Heroes and Villains è un po’ una favola. Lo è probabilmente più di tutte le storie contenute in The bloody chamber perché manca dell’introspezione psicologica che hanno tutti quei racconti, e non ne condivide l’atmosfera sensuale. Quella bellezza densa e un po’ conturbante che ti sembra di avvertire sulla pelle. Nella bocca. Come un sapore.
Il linguaggio è diverso, anche - uno stile più acerbo, forse, meno sontuoso. Erano dieci anni prima, in fondo (il ’69, invece del ’79), e si trattava solo del suo quarto romanzo. Il primo tentativo compiuto di una ‘gothic novel’, rispettosa delle sue convenzioni e dei suoi topoi. Full of dread and glamour and passion, come lei stessa scrive.
È la storia di una ragazzina, Marianne, che vive in un mondo post-apocalittico chiusa in una bianca torre di cemento e acciaio, insieme a suo padre - Professore di Storia in quella realtà che la Storia ha un po’ dimenticato e che conserva solo un ricordo vago di quelle che erano le scienze, e le realtà passate - e al resto della gente civile. Fuori, oltre i confini di quella comunità arrangiata, si stendono foreste e città abbandonate che dalla foresta sono state inghiottite, dove vivono animali selvaggi e altri uomini. I barbari.
Ho sempre avuto una passione difficilmente spiegabile per l’idea di barbari. È una delle ragioni per cui la letteratura post-coloniale - che fa di quell’argomento un tema importante - mi interessa così tanto, e probabilmente ciò che da subito mi ha attratto a questo romanzo.
La Carter non svolge il tema da un punto di vista sociale. Affronta il discorso del relativismo, dell’interscambio di ruoli tra heroes e villains, perché il protagonista maschile è senza dubbio l’eroe del romanzo, così come ne è in qualche modo il cattivo. Colui che si dipinge il volto per fare paura e ruba alla gente civile la farina macinata con tanta fatica, e colui che adolescente uccide il fratello della protagonista davanti ai suoi occhi bambini. Colui che, dieci anni dopo, rapisce Marianne - o si lascia salvare. Che la porta alla propria tribù e la salva dal morso di un serpente e la prende contro la sua volontà e poi la sposa. E la colpisce, a volte. E l’accarezza.
Ma è impossibile prenderlo a modello di qualche teoria - è impossibile idealizzarlo perché già si tratta di un’idea ridotta all’osso. Il suo nome è Jewel, e forse gliel’hanno dato per la sua bellezza, e ha capelli nerissimi e pelle scura e la Tentazione di Adamo tatuata sulla schiena. È coraggioso e sa sopportare il dolore; è il capo della sua tribù e ha cinque fratelli - tutti simili a lui, tutti un po’ selvatici - ma odia le proprie responsabilità e il proprio ruolo. È intelligentissimo ma analfabeta e nel finale morirà per una causa assurda.
Marianne ne è affascinata ma lo odia al tempo stesso - va bene desiderarlo, ma averne bisogno è un altro discorso - e quando capisce di dovergli dare un figlio vorrebbe ucciderlo, ma quando scopre di starlo già aspettando gli si rannicchia in grembo.
C’è qualcosa di paurosamente incompleto, in questi personaggi, in questo romanzo stesso. Come se mancasse loro una dimensione, un senso - come se fossero creature a metà strada tra uomini e animali, privi di emozioni complesse eppure assurdamente complicati. Bellissimi, e ambigui.
Non hanno passato, non hanno futuro. Vivono di razzie e scarti eppure passano il tempo a ricamare piume e perline sui loro vestiti. Usano il sesso nello stesso modo in cui potrebbero usarlo i gatti, e si amano ferocemente finché sono vivi. Quando muoiono, è come se non fossero mai nati.
Forse la loro essenza è proprio quella di un presente perfetto - mentre quella di Marianne è la noia, la voglia di avventura. O forse è stupido anche solo cercarla, un’essenza, perché in realtà il romanzo è una favola e non c’è vera morale, e la sua profondità innegabile non può essere trovata in un’analisi psicologica. Non in quella dei personaggi, almeno. Non nella trama.
Ma l’intero racconto è come il fluire di una pulsione nascosta, che sta dentro di te. È l’esorcismo di qualche cosa che non puoi bene spiegare e a cui non vuoi trovare limite, nome - è la possibilità improvvisamente apertasi di una libertà assoluta. Quella che nasce dal muoversi in un territorio che non è reale, verosimile, e può quindi fare a meno dei suoi vincoli. Usare nuove formule e nuovi scenari. Limitarsi a porre domande senza dare risposte - nasconderle, le domande, nell’idea di un serpente tatuato intorno ai polsi dei membri della tribù, nei continui riferimenti al tempo immobile, al tempo spezzato.
Lasciando la sensazione che potrebbe esserci molto altro da distillare, in quelle 150 pagine - suggestioni e ragionamenti e moments of being improvvisi - ma che alla prima lettura possa andare bene anche così. Solo il ritaglio di quei personaggi - l’incapacità di mettere in forma scritta emozioni nate da qualcosa che in fondo non è altro che un’emozione incarnata. Perché Marianne accusa Jewel di essere nothing but the furious invention of my virgin nights, eppure lui è al tempo stesso anche the sign of an idea of a hero, e può diventare nothing but the idea of that power which men fear to offend. Il mago Donally, lo sciamano, colui che ha ucciso suo padre e gli ha tatuato l’albero della Conoscenza sulla schiena, dice di starlo creando as I go along, ma di incontrare difficoltà nell’impresa perché he won’t keep still long enough. E addirittura Jewel stesso ammette che i suoi incubi peggiori sono quelli in cui sogna di essere an invention of the Professors. Addirittura Jewel, dibattendosi in quella rete da cui non riuscirà a sfuggire, sembra mostrarsi troppo preda dei propri limiti eppure struggentemente proiettato su altro - ribelle quando Marianne, quanto lei sensibile. E crudele.
Non può dirsi una storia d’amore, la loro, e in fondo non può dirsi storia di niente. Solo una creatura che esiste, ed è popolata a sua volta di altre creature, ed è bellezza almeno quanto è orrore. È insensatezza così come racconto, tatuaggio.
Immagini che ti entrano dentro, parole che ti accompagnano.
Nella loro incompletezza, nella loro imperfezione. Nella sensazione che qualcosa sia rimasto incompiuto, che ci sarebbe stato ancora da leggere, ancora da raccontare.
Immaginare.
E nel suo essere sosta all’interno di un percorso che porterà ad altro. Nuove dissoluzioni e nuovi miti. Favole e rivisitazioni e cappuccetti rossi che si innamorano di lupi e ragazze di ghiaccio che sposano tigri.
Di suo, mercoledì ho trovato anche The infernal Desire Machines of Doctor Hoffman, e sono riuscita a recuperare i pdf di Wise Children e Nights at the Circus. Stamattina, ho riletto per l’ennesima volta The tiger’s bride, ripromettendomi come sempre che devo tornare anche sulle altre storie contenute in The bloody chamber, perché non basta quella, come non basta la favola dell’ Erl-King.
La sensazione, però, ora come quando Ste mi ha spinto per la prima volta nella sua direzione, è di avere incontrato qualcosa di importante. Che accompagnerà nel futuro, forse. E che sicuramente avrà ancora molto da dire.
(È un periodo che sono affascinata dalle storie fantastiche, tra l’altro. E dalle donne.
Trovare due romanzi della Carter sullo scaffale dei libri in lingua della Fnac, dopo più di un anno speso a cercarla inutilmente, è stato quasi un miracolo. E forse è altrettanto miracoloso il fatto che, dopo tutto quel tempo di attesa, aver finito di leggere non mi abbia lasciata delusa.)
(The tiger’s bride, comunque, rimane una storia *meravigliosa*.)