Titolo: Closing Walls And Ticking Clocks
Fandom: Heroes
Personaggi: Sylar/Gabriel Gray
Rating: PG
Prompt: Rotto
Parole: 727
Caratteri: 4300
EFP:
LINK.Summary: Non ero molto grande, ma abbastanza per capire che c'era qualcosa di irrimediabilmente marcio in quella casa.
Note: Perché ho finito di leggere La Casa in Collina di Pavese, e mi sento malinconica.
Tabella:
TABELLA. Closing Walls And Ticking Clocks
You are
You are
Confusion that never stops
The closing walls and ticking clocks,
gonna, Come back and take you home
(Coldplay - Clocks)
Erano ore trascorse nel buio della mia stanza.
Alla luce grigiastra di una qualsiasi di quelle mattine, mi sembrava così piccola e chiusa su se stessa.
Mi sentivo claustrofobico, pronto ad esplodere.
Ma nell'ombra, era come se le pareti cadessero.
Non provavo più quella soffocante sensazione di repressione che la luce portava con sé.
L'oscurità non si portava dietro alcuna responsabilità.
Non mi chiedeva niente.
Non voleva niente.
Non pretendeva nulla.
C'erano mattine durante le vacanze invernali in cui mia madre si ostinava a spalancare le finestre del mio bugigattolo.
"Per cambiare aria", diceva.
Non lo sopportavo.
Ero costretto a rifugiarmi là dentro, per sfuggire a quegli assurdi litigi, e ad aspettarmi non avrei trovato altro che un letto freddo, e delle pareti gelide.
Era la mattina a mettere a fuoco tutto ciò che di complicato esisteva nella mia vita.
Erano le urla di mia madre.
Le grida di mio padre.
Un assordante botta e risposta per il quale sarei volentieri sparito nel niente.
L'infrangersi di qualcosa ogni tanto, era un piacevole diversivo.
Chiudevo gli occhi, ignorando i brividi di freddo che mi scuotevano, tentando di capire cosa si fosse rotto, chi il colpevole.
Non ero molto grande, ma abbastanza per capire che c'era qualcosa di irrimediabilmente marcio in quella casa.
Lo vedevo nella carta da parati scrostata sui muri, su quei fiori scuri ed anneriti dal tempo, quegli arabeschi senza senso che trasudavano unto, sapevano di stantio e richiamavano la polvere.
Non c'era niente che amassi di quel posto, né di nessun altro.
Non sono mai stato abbastanza bravo ad inventarmi mondi paralleli.
Con gli occhi serrati, i pugni chiusi, mi sforzavo di vedere oltre.
Ma non ci sono mai riuscito.
Mi immaginavo nuove situazioni, una nuova casa, una nuova armonia.
Anche una nuova carta da parati.
O magari solo muri nudi, che non avevano bisogno di nascondere le loro vergogne dietro una pessima tappezzeria.
C'era solo il lento tic-tac della pendola che avevo in camera a scandire i secondi, i minuti, le ore che mi separavano dalla libertà.
Detestavo quando mia madre, urlando, mi impediva di seguirne i rintocchi.
Odiavo la voce di mio padre: non ho ancora sentito niente di altrettanto sgraziato e sgradevole.
Avrei voluto toglierlo di mezzo, dirgli che poteva andarsene, che non avevamo bisogno di lui... che ce la facevamo anche da soli.
Erano i singhiozzi di mia madre che non riuscivo ad ignorare.
E le sue parole appena mormorate... preghiere sommesse: non distinguevo quei versi, ma ero sicuro di conoscerli a memoria.
Sarei stato in grado di ripeterli senza omettere nemmeno una virgola.
Sono giorni che languiscono ancora da qualche parte, nella mia testa.
Quando lui se ne andò, mia madre non pregava.
Piangeva e basta.
Non lo odiava, non lo aveva mai odiato.
Non avrei potuto dire altrettanto.
Era suo il viso che davo al mio insuccesso, alla mia vita stagnante.
Era il suo ghigno che associavo a tutta quella polvere, a quei fiori pesanti, a quelle tende sporche che impedivano al giorno di entrare nella mia stanza.
Non si lasciò dietro niente che valesse qualcosa.
Lasciò mia madre.
Lasciò me.
Presi in mano i suoi strumenti.
Decisi cosa volevo diventare.
Lui.
Lui?
Forse.
Ma non avrei fallito là dove lui aveva sbagliato.
Riparava orologi, e rompeva tutto il resto.
Aveva infranto vasi, finestre, vetri... la nostra famiglia, mia madre.
Mi sono sempre reputato ben al di sopra di qualche insignificante trauma d'infanzia.
Sarei stato in grado di fare qualsiasi cosa... là dove lui non era riuscito.
Era l'insistente e storto tic-tac in salotto.
Era stonato e irregolare.
Era sbagliato.
Era rotto.
Era lui, ad ogni dannatissimo rintocco.
Imparai il mestiere.
Ne feci uso.
Mettevo le mani là dove ce n'era bisogno.
Ma più andavo avanti, più me ne rendevo conto.
Ero come lui.
Rimpiango di non esser riuscito a sistemare lei.
Voleva altro. Per me e per se stessa.
Non orologi, non pezzi rari, non lancette immobili.
Non lo capii, non volevo capirlo.
Smisi di sentire quei rintocchi.
Erano ammutoliti.
Non potevo più di tanto.
Il mio genio andava oltre, ma imparai a mie spese che si fermava anche quello, ad un certo punto.
Posso sistemarti.
Capire cosa si è spezzato.
Ma è quel tic-tac di orologio rotto che sento nel cuore, che non riesco a riparare.