ORIGINALE - "Preludio" (Terence/Elaine)

Nov 29, 2008 00:09

Titolo: Preludio
Fandom: Originale (più info in nota)
Personaggi: Terence Higgs, Elaine Vaisey [Declan, Nathan, Joseph, Virginia Higgs + Malcolm McEwan]
Pairing: Terence/Elaine (accennato)
Rating: PG
Parole: 2413 (W)
Warnings: One-Shot
Riassunto: Terence aveva smesso di prendersela tanti anni prima. Fingere di non appartenere affatto a quell'assurdo surrogato di famiglia era molto più facile che cercare di entrare a farne parte.


Note.
Allora, le note per sta cosa saranno un po' un casino.
1. Prima cosa e più importante, questa fic è dedicata ad Eli (elivi) per il suo compleanno! AUGURIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!! :* Spero ti piaccia.
2. Non è betata. Se ci sono errori, tell me.
3. Non è propriamente originale, c'è qualche cenno potteriano ma i personaggi in questione sono frutto di deliri miei e della tizia sopracitata. Diciamo che è una pottoriginale, okay? XD Non so come altro dirlo. Basata su un RPG.
4. Nient'altro, credo! Spero di aver azzeccato le date, ecco.
5. AUGURI ELIIIIIIIIIIIIIIIIII ♥♥♥





Preludio.

Autunno 2011

Sei la mia compagna.
Sei la mia amante.
Sei il mio tormento e la mia consolazione.
Sei la mia coscienza.
L'unica cosa in grado di farmi incazzare alla quale non chiedo altro che di continuare a farlo.
Sei il mio dolore e subito dopo la mia gioia.
Sei la mia migliore amica.
E sei l'unica persona che continua a darmi la certezza che tutto sia possibile.
Sei tutto quello che conta. Il mio mondo, la mia casa.

*

Vederlo così anonimo e pateticamente normale gli dava una certa soddisfazione.
Perché era la prova vivente di quanto fosse stato dannatamente più furbo di Walter. Perché era il simbolo della vittoria schiacciante ed indiscussa che aveva riportato su di lui sin dall'inizio. Perché, inconsciamente, quel ragazzino gli aveva riservato un posto di spicco tra i più grandi uomini della storia. Perché, allo stesso tempo, affondava se stesso e suo padre in un oblio di puro ed innegabile fallimento.

*

Estate 1988

"Nathan, smettila di dar fastidio a tuo fratello! E per l'amor di Dio, Declan, tirati su quei pantaloni!"

Virginia urlava ininterrottamente da più di mezz'ora, mentre Terence la fissava con un misto d'ammirazione e timore.

(Il fatto che avesse alzato la voce solo per farsi sentire al di sopra dell'ululato del vento, gli sembrò un dettaglio assolutamente insignificante.)

L'immagine del viso della donna, contratto nello sforzo di suonare abbastanza decisa, lo mise stranamente di buon umore: sua madre non gridava mai.
Qualche volta lo sgridava, ma non osava mai aprir bocca con i suoi fratelli, quasi non si potesse permettere di rimproverarli.

Terence aveva smesso di prendersela tanti anni prima. Fingere di non appartenere affatto a quell'assurdo surrogato di famiglia era molto più facile che cercare di entrare a farne parte. Aveva deciso che non ne valeva semplicemente la pena.

"Ehi, secchione!" Declan arrivò di corsa, travolgendolo senza troppi preamboli, atterrandolo sull'erba umida. Lo immobilizzò, tentando sadicamente di infilargli le dita nel naso mentre scoppiava a ridere fragorosamente.

"No! Declan! Smettila!" Tentò inutilmente di protestare, agitando forsennatamente la testa e qualsiasi arto di cui fosse dotato, nel disperato tentativo di sfuggire alle torture del fratello.

Nonostante Declan fosse il più confusionario di tutti (non tappava mai il dentifricio e non si ricordava mai dove aveva lasciato lo spazzolino il giorno precedente, spargeva calzini sporchi per tutta la casa, e riempiva il letto di Nathan con i lombrichi che trovava - e anzi cercava appositamente - nel giardino di casa. Terence lo adorava segretamente per questo, anche se non lo dava mai a vedere), era anche quello che preferiva. Era l'unico che si dava la pena di capirlo, e non aveva bisogno di estorcergli chissà quale pensiero per farlo, gli bastava guardarlo in faccia.

"Fagli ingoiare l'erba!" Esclamò Nathan, appena sopraggiunto, chinandosi sulle ginocchia per godersi lo spettacolo in diretta.

"Oh, sta' zitto, Nate!" Rispose il maggiore, dimenticandosi per un attimo di Terence. "Ma ancora non ti sei nemmeno sgualcito la camicia? Che razza di donnicciola!" Si rialzò di colpo, liberando il più piccolo dei fratelli, lanciandosi sull'altro per poterlo punire di tanta irriverenza.

"Andiamo, Terence," la voce di sua madre lo costrinse a rialzare gli occhi, facendogli perdere l'agguerrito placcaggio in corso, "rimettiti in piedi, guarda come hai ridotto il cappotto pulito."

Avrebbe voluto dirle che non era esattamente colpa sua, ma lasciò perdere prima ancora di aver formulato il pensiero. Sbuffò silenziosamente, rialzandosi lentamente. Provvide a spolverarsi le maniche del giubbotto, ripulendole da qualsiasi traccia di sporco. Terminata l'operazione fece per voltarsi e mostrare a sua madre che non era stato fatto alcun danno, ma la donna si era già allontanata, intenta a chiedere a Joseph (l'ultimo dei suoi fratelli, che aveva solo qualche mese più di lui) cosa preferisse per merenda.

Si domandò perché, sebbene fosse solita sorridere così tanto, sua madre continuasse ad essere la donna più triste che conoscesse.

Declan e Nathan erano ormai lontani (il primo stava obbligando l'altro a supplicare per riavere indietro almeno una delle scarpe che gli aveva sottratto), e suo padre già non si vedeva più.

Decise che avrebbe esplorato la scogliera.

Detestava le gite fuori porta, senza contare che la zia di Galway viveva in una casa che puzzava di gatto e cibo in scatola: essere trascinato fuori dalla sua stanza, lontano dai suoi progetti, non gli era mai particolarmente piaciuto e, anzi, tutte le manifestazioni (non richieste) dell'inesistente perfezione della sua famiglia, lo facevano sentire più stupido che altro.

Si ficcò le mani in tasca, procedendo verso il precipizio. Quando fu a pochi passi dalla caduta a strapiombo sul mare, prese a costeggiarne il ciglio, guardando ora il minaccioso spumeggiare del mare grigio sotto di sé, ora la punta delle sue scarpe.

Rialzò il capo solo quando una voce femminile non gli arrivò distintamente alle orecchie. Assottigliò lo sguardo, individuando una figura minuta accovacciata a terra, sporta verso il vuoto.

Provò una strana sensazione nell'osservarla. Non seppe dire se era per paura di vederla cadere, o soltanto per pura aspettativa.

Rimase immobile per un lunghissimo attimo, prima di decidersi ad avanzare.

"Ti conviene venire un po' più indietro," le disse, perdendosi a fissarle i lunghi capelli biondi che le si arricciavano in fondo, a metà della schiena. Pensò che dovevano avere un buon profumo, e la folla idea di avvicinarsi per accertarsene riuscì a sorprendere pure lui.

Quando la bambina si voltò, capì che non doveva avere più di sette o otto anni.

"Non credo di averti chiesto qualcosa," replicò velenosamente, scoccandogli una fredda occhiata di sufficienza.

Aveva grandi occhi grigi (Terence si chiese se, alla luce del sole, cambiassero colore) e un accento strano. Non sembrava irlandese.

"Bè, se proprio vuoi ammazzarti," si ritrovò a risponderle, facendole capire che non gli importava poi molto se il vento l'avrebbe fatta volare di sotto.
"Che fifone," l'indifferenza si era tramutata in scherno, mentre un sorrisetto storto le increspava le labbra arrossate dal vento gelido.
"Che c'entra, scusa?"
"Soffri di vertigini?"
"No."
"Allora perché non ti avvicini? Hai paura?"

Sembrava stesse morendo dalla voglia di prenderlo in giro. Si rimise in piedi, intrecciando le braccia al petto, in un gesto un po' troppo serioso per una bambina così piccola.

"Tu sei pazza," e dicendolo cominciava anche a crederlo sul serio: non doveva avere tutti i suoi giorni.
"C'è di peggio," rispose seraficamente lei, cogliendolo vagamente di sorpresa.
"Tipo?"
"Tipo avere quelle sopracciglia," lo indicò apertamente mettendosi poi a ridere.
"Ah-ah," sillabò una risata affatto divertita, facendo una smorfia, già pronto ad andarsene, "vabbè, se cadi di sotto, io ho comunque la coscienza a posto," la informò, facendo qualche passo per allontanarsi.

Distolse lo sguardo, prima di sentirsi afferrare saldamente per un braccio.

Gli sembrò di aver preso la scossa, gli fece uno strano effetto: qualcosa che non riusciva a definire in alcun modo.

"Già te ne vai?" Gli chiese con aria altrettanto perplessa, lasciandolo andare immediatamente.

Terence era più che sicuro che quel contatto inaspettato avesse dato noia anche a lei. Riusciva a leggerglielo in faccia.

"Sì, perché?"
"Così...," mormorò con aria vaga.
"Sei da sola?"
"Con mio padre, tu?"

Terence si voltò nella direzione da cui era venuto, scorgendo a malapena Declan e Nathan ancora impegnati in una folle corsa, accompagnati dai cori di incoraggiamento di Joseph.
Tornò a guardarla solo dopo un attimo, sentendosi vagamente in imbarazzo. Lei lo stava fissando attentamente, come se sperasse di carpire chissà quale oscuro segreto solo osservandolo dritto negli occhi.

"Da solo," si risolse a dire, scrollando leggermente le spalle.
"E quelli chi sono?"
"Non lo so," si affrettò a risponderle, senza nemmeno accertarsi che stesse realmente parlando della sua famiglia.

La bambina sorrise, ma stavolta non sembrò prenderlo giro: si limitò a stringersi nelle spalle, come a volergli far capire che aveva decisamente afferrato il concetto.

"Non sei di qua, vero?" Le domandò grattandosi distrattamente un orecchio.

Non capitava spesso che parlasse con la gente. Non succedeva mai che la persona con cui scambiasse due parole a stento fosse di sesso femminile.

"Perché?"
"L'accento," specificò indicandosi istintivamente la bocca.
"Ah," sembrò esitare, prima di fare una leggera smorfia, "bè, no."

Terence annuì debolmente: non aveva intenzione di chiederle di dove fosse. In fondo in fondo, si disse, non gli interessava affatto.

"Quindi sei qua in vacanza," tornò leggermente indietro, sporgendosi di nuovo verso la caduta a strapiombo sul mare.
"Non lo so," si giustificò lei, seguendolo, "però questo posto mi piace."
"A me per niente."
"Perché?"

Le scoccò un'occhiata strana, realizzando che non aveva alcuna valida risposta da darle. Era la compagnia che detestava, non il luogo. Anzi, era piuttosto sicuro che le scogliere fossero incredibilmente suggestive. Forse, gli sarebbe piaciuto poterci tornare da solo.

"Non lo so."
"Sei un tipo strano," lo additò lei, mettendosi in ginocchio sull'erba umida e spingendosi un po' più vicino al ciglio con le braccia.
"Che fai?"
"Guardo giù, non si vede?"
"Non sembra una cosa molto normale."
"Nemmeno tu sembri normale."

Gli lanciò un'occhiata che aveva dell'inceneritore, sbirciando poi giù dalla scogliera. La vista le dava una piacevole sensazione di vertigine: voleva guardare altrove e allo stesso tempo continuare a fissare il vuoto fino all'infinito.
Si tolse il cerchietto rosso dai capelli, per paura di vederlo volare via, tenendolo ben stretto in una mano, assicurandosi che non ci fosse modo di perderlo.

Terence rimase a fissarla a lungo, indeciso se etichettarla come folle o semplicemente troppo piccola per dare un senso alle proprie azioni. Le sembrava strano, però, che suo padre non fosse nelle vicinanze per controllarla.

Arrivò alla conclusione che non poteva lasciarla là da sola. Fece quindi la cosa più stupida o intelligente (ancora non sapeva dirlo) che gli passò per la testa, stendendosi al suo fianco.

"Credevo soffrissi di vertigini," disse lei, evidentemente sorpresa.
"No che non soffro di vertigini," replicò guardandola storto.
"Okay, come preferisci," tagliò corto infine, tornando a guardare giù.

Rimasero in silenzio per svariati minuti, restando in ascolto del mare che si infrangeva imperiosamente contro gli scogli.

"Chissà come sarebbe... cadere là in fondo," mormorò la bambina, appoggiando il mento sui pugni chiusi.
"Non piacevole," rispose con ovvietà lui, cominciando a prendere in seria considerazione l'idea della malattia mentale.
"Perché no, scusa? Dev'essere eccitante... cadere da un'altezza simile."
"E... morire?"
"Non è detto che tu muoia," lo contraddisse lei, come se fosse stato praticamente ovvio.
"Bè, ci sono alte probabilità che succeda."
"Ma non il cento per cento."
"Ma tante comunque."
"Quanto sei noioso."
"Tu sei pazza."
"E tu noioso."
"Peggio pazza che noioso."
"Sicuro?"

Si voltò rapidamente verso di lei, irritato, notando una luce strana nel fondo dei suoi occhi grigi. Da vicino, pensò, sembravano un po' più verdi.

In realtà no, non era affatto sicuro che la pazzia fosse peggio della noia, ma tentò comunque di non darlo a vedere. Le lasciò il privilegio di avere l'ultima parola, senza preoccuparsi di ribattere oltre.

Gli sorrise, soddisfatta di aver concluso personalmente la conversazione. Tornò pigramente a guardar giù, sentendosi stranamente bene accanto a quello sconosciuto con le sopracciglia un po' troppo spesse e lo sguardo inquietante e triste allo stesso tempo: non le dispiaceva poi così tanto.

"Come -," fece per chiedergli com'è che si chiamava, ma una voce alle sue spalle richiamò la sua attenzione. Notò suo padre qualche metro più in là, intento ad osservarli con le braccia conserte. Non sembrava aver parlato, ma la bambina l'aveva sentito lo stesso. Terence, dal canto suo, sembrava non essersi reso conto di niente.

"Scusa," riprese lei, "devo andare."
"Perché?"
"Mio padre," si rimise rapidamente in piedi, sistemandosi alla meno peggio la gonna e le calze bianche ora leggermente macchiate di verde in corrispondenza delle ginocchia.
"Ah," commentò eloquentemente, seguendo le sue mosse.

Avrebbe voluto dirle che non voleva se ne andasse. Era stata il suo temporaneo diversivo al siparietto della famiglia felice, e le era tacitamente grato per questo. Lasciarla andare via significava restare da solo. Per l'ennesima volta.

"Ciao allora," si risolse a dirle.
"Ciao!" Gli fece eco lei, restando a fissarlo un po' troppo a lungo.

Qualcosa di strano ed invisibile l'attirava verso di lui, ma ci sarebbero voluti anni e anni per chiarirle le idee.

"Magari ci rivediamo," aggiunse poi, sentendosi in dovere di farlo.
"Magari sì."

La bambina gli sorrise apertamente, prima di voltarsi e correre verso suo padre.

Terence la rincorse con lo sguardo, guardandola mentre l'uomo la prendeva in braccio.

Si ritrovò a sorridere in risposta, senza nemmeno rendersene conto.
Lasciò cadere l'espressione divertita non appena realizzò di avere gli occhi del padre piantati addosso. Rabbrividì, rifacendosi dannatamente serio.

Quell'uomo aveva gli occhi di ghiaccio e sorrideva.
C'era qualcosa, nel modo in cui increspava le labbra che lo faceva sentire incredibilmente deriso. Si stava prendendo gioco di lui.

Terence non sapeva perché, ma ne era sicuro.
Finì per distogliere lo sguardo, tornando ad osservare il punto che la bambina aveva occupato fino a qualche minuto fa.

Sull'erba appiattita era rimasto soltanto il cerchietto rosso, che doveva essersi dimenticata, e un leggero profumo, che non sarebbe riuscito ad associare a nient'altro per tutto il resto della sua vita.

Afferrò l'oggetto, rialzandosi in fretta e furia, pronto a correrle incontro per restituirglielo.

Ma gli bastò un'occhiata per realizzare che sia la bambina che suo padre erano già spariti nel niente. Assottigliò lo sguardo, guardandosi attorno, senza vedere nient'altro che turisti occasionali con giacche a vento dai colori sgargianti, e suo fratello Joseph avanzare minacciosamente verso di lui.

Terence restò immobile, aspettando che lo raggiungesse.

"Ehi, Declan!" Esclamò non appena l'ebbe raggiunto, richiamando l'attenzione del fratello maggiore. "Terence si è innamorato!"

Scoppiò fragorosamente a ridere, indicando il cerchietto rosso che ancora teneva tra le mani.

"Hai intenzione di metterlo?" Continuò ad insistere, additandolo platealmente.
"Sta' zitto, Jeph," sentenziò molto lentamente, stranamente infastidito dal suo atteggiamento.

Normalmente l'avrebbe lasciato perdere, ma in quel preciso istante non poteva sopportare l'idea di vedersi prendere in giro in quel modo.

"Perché sennò?" Lo sfidò l'altro.
"Sennò -"
"Andiamo, sei un cagasotto, lo sanno tutti! Nate lo dice sempre -," non riuscì a completare la frase che Terence l'aveva spintonato rabbiosamente indietro.

"Ti ho detto di smetterla!" Esclamò furioso, scoccandogli un'occhiata tutt'altro che amichevole.
"Uh-uh. A quanto pare ho toccato un tasto dolente, ah?"
"Smettila!"
"Terence si è -," lo spinse di nuovo, con più forza, facendolo indietreggiare fino al ciglio del precipizio.

L'espressione di Joseph mutò da profondamente divertita, a semplicemente irritata.

"Razza di checca isterica," balbettò arrabbiato, ricambiando lo spintone con altrettanta veemenza.
"Che cosa hai detto... ?"
"Vuoi che te lo ripeta? Sono sicuro che tu abbia capito perfettamente!"

L'ultima cosa che Terence ricordava era il prurito alle mani che lo spingeva a colpire il fratello, e poi la sensazione di assoluta onnipotenza che si era impossessata di lui. Rammentava quello scoppio di magia improvvisa che non aveva assolutamente preventivato, e che non sarebbe mai stato in grado di spiegare fino in fondo.

Ricordava il vuoto sotto i piedi, e le urla del fratello che lo accompagnavano giù per lo strapiombo. L'avvertiva lontana ed indistinta, quasi non appartenesse più a quel mondo.

Era sicuro che sarebbe morto.

Ricordava il modo in cui si era disperatamente aggrappato a quel cerchietto che ancora teneva tra le mani. Sperò che quella bambina dai boccoli biondi avesse ragione, che non ci fosse realmente il cento per cento delle possibilità di restare uccisi.

Il vuoto lo fece sentire libero. Per un attimo, mentre si rendeva conto che le urla gli erano rimaste bloccate in gola, desiderò che quell'istante durasse per sempre.

Poi aveva pensato che voleva vivere. Voleva vivere soltanto per poterla rivedere e restituirle quello che si era dimenticata. Per chiederle come si chiamava, per dirle il suo nome.

Il pensiero gli aveva scaldato il petto, prima che il gelo di quelle acque nere si richiudesse sopra di lui.

*

Inverno 1995

- Terence Higgs.
Marcus Green, in infermeria, non ci è finito per un incidente durante l'ora di Pozioni.

- .. bè io e un tizio stavamo trascorrendo il tempo in modo non propriamente ortodosso.
Ah e mi chiamo Elaine.

fanfics, originale: terence/elaine, • fic gift, fandom: originale

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