Titolo: After all this time I’m coming home to you.
Autore: me medesima stessa.
Beta-reader:
faithina ♥
Fandom: Criminal Minds.
Personaggi Principali: Spencer Reid / spoiler!
Personaggi Secondari: David Rossi.
Prompt: "lui".
Rating: G.
Avvertimenti: angst, slash.
Conteggio Parole: 1,481 W, one-shot.
Disclaimer: tutti i personaggi non mi appartengono T_T ma sono di quella mente geniale di Jeff Davis.
Note:
§ scritta per la community
fanfic100_ita,
table.
§ SPOILER! Più che altro del caso e di alcuni personaggi, puntata 20x4 - Conflicted.
§ il titolo completo è ‘and with all that we’ve been through, after all this time I’m coming home to you’ preso da ‘Gunslinger’, by Avenged Sevenfold.
§ tutto ciò che viene espresso in questa storia è frutto delle mie idee, di ciò che penso, nulla è stato scritto con l’intento di offendere qualcuno.
§ i commenti sono l'Amore <3
And with all that we’ve been through, after all this time I’m coming home to you.
«Rossi, hai visto l’agente Hotchner?»
L’uomo alzò il viso dai documenti che stava compilando, odiava quella parte del lavoro, scrivere rapporti su rapporti, quello era il compito di Aaron.
«Al momento non c’è.»
«E dov’è?»
«Se lo sapessi non starei qui a completare montagne di scartoffie.» Rispose con un tono stizzito. Odiava la burocrazia.
«Sai quando torna?»
Rossi poggiò -lanciò, la biro contro la tastiera del computer, fissò il suo sguardo in quello del ragazzo.
«Ti serve qualcosa, Reid?»
«Un permesso, vorrei andare via per un quattro giorni, al massimo una settimana.» Spencer sentì i suoi occhi, la sua mente, la sua anima venire sondata nel profondo. Rossi stava cercando di capire cosa lo portasse ad allontanarsi da Quantico, da loro. Certo, una vacanza faceva bene a tutti, ma questa domanda era già stata posta numerose volte.
«Certo, fai pure.» Lo vide annuire e girarsi.
«Ah, Reid. Come mai tutti questi permessi? Non per farmi gli affari tuoi, semplice curiosità.»
Il ragazzo si fermò di schiena sulla porta d’ingresso dell’ufficio, impercettibilmente strinse maggiormente la mano sulla maniglia, il suo sguardo si perse nel vuoto. Tutti i suoi pensieri ritornarono verso un unico punto. Lui. Sempre e solo lui.
«Reid? Tutto bene?» Bruscamente ritornò alla realtà, si voltò per guardare in faccia il suo interlocutore.
«Sì, certo. Ho bisogno di una pausa. Tutto qui.» Rossi sospirò, si alzò dalla scrivania e andò alla finestra.
«Sai, per certi versi mi ricordi me stesso dieci anni fa. Quando la consapevolezza di non poter far niente mi travolse con un fiume in piena.» Reid sospirò pesantemente. Quella sensazione non gli era estranea, eppure gli pesava con un macigno, una spada di Damocle sospesa a tre millimetri sopra la sua testa, pronta a trapassarlo completamente.
«Ma alla fine ci sei riuscito, alla fine hai risolto il caso.»
«Pensi che ora sia in pace con me stesso? Ho fatto il mio lavoro, i cattivi sono stati presi, hip hip hooray?» Non era da lui quel tono sarcastico, ma Reid doveva capire.
«No, il ricordo mi perseguita tutt’ora, una famiglia è stata distrutta, dieci anni nel silenzio, nell’ignoranza, nel chiedesti chi mai avrebbe potuto fare loro questo. No, non è risolto per niente. Rimane lì, a monito, avvertimento per il futuro. Come un’ombra il sentimento di impotenza nei riguardi delle loro vite distrutte, nella tua incapacità di non essere riuscito a prenderlo, per dieci lunghissimi anni. Pensare a loro, vederli soffrire e non poter far nulla. E sai che puoi prendere quel bastardo, vuoi, devi. Ma non ci riesci. Allora passi le giornate a pensare a loro, diventano il tuo chiodo fisso, la tua ossessione. La consideri la tua famiglia. Il tuo mondo. Ma in fondo rimangono solo tre ragazzini sconosciuti.» Lo vide uscire dalla stanza, non aveva capito. Sapeva che Spencer si stava torturando. Si avvicinò alla porta e lo vide uscire dall’ufficio.
«La tua famiglia. Tre ragazzi.» Sussurrò. Un ghignò gli si disegnò sulle labbra. «Uno per ex-moglie.»
Era in viaggio, anche se quel maledetto aereo gli sembrava sempre troppo lento quando deve raggiungerlo. Guardò le nuvole fuori dal finestrino, uno sbuffo di panna. Il suo pensiero ritornò al lui, sempre e solo lui. Da ormai dieci mesi appena poteva lo andava a trovare, ma il suo pensiero era fisso su di lui. Giorno e notte.
Costante ossessione della sua vita.
Aveva ripetuto più e più volte a se stesso che era solo per lavoro, uno studio che stava facendo, per rendere le cose più semplici a tutte loro, conosci le cause combatti il male.
Eppure quel ragionamento faceva acqua da tutte le parti. Ogni volta una seconda voce sottolineava il fatto che lo faceva solo per sé, egoisticamente. In quel momento non gli importava nulla di tutte le vittime, di tutti coloro che avevano subito quella sorte, in quel momento era lui. C’era solo lui.
Era stato legato, imbavagliato, drogato, picchiato, umiliato come essere vivente, come essere pensante. Costretto a cercare una spiegazione logica in un comportamento creato dalla pazzia. Cercare di perdonare. Ma come poteva perdonare Raphael? Come poteva scusare Tobias? Come poteva perdonare colui che lo aveva costretto a mesi di paura, a non poter più dormire la notte, a diventare una corda di violino che scatta ad ogni sospiro, ad ogni minimo movimento nell’oscurità, alla propria ombra. Perdonare chi lo aveva fatto diventare un fantasma di quello che era? Come era possibile dimenticare?
«Razionale. Devo essere razionale.» Un sussurro. Un mantra. Un’esortazione. Ma non funzionava.
La sua parte emotiva continuava a ripetergli che non bisogna avere pietà, nessun perdono per i bastardi. Anche se i bastardi sono le vittime?
La sua parte razionale aveva perdonato Tobias, sapeva che non era colpa sua, che in quello stato era stato portato a forza, da anni di umiliazioni, torture psicologiche. Nessun perdono per i bastardi.
Rieccola quella frase, nascosta per anni nella parte più segreta della sua mente. Si sentiva un’idiota ad essere così emotivo, l’emotività faceva parte dell’adolescenza, periodo che lui aveva passato da un pezzo. O forse no?
Troppo impegnato nei suoi studi per poter concedersi alle passioni, passato dall’infanzia all’età adulta, da zero a dieci. Senza passare dal via. Senza provare lo scontro con quel mondo che si ritiene ingiusto, senza la possibilità di imparare dai quegli errori stupidi ma che ti rendono più saggio, più consapevole, più incline al perdono.
Nessun perdono per i bastardi. Anche se i bastardi sono le vittime?
Sentì il cuore spaccarsi. Tobias era una vittima, lui era una vittima. Eppure era su quell’aereo. Solo per raggiungerlo.
Appena atterrato gli sembrò di riprendere a respirare, a vivere. Era lì. A pochi metri da lui. Prese un taxi e si recò alla clinica, senza passare dall’hotel a poggiare i bagagli, magari a farsi una doccia, a riposarsi. L’astinenza, il desiderio di vederlo era troppo forte per fare qualsiasi altra cosa che non comprendesse Adam.
Il primo uomo sulla terra. Il primo a farlo vacillare, a insinuarsi nella sua mente, nel suo cuore.
Sorrise. Non uno di quei sorrisi veri, era stanco di quella situazione inspiegabile. Non capiva cosa lo portasse ogni volta, fisicamente o solo con il pensiero a lui. Spencer era consapevole di cosa provasse il ragazzo.
Aprì la porta dell’istituto psichiatrico.
«Salve, come posso aiutarla?»
«Sono qui per vedere Adam Jackson.» La ragazza scrisse il nome e controllò sul computer.
«Mi spiace, ma senza appuntamento o richiesta fatta al suo medico non è possibile vedere questo paziente.»
«Sì, ne sono al corrente. Sono Spencer Reid, sto conducendo una ricerca, il dottor Baker dovrebbe aver lasciato una nota specificando che avrei potuto far visita al suo paziente per proseguire il mio studio.» Vide gli occhi della ragazza scorrere sul monitor in cerca delle note.
«Ah, certo. Se aspetta un attimo l’accompagno nella stanza.»
«Non si preoccupi. Conosco la strada»
Corridoio a sinistra, prima porta a destra. Due rampe di scale. Corridoio a sinistra. Camera 215. Sulla destra.
Riviveva quel percorso ogni notte. Nei suoi sogni. Nei suoi incubi.
«Lei deve essere il signor Reid, giusto?» Spencer mostrò il suo tesserino di riconoscimento dell’FBI.
«Se aspetta un attimo, avviso Amanda che Lei è arrivato.» L’infermiera a sorveglianza della stanza aprì la porta e vi scomparve dentro.
Reid si passò una mano sul viso. Tutta quella situazione era irreale. Lui era stato uno dei primi a non capire e a rifiutare categoricamente una situazione del genere; trovava assurdo che una persona potesse affezionarsi ad un assassino. Come si poteva amare qualcuno che aveva rovinato famiglie intere?
Nessun perdono per i bastardi.
«Signor Reid? Può entrare.»
Voleva realmente entrare? Ciò significava ammettere le sue debolezze, la vittoria della sua parte irrazionale, la totale sconfitta di tutto ciò in cui credeva. Ma mentre stava ancora formulando quei pensieri si era già seduto sul comodo divano all’interno.
«Spencer, sei tu?» La voce falsamente acuta lo raggiunse come se provenisse da un mondo incantato, un mondo finto, creato dall’immaginazione di un uomo, fittizio.
«Certo.» Lo vide arrivare, senza trucco, parrucca e vestiti da donna. Semplicemente Adam.
Lo guardò timidamente negli occhi. Spencer sorrise.
«Sono contento di vederti.» E come un bimbo gli si sedette affianco, raggomitolandosi accanto al suo corpo, prendendolo come protezione dal mondo. Da se stesso. Da Amanda.
Iniziarono a parlare. Di tutto. Di quello che succedeva nell’ospedale, di come la ragazza del quarto piano riusciva sempre a scappare sul tetto, dell’ultimo film trasmesso in televisione.
Spencer riusciva soltanto a guardarlo, a rispondere alle sue domande, annullandosi in lui.
Forse non era giusto, forse non era razionale, ma lui era l’unico che potesse capire Adam, che fosse riuscito a liberarlo dalla morsa del suo ego protettivo, l’unico con cui si apriva e con cui dimenticava gli abusi subiti.
E Adam era l’unico per Spencer.