tutto il mondo ha voglia di ballare

Dec 30, 2008 00:39



Sto leggendo un romanzo.

Non so da quanto tempo era che non leggevo un romanzo in italiano per il puro gusto di leggere. Gustare le parole. Innamorarmi.

Non so da quanto tempo è che non mi innamoro in questo modo di un autore.

Alberto Garlini.

Dovrò cercare altro di lui.

Per ora, sono a pagina 239 di "tutto il mondo ha voglia di ballare".

E so che dovrò rileggerlo, perché nelle ultime cento pagine l'intreccio si è fatto più fitto e io ho smesso di concentrarmi sulla poesia per badare ai fatti.

Ai personaggi.

All'avvicinarsi degli snodi finali.

(Perché la maledizione di un finale già svelato è un piacere, in qualche modo. Per me, almeno. Mi permette di giostrare meglio l'attenzione. Di scivolare su certi passaggi e fissarmi su altri. Di modulare l'emozione. Di tenere ogni speranza vana sotto controllo).

Il romanzo è ispirato, in qualche modo che non ho ben chiaro, alla figura di Pier Vittorio Tondelli.

L'autore dice di essersi basato principalmente sull'io narrante dei suoi romanzi - e infatti, in uno dei primi capitoli incentrati su Pier, ho riconosciuto alcuni dei protagonisti di Pao Pao.

Questo fa sì che io debba cercare anche gli altri libri di Tondelli per trovare altro di Pier, lì dentro.

E sperare di trovarci anche un po’ di Roberto.

Sono i giorni ideali per leggere questo romanzo.

Perché alcuni personaggi mi ricordano sfaccettature di Gabriel - Pier, e Roberto, e suo padre Franco. Suo fratello Enrico.

E io in questi giorni sto amando Gabriel con tutta me stessa.

Non sono capace di riassumere la trama,

Non perché sia particolarmente difficile da riassumere - anzi - ma perché non ho voglia. Non ora.

Razionalizzare è una fatica.

Qui è riportato quasi interamente il quarto di copertina. Credo possa bastare, per un'idea più oggettiva.

Io avevo solo bisogno di appuntare qualche pensiero.

Di comunicare qualcosa.

E di trascrivere alcuni passaggi. Perché a volte riscrivere le parole è il modo migliore - insieme a leggerle ad alta voce - di viverle davvero.

Brani tratti da capitoli diversi.

Neanche in ordine cronologico.

L'unica cosa comune, è la reazione emotiva che almeno in me hanno innescato.

Sempre, mi sono messa a piangere. A prescindere dall'argomento trattato.

Solo per le parole.

E so che a voi non potranno fare lo stesso effetto: me ne accorgo da sola. Asportarle dal contesto è un delitto: raramente ho letto una prosa in cui tutto fosse così collegato. In cui l'emozione che esplode in una riga, sta crescendo silenziosa da tre pagine indietro. In cui è impossibile trovare il momento in cui ha avuto origine.

Ma, purtroppo, è l'unico modo che ho di evidenziale. E fissarle, forse. Per un po’.

"Come sei sicuro che siano davvero i tuoi compagni?"

Pablo guarda Franco dritto negli occhi. E' un uomo che ha ucciso ed è convinto di ogni cuore che ha trapassato. Si nutre di quel calore, di quel sangue. È un uomo che ucciderebbe daccapo, ancora e ancora. Il cui odio è indelebile. È duro e quasi infantile nella canottiera a pezzi.

"E chi potrebbero essere?"

"Non credi che ci siano troppi morti?"

"Secondo i nostri calcoli seimila scomparsi dall'inizio dell'anno."

"Perché combattete ancora in questo modo…" chiede Franco. Gli sembra che il ginocchia sia affondato nella sabbia. Non sa perché parla così, ma deve parlare così, non può continuare questa mattanza inutile. "Il Sudamerica è stato rovinato dal mito del guerriglielo…"

Pablo non risponde.

Dice: "Fai le tue foto e scrivi quello che ti pare…"

Poi se ne va, sempre più piccolo, verso un mondo che finisce in un inutile e orgoglioso martirio. Non potrà venire che qualcosa di peggio, pensa Franco. Di fronte alla bellezza di questa fede sprecata non potrò che venire una storia corrotta. Lo spettacolo della bellezza e lo spettacolo della fede al posto della vera bellezza e della vera fede.

La scuola insegna a stare fermi, a vivere un tempo dato in prestito ad altri. Altri che non si sa chi siano.
Ma dopo che si è stati fermi e la molla si è caricata, la scuola insegna anche ad uscire e a urlare e a riconoscere ogni muscolo che si muove nell'aria libera. Sembra di avere un'energia sufficiente a partire per l'India. Sandokan e le tigri feroci sono un sogno realizzabile, almeno fino a che un genitore non ti prende per le braccia e ti porta dentro la macchina, dentro un'altra forma di ordine.
Come si fa ad avere paura dei pensieri che corrono veloci?
Perché ci obbligano a stare fermi?

L'autostrada è impersonale e nell'autostrada ci si sta bene, perché da ciò che non è tuo e non è radicato in te, puoi sempre fuggire. Non puoi fuggire dalla madre e dal padre che muore, dalla prima forma della strada di fronte a casa tua e dalla voce che ti dice dentro chi sei. Ma da un'autostrada puoi sempre fuggire.

Le luci degli autrogrill che scorrono sono il tossicchiare discreto del buio. Se c'è da fare benzina si farà benzina, se c'è da mangiare si mangerà; se il problema sarà il sonno allora il caffè scorrerà a fiumi. È meraviglioso viaggiare nella notte, mentre le luci diradano i pensieri e le macchine vanno piano, e sono macchine di fratelli e sorelle, ognuno spinto da un suo sogno, un suo destino, dal suo desiderio di stare sopra una strada e correre e vedere cosa succederà. E allora, mentre si viaggia senza un senso, mentre nel mangianastri va la musica di Paolo Conte e ci sono dei pomeriggi azzurri e dei limoni gialli in un mondo freddo, si può sentire che non manca niente, che la vita non è solo una cosa che succede tardi. Malgrado tutto è bella, e si può sempre ricominciare da zero ed essere felici.

Vicki sente che deve ricostruirsi, mattone dopo mattone, odore dopo odore, maestro dopo maestro. In qualche modo misterioso, su quella spiaggia, nel delta del Po, dopo quel viaggio con le cinquantamila in tasca, Vicki non è più Vicki. È un'altra cosa. Il mondo intero è un'altra cosa. Non studierà filosofia, né le religioni orientali, né la fiaba russa, né la struttura del racconto. Penserà solo a scrivere, a raccontare. La patina di parole gli tiene caldo.

È un gioco, un gioco piccolo e nemmeno tanto importante. Ma è l'unico gioco che si può giocare. Si regge sulle parole. Le parole lo rendono possibile, lo inverano. E lui giocherà questo gioco.

Scriverà. Scriverà e guarderà un mondo che non è più suo e ne avrà pietà, e lo blandirà, come un infiltrato, come una spia.
Vicki è diventato un uomo, è diventato Pier.

E poi, infine, una frase che mi ha sconvolto.

L'unica, tra quelle estrapolate, che sia perfetta così. Che sia benissimo così. Che non abbia bisogno di altro.

Non per me.

Perché io, quando un mese fa scrivevo il capitolo della Rosa che in questi giorni sto cercando di correggere, ero rimasta ferma dieci minuti a cercare quelle stesse parole, invano. Quello stesso ordine. Quella stessa immagine. Quello stesso concetto.

Lo volevo così.

Doveva essere così.

Ed è quasi un miracolo trovarlo in un romanzo altrui. In un passaggio che nulla ha a che fare con Vivian e Carlos e la sua stanza, e le stagioni che dalla finestra si guardano passare.

Ed è stato solo un brivido, quando l'ho letta. Un po’ incredulo, un po’ commosso.

Era da molto che non invidiavo così tanto le parole di qualcuno.

Il tempo, adesso, è solo una sciocchezza circolare.

Capisci, Fata, perché dico che *devi* leggerlo anche tu?

schizofrenie, libri, words

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