussola e tutto è andato a farsi fottere.”
Mario lo dice come se fosse un’ovvietà persino noiosa e scontata, ma adesso lo guarda dritto negli occhi, il buio che non riesce a smorzare la voglia e l’affetto che li fa bruciare; la sua voce ha assunto un tono più caldo e morbido a quelle parole, e la stretta delle loro mani si è rafforzata, e Davide quasi si dimentica di respirare, perché quel momento è perfetto e non ha bisogno di essere interrotto da inutili esigenze biologiche, anche perché Mario è tutto l’ossigeno e tutto il sangue e tutta la vita di cui abbia bisogno.
Anche tu. Anche tu hai cambiato tutto, cazzo. E ne sono felice come neanche immagini.
E quindi lo spinge un po’, per costringerlo a fargli posto mentre gli si sdraia di fianco, i respiri che si mischiano e le mani che si cercano più freneticamente di prima, mentre Mario inizia a tremare e si sporge verso le sua bocca.
Il bacio che scambiano ha un sapore strano, Davide non sa neanche come definirlo, perché è un concentrato di rabbia e paura e tristezza e dolcezza e amore, che lo stordisce e lo fa sentire piccolo piccolo, mentre le labbra di Mario si lavorano le sue, mentre la sua lingua scivola contro la sua, mentre le sue mani volano ad accarezzargli il viso, a perdersi tra i suoi capelli, a portarselo il più vicino possibile.
Quando si separano Mario affonda il viso contro il suo petto e sussurra: “Però tutto questo fa schifo ugualmente. Fa schifo e lo odio, perché se ne va anche sapendo che senza di lui non resta niente. E nonostante questo mi sento ancora il fottuto coglione che pur di avere la sua attenzione sarebbe capace di buttarsi sotto a un treno, ci credi?”
E Davide non risponde, si limita a baciarlo piano sulle tempie, sulla fronte, sulle orecchie, tra i capelli, senza trovare qualcosa che sia abbastanza dolce da lenire la ferita, abbastanza vero da consolarlo.
E siccome non sa che fare, perché non è bravo a porre rimedio a niente ed è drammaticamente limitato a livello emozionale (mentre Mario è grande, enorme, infinito, e ogni tanto questa cosa diventa pericolosa e disturbante, proprio come in questo momento), si allontana il tempo necessario per spogliarsi di ogni vestito che indossa; poi gli afferra le mani e lentamente se le porta alle labbra, baciando la punta di tutte le dita e i palmi caldi, prima di dirigerle verso i propri fianchi e costringerle, a quel punto, a serrare la presa.
Non ho altro da darti. Non posso fare niente per te e per questo, se non darti tutto quello che ho, tutto quello che sono.
Mario lo guarda e respira pianissimo, un labbro tra i denti mentre con le dita accarezza i profili sporgenti delle sue anche, e semplicemente annuisce. Poi si tira su, a sedere, e si lascia spogliare come se fosse troppo stanco per farlo da solo, come se fosse un bambino mentre Davide lo accarezza ovunque, sulle braccia, sulle gambe, sul petto, sulle spalle, con una premura e una calma che sorprendono lui per primo.
Quando le loro cosce nude si trovano a contatto, Mario sospira e si allunga verso la sua bocca una seconda volta in uno strofinio che somiglia più a una carezza che a un bacio.
Poi, senza più guardarlo e senza più parlare, si distende di nuovo, prono.
E Davide lo guarda, il profilo drittissimo della schiena, la curva perfetta dei suoi glutei, e gli gira la testa solo a pensare cosa rappresenti questa concessione, quell’unico, piccolo gesto.
E non c’è più spazio per pensare, non c’è più spazio per l’incertezza, c’è solo Mario e quel momento e lo deve baciare, lo deve accarezzare come se fosse la cosa più preziosa del mondo, lo deve amare come nessuno è mai stato in grado di fare.
E quindi tempesta la sua schiena di baci, il suo collo di morsi, le sue orecchie di parole, mentre lo prepara piano e bene, mentre affonda dentro di lui, con tutta l’attenzione del mondo, mentre si muove lento dentro il suo corpo, facendolo gemere e tremare più forte, mentre viene spingendosi contro di lui un’ultima volta, facendolo venire a sua volta.
Quando esce fuori dal suo corpo, la respirazione di Mario è impazzita e somiglia tanto a una catena di singhiozzi strangolati. Davide sospira, e spera semplicemente che passi, com’è passata per Adri, com’è passata per il Mister, com’è sempre passata.
E dopo averlo baciato piano sulla nuca e averlo abbracciato, schiacciandoglisi addosso quasi violentemente, tira su le lenzuola e copre entrambi, anche se è pieno giorno e dovrebbero allenarsi, anche se il Mister sicuramente si starà chiedendo dove cazzo siano (ma forse no, forse anche lui è perso per gli affari suoi), perché non può fare altro e non serve altro, non a lui, non a Mario, non a loro.