L'alto costo della vita [1/2]

Mar 14, 2010 14:25

Titolo: L'alto costo della vita
Fandom: Fullmetal Alchemist
Rating: R
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Alphonse Elric.
Warning: mpreg, scene un po' forti.
Riassunto: "Avevano detto che nessuno sarebbe più morto a causa loro. Roy Mustang li conosceva abbastanza bene da sapere che dicevano sul serio."
Altro: una mpreg, ebbene sì. A mai più rivederci XDD E' molto atipica, però, quindi spero che la leggerete e mi direte cosa ne pensate.
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A quei tempi meravigliosi in cui la Teologia fiorì con più linfa e vigore, si racconta che un giorno uno dei più grandi fra i dottori, - dopo avere scosso i cuori indifferenti e averli rimescolati nelle loro nere profondità, dopo essersi aperto verso le glorie celesti strane vie a lui stesso ignote, cui erano giunti soltanto puri spiriti - come fosse salito troppo in alto e il panico l'avesse preso, gridò trasportato da un orgoglio satanico: "Gesù, piccolo Gesù, io t'ho innalzato troppo! Ma se t'avessi voluto attaccare dove ti mostri più debole, la tua vergogna uguaglierebbe la tua gloria, tu non saresti più che un risibile feto."

Avevano detto che nessuno sarebbe più morto a causa loro. Roy Mustang li conosceva abbastanza bene da sapere che dicevano sul serio.

Si dice “pioveva che Dio la mandava”. Questo dovrebbe supporre una certa rabbia, da parte di Dio.
Quando Roy aveva guardato fuori dalla finestra, quel mattino, subito dopo la telefonata, si era sentito quasi sollevato. Da ore contemplava il cielo in silenzio, rispondendo solo di rado alle domande che Riza gli poneva, scosso da una sensazione fredda e angosciante che non avrebbe stentato a definire un presagio.
Lo squillo del telefono era stata come la condanna che finalmente si abbatte sulla testa del colpevole.
Adesso i suoi passi pesanti risuonavano nei corridoi dell’ospedale, e li sporcavano di fango perché aveva avuto troppa fretta per pulirsi gli stivali. Non aveva preso neanche l’ombrello, era zuppo e i capelli gli si appiccicavano alla faccia, ma non era mai stato più lontano dal preoccuparsi per una facezia simile.
Lo fecero passare senza chiedere chi fosse, la divisa o forse la sua faccia parlavano per lui - la faccia di chi sta andando ad affrontare un toro. O un torello, nel suo caso. Non che le dimensioni lo rendessero meno letale.
C’erano degli uomini alla porta, così angosciati che quando lo videro si sollevarono come ragazzini. Certo, passavano a lui la patata bollente. E come poteva pretendere il contrario, era stato lui a raccogliere due mine vaganti e a integrarle nell’esercito. Si poteva dire che avesse volontariamente messo il piede in una tagliola.
Entrò nella stanza e loro erano lì, al capezzale della donna, e quando lo sentirono si voltarono insieme. A volte si sorprendeva ancora di quanto si somigliassero, e lo constatava con un brivido sgradevole, anche se non riusciva a capirne il motivo.
Alphonse aveva abbassato lo sguardo, come un bambino in previsione di una sgridata, invece Edward lo fissava con la solita nota di fastidio, come a dire “è arrivato il guastafeste”.
Aveva raccolto due bombe, sì, e si sarebbe aspettato di scagliarle addosso ai suoi nemici.
Non aveva idea che gli sarebbero esplose in mano.

Doveva essere un’operazione di routine, ma difficilmente la routine di un soldato è piacevole.
Una chimera in un sobborgo di Central; Roy aveva pensato che Edward potesse cavarsela benissimo da solo, ma anche se Alphonse non era mai diventato un alchimista di stato, era comunque qualcosa di molto simile a un’emanazione del fratello, imprescindibile da lui almeno i quanto i suoi arti d’acciaio. La battaglia era stata più dura del previsto e gli uomini di supporto avevano evacuato la zona, riducendo lo spreco di vite umane. Riducendolo, non annullandolo. C’erano due vittime; una donna, schiacciata dalle macerie di un palazzo, e il bambino che portava in grembo. I dottori non potevano salvarlo, era troppo presto anche per un parto cesareo, e senza nutrimento sarebbe morto nel giro di qualche ora. Mentre gli spiegavano questo, al telefono, Roy aveva capito esattamente a cosa stava andando incontro.
“Scordatevelo. Non vi darò mai il permesso di fare una cosa del genere.”
Edward lo guardò quasi con sufficienza: “Il permesso?”
Alphonse era appoggiato alla finestra, dove la pioggia si schiantava grossa e rancorosa. Sembrava quasi che stesse tentando di raggiungerli. Roy in qualche modo ne era intimorito e gli dette le spalle.
“Sono un tuo superiore, e ti ordino di tornare al quartier generale e di fare rapporto.”
“Lo farò dopo.”
“Non c’è nessun dopo, se fate questa cosa finirete davanti alla corte marziale.”
“Non se ne accorgerà nessuno, se lei non fa la spia.”
Fare la spia. A questo si riduceva il loro mondo, a una riproduzione in scala della vita scolastica. Non erano mai cambiati, non davvero. Erano ancora ragazzini che non riuscivano ad accettare l’idea della morte.
Roy si appoggiò al muro, esasperato. La cosa peggiore, della loro testardaggine, era sapere quanto fosse incorreggibile. Poteva farli portarli via anche di peso, chiuderli in una stanza e mettere guardie alle porte e alle finestre - che diavolo, poteva anche ucciderli- e in un modo o nell’altro loro sarebbero tornati in quell’ospedale e avrebbero fatto comunque di testa loro. Sospirò e si finse ammansito, sperando in grazia che nel frattempo gli sarebbe venuta un’idea: “Va bene, che cosa avreste intenzione di fare?” Sottolineò il condizionale anche con lo sguardo e a Edward non piacque, ma incrociò comunque le braccia e rispose: “Il concetto è semplice, in realtà: la madre fa da incubatrice al bambino, esatto? Quindi basterà spostarlo in un’altra incubatrice.”
“Non è così semplice, un bambino…”
“Ho detto che il concetto è semplice non che è semplice” lo corresse lui, infastidito. Roy dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non dargli semplicemente una botta in testa e trascinarlo via.
“Scusa” ringhiò, aggrottando la fronte. Edward sbuffò come se stesse parlando con una mente inferiore, poi ricominciò: “Possiamo spostare il bambino con l’alchimia. E con lui la placenta e…tutto il resto.”
Roy quasi rise: “Tutto il resto? Oh, è bello vedere che ti sei documentato, almeno siamo in buone mani!”
“Sto cercando di farla breve, ma lei non mi sta aiutando!”
Roy si finse contrito: “Oh, Edward, scusami, mi rendo conto che le mie domande ossessive sono fuori luogo.”
Edward non colse l’ironia e disse “sì, infatti”. Roy stava ripensando a tutta la faccenda della botta in testa, sarebbe riuscito a colpirlo abbastanza forte da stenderlo? Portò una mano alla fronte e si massaggiò le tempie: “Va bene, Edward: come penseresti di fare?”
“Posso elaborare un cerchio alchemico adeguato in un paio d’ore, abbastanza in fretta perché il bambino sia ancora in forze.”
“E alla madre non hai pensato?”
“Mi sa che non posso più fare tanti danni, non crede?”
“Non intendo fisicamente, idiota, ma non hai pensato che potrebbe non apprezzare che si facciano esperimenti vodoo con suo figlio?”
“Non è vodoo, è alchimia. E comunque è una figlia.”
“Questo cambia tutto.”
“Senta, se deve--”
“Le abbiamo parlato…” sussurrò Alphonse, che era stato così silenzioso da far dimenticare la sua presenza. Si era seduto sul davanzale e dondolava nervosamente le gambe. “Le abbiamo promesso che avremmo fatto il possibile…”
Roy si mise le mani nei capelli. Le promesse ai morti, bene, ci mancavano solo quelle! Sospirò, rendendosi conto che il suo acerbo abbozzo di piano era già andato in fumo. Per tutto quel tempo aveva pensato: almeno c’è Alphonse. Era il più ragionevole, dei due, l’unico con un brandello di qualcosa di molto simile al buon senso. Ma se Roy non aveva idea di che cosa significasse avere un fratello, avrebbe dovuto conoscere l’esercito abbastanza bene da sapere che un generale non comunica mai la propria decisione senza che il suo vice sia d’accordo.
In altre parole, questa volta i fratelli Elric avevano vinto senza neanche combattere.

Le condizioni del bambino erano stabili, ma la madre stava passando velocemente dal confortante stato di sonno apparente a quello più evidente e scoraggiante di cadavere. Il corpo aveva già svuotato gli intestini e ora aveva il colore della cera.
Alphonse stava parlando con i medici, Edward invece non alzava gli occhi dai libri, dei quali si era circondato appropriandosi indebitamente di una sala degli inservienti. In mezzo alle scope e ai detersivi, il suo intento sembrava ancora più precario e in un certo senso ridicolo.
“Non mi hai detto chi dovrebbe farlo.”
Edward non alzò la testa. Roy insistette: “Chi dovrebbe portarlo, questo bambino? Hai trovato una donna disposta a prestarsi?”
“Non ci ho neanche provato, non posso offrire la garanzia che andrà tutto bene.”
“Bene, almeno questo lo sai. Quindi? Devo farlo io? Però guarda che mi devono insegnare a fare l’uncinetto, sennò poi mi annoio.”
“No, lo farà Al.”
Roy si gelò. Aspettò che Edward scoppiasse in una fragorosa risata, ma non successe. Girava le pagine e prendeva appunti su un blocco ingiallito.
“Starai scherzando.”
Doveva suonare come un ordine, ma era più una supplica. Edward continuò a non guardarlo, ma scosse le spalle: “Avrei potuto farlo io, ma Al ha l’ossatura più grossa e i fianchi più larghi. Inoltre, è meglio che io tenga sotto controllo il processo alchemico. E’ la soluzione migliore.”
“Cristo Santo, Edward, come fa a essere la soluzione, vuoi mettere incinta tuo fratello!”
Edward finalmente lo guardò, aggrottando la fronte: “La fa sembrare una cosa insana.”
“Lo è, maledizione! Ragiona: chi ti dice che funzionerà?! Chi ti dice che invece non lo ammazzerai?!”
“Proprio per questo deve essere Al.”
“Perché è la tua cavia preferita?”
“Perché è l’unico che so di poter salvare.”
Roy sospirò, sedendosi sul divano. Edward, sul pavimento, lo guardò ancora per un attimo come a sincerarsi della sua resa, poi ricominciò a leggere. Ruotò gli occhi,però, quando Roy ricominciò: “E la vostra amica che cosa ne pensa? A lei date retta, no?”
“Non serve chiederglielo per sapere cosa ne penserebbe Winry, farebbe di tutto per dissuaderci, e vedendo che è impossibile si offrirebbe volontaria.”
“E non sarebbe meglio?”
“Perché dovrebbe?”
“Perché ha un fottuto utero, tanto per cominciare.”
“L’utero non è necessario, esistono le gravidanze extrauterine.”
“Sì, e ti sei informato su quante ne vanno a buon fine?”
“Poche, ma questo non è un caso normale.”
“Sì, questo è poco ma è sicuro.”
E Edward - Dio solo sa perché- quasi rise, come per un improvviso sollievo, poi scosse la testa guardandolo dal basso, con immenso divertimento: “Su, colonnello, la pianti di rompere, guardi che alla sua età non fa bene agitarsi. Sappiamo che cosa stiamo facendo, possiamo gestirla.” Poi, sorridendogli come un bambino, gli chiese: “Inoltre, non mi dirà che non è curioso?”
Roy non avrebbe saputo dire che cosa gli gelò il sangue, se quelle parole o la semplicità con cui le aveva dette. Ad ogni modo, non riuscì a rispondere.

Successe velocemente, al di fuori del suo controllo.
Non poteva dissuaderli e li amava troppo per denunciarli. Decise di proteggerli.
Aveva smesso di piovere ma il cielo restava nero, scosso la forti correnti che non promettevano nulla di buono. Faceva freddo, abbastanza da battere i denti. Il vento sbatteva le code dei fratelli Elric sulle loro schiene dritte e decise, mentre disegnavano i cerchi alchemici nel fango.
Portarono il cadavere, che si stava irrigidendo. Le dita dei piedi erano arricciate e la mandibola contratta. Edward disegnò un altro cerchio sul ventre pallido e intanto scrutava il cielo, chiedendosi forse cos’avrebbero fatto se avesse piovuto. Sembrava irritato all’idea che un solo gesto di Dio potesse distruggere in un attimo il suo piano. Dietro di lui, Alphonse si mangiava le unghie e dondolava.
Roy si rifiutò di restare, come un padre si era infine arreso a inutile forma di silenzioso rimprovero. Non andò lontano, però, perché proprio come un padre temeva e sperava che avrebbero avuto bisogno di lui.
Era in sala d’aspetto quando la luce azzurra esplose sfondando le finestre, sommergendo i corridoi come se avesse avuto una consistenza. Era elettrica, abbagliante. Puzzava di sangue. Ma soprattutto portava le urla di Alphonse, atroci, come i latrati di una bestia sventrata.
Lo trovò a terra, contorto nel fango e nel sangue. Il cadavere si era aperto quasi a metà e adesso quello che era stato un volto amato da qualcuno, riconoscibile in mezzo alla folla, era soltanto un teschio scoperchiato, coperto di mucose e tessuti. Non era la prima volta che vedeva un corpo devastato, pensava d’averci fatto l’abitudine, invece salutò quel sapore orrendo sul palato come un vecchio amico. Era ancora vivo. Nonostante tutto, ancora umano.
Edward aveva una mano sulla schiena nuda di Alphonse e gli faceva domande, ma lui vomitava e singhiozzava dal dolore, senza rispondere. La pioggia ricominciò a cadere, mescolando i cerchi alchemici al sangue. A Roy rimase l’impressione d’aver collaborato a un rituale primitivo, sadico e insensatamente violento.

Rimasero in ospedale, perché Alphonse aveva bisogno di cure costanti.
Roy, quando andava a trovarlo, lo trovava a letto, con le mani incrociate sul grembo e un’espressione assorta e serena. Sembrava particolarmente felice delle sue visite, perché agendo in segreto non poteva vedere nessuno, e Edward -che pur era sempre con lui- passava tutto il suo tempo sui libri, per fronteggiare una a una le innumerevoli complicazioni che nascevano. Al momento stava studiando la possibilità di modificare la collocazione degli organi molli del fratello, così che il bambino, crescendo, non li schiacciasse. Già una volta aveva spostato una costola, per lo stesso motivo, e le infermiere giuravano di non aver mai sentito nessuno urlare così, nemmeno durante i prelievi del midollo osseo.
Adesso Alphonse non poteva muoversi, neanche per andare in bagno o lavarsi, ma sorrideva sempre e non si lamentava mai. Era fedele a se stesso e soprattutto al ruolo che la sorte gli aveva dato - quello della persona incaricata di rincuorare e incoraggiare Edward, nonostante stesse praticamente cercando di ucciderlo.
Roy gli parlava gettando sguardi sulle braccia magre, bucate dai prelievi e dall’ago del flebo, che affondava costantemente nella vena blu e ingrossata. Ci erano voluti due giorni prima di capire che la forte debolezza era dovuta una malformazione del cordone ombelicale, che portava i nutrimenti esclusivamente al feto, e anche se faceva quattro pasti al giorno Alphonse stava velocemente deperendo. Le sue guance tonde da bambino erano scomparse, affossate sotto gli zigomi appuntiti, che insieme al colorito pallido e i capelli lunghi lo rendevano un po’ simile al fantasma dei vecchi romanzi vittoriani, ambientati in una villa oscura e maledetta.
Un giorno, mentre parlavano, Alphonse scostò per sbaglio le coperte e lui vide che la padella e il tubo del catetere erano pieni di sangue. Non gli disse niente, per non imbarazzarlo, ma decise di chiamare un’infermiera. Mentre si alzava gli chiese: “Ma tu sei sicuro di quello che stai facendo?”
E lui sbatté i grandi occhi brillanti, come se gli avesse appena fatto una domanda assurda, poi rise: “Niisan dice che andrà tutto bene!”
Roy si sforzò di sorridergli, accarezzandogli la testa. Certo, cosa si aspettava, una confessione in lacrime? Sapevano tutti che la fiducia che Alphonse riponeva nel fratello rasentava l’autolesionismo. Quello che Roy si chiedeva era se Edward si rendesse conto di quanto potere avesse su di lui, e se avrebbe mai imparato a gestirlo.

“Se volevi dimostrarmi che potevi farlo va bene, l’hai fatto, ma adesso ferma questa pazzia.”
Edward era seduto sul pavimento nel suo solito sgabuzzino, alla luce rachitica di una lampadina che pendeva dal soffitto muffo e spaccato dall’umidità. Ogni giorno i libri si moltiplicavano, andando ad ammucchiarsi in pile sporche e precarie. Il caos che si stava creando attorno si rifletteva anche nei suoi occhi, che erano stanchi e nervosi, solo una pallida imitazione di quelle gemme sfolgoranti che l’avevano travolto dal primo momento in cui le aveva viste. Sembrava che in due settimane Edward Elric avesse perso la sua giovinezza, per trasformarsi in una copia invecchiata e indurita di se stesso.
“Che cosa la fa pensare che l’abbia fatto per lei?”
“Il fatto che sei orgoglioso, Fullmetal, ti conosco e non avrei dovuto oppormi, probabilmente ti ho soltanto intestardito. Riconosco il mio errore, riconosco…quello che vuoi, cazzo, posso anche inginocchiarmi e chiamarti maestro, se vuoi, ma tira fuori quella cosa da tuo fratello.”
“Quella cosa è un bambino, e sta bene. I medici dicono che la formazione procede regolarmente.”
“Qualcosa andrà storto, ne sono sicuro.”
“Certo, se la piantasse di gufare…”
“E’ su questo che ti stai basando, sulla fortuna?”
“Sappiamo che cosa stiamo facendo.”
“No, voi non lo sapete! Siete solo due bambini arroganti e stupidi, che non sanno rassegnarsi alla morte!”
Edward finalmente alzò la testa. Aveva toccato - no, aveva piantato un chiodo in un nervo.
“Che cosa sta insinuando?”
“Non lo sto insinuando, te lo sto dicendo. Smettetela di giocare con cose più grandi di voi, non avete imparato la lezione?!”
“Questo non è un gioco, non ho più dieci anni! Crede che muoia dalla voglia di perdere altri arti?!”
“Sì, Edward, sembrerebbe di sì. Ma forse sei disposto a tutto pur di avere una famiglia, per pur malata e grottesca che sia.”
“Qui non c’è niente di malato, stiamo soltanto--”
“Hai messo incinta tuo fratello, Edward! Da quant’è che ci pensavi, magari da quand’è morta tua madre? Avete provato anche il concepimento naturale, prima di questo?!”
Fu questione di un attimo; Edward si alzò e gli sfasciò la mandibola con l’automail. Almeno i suoi occhi reagivano, adesso, ed erano sbarrati, furenti e in certo senso anche terrorizzati, come quelli di un animale braccato. Si guardarono a lungo e lui continuava a tremare di rabbia, ma non disse niente. Alla fine Roy sputò su un libro il sangue che aveva in bocca e uscì. Quella notte continuò a rigirarsi nel letto, sperando che Edward realizzasse la reale perversione di ciò che stava facendo. Ma il giorno dopo lo trovò di nuovo seduto accanto al letto di Alphonse e lui continuava a sorridere, mentre teneva una mano sull’addome perché gli avevano detto che presto il bambino avrebbe iniziato a scalciare.

Successe in un insolito pomeriggio di pace, finalmente era uscito uno spicchio di sole e Alphonse aveva voluto che gli mettessero delle briciole sul davanzale, in modo che almeno gli uccellini gli tenessero compagnia. Li stava osservando beccare, forse raccontandosi storie sulla loro vita, quando trasalì e sgranò gli occhi: “Niisan!” La voce gli tremava dall’emozione, e si guardava intorno come se avesse potuto vederlo sbucare da qualsiasi angolo. “Niisan!”
Roy lo guardò dalla soglia, dove stava parlando con un dottore, e gli vide un sorriso talmente radioso da colorare almeno per un attimo le gote pallide e malaticce. Andò subito a chiamare Edward, che come al solito era rintanato nello sgabuzzino. Le pile di libri formavano una trincea nella quale sembrava nascondersi.
Appena lo vide Alphonse gli tese le mani, si vedeva benissimo che moriva dalla voglia di corrergli incontro. Edward gli chiese “si è mosso?” ma anziché rispondere lui gli prese la mano e se la posò sotto l’addome, dove la rotondità era ormai visibile come una grande goccia. Rimasero così per un attimo, poi a Edward scappò qualcosa di molto simile a una risata e lo guardò negli occhi: “Era lui…?”
Alphonse annuì, e sembrò quasi piangere quando Edward si chinò sul bambino e gli disse: “Ti annoierai un po’, ma tra qualche mese ti tiriamo fuori.”
Roy li guardava e si sentiva un po’ come un nonno, con troppi capelli e troppi rimpianti ancora freschi, che facevano ancora male. Eppure, in qualche modo, non importava. Non in quel momento. Riusciva quasi a vederli bambini, e quell’immagine aveva un che di morboso e splendente che lo incantava.
A volte era fin troppo facile accorgersi del modo in cui Alphonse guardava Edward, come se una sua parola potesse sfogliare le stagioni. E adesso se ne stava lì, mesto, uguale a un cucciolo che aspetta le coccole ma non ha il coraggio di chiederle. Edward parlava delle fasi della formazione, della scomposizione alchemica delle ossa, dell’esame emacromatico da fare. E Alphonse annuiva, col sorriso che gli si spegneva sulle labbra. Aveva capito che lui e suo fratello erano felici per motivi molto diversi.

“Cosa volete farne, quando sarà nato?”
Edward si voltò con un sorriso furbo; era sera tarda e la luce che entrava debole dalla finestra allungava le loro ombre a dismisura, e le faceva arrampicare sui muri come ragni spettrali.
“Quindi ammette che nascerà.”
“Non lo sto ammettendo, lo sto supponendo. Che cosa ne volete fare?”
Edward ricominciò a camminare e i suoi passi risuonavano nell’ospedale ormai quieto, dove gli infermieri si affacciavano nelle stanze senza fare rumore. Alphonse nel pomeriggio aveva avuto dolori pelvici atroci e si era addormentato da poco, stremato.
“Per quello non c’è problema, ci sono i genitori della ragazza.”
“E gliel’avete detto?”
“Non ancora. Non voglio alimentare false speranze, nel caso…” esitò solo un attimo e scosse la testa, come a scacciare il pensiero “…comunque, hanno perso una figlia. Saranno felici di avere almeno un nipotino.”
“E pensi che lo vorranno?”
Edward si fermò e sbatté gli occhi: “Perché non dovrebbero?”
Perché è un bambino cresciuto nel grembo di un uomo.
Non riuscì a dirlo. C’era qualcosa, nello sguardo di Edward, che glielo impediva. Non voleva turbarlo, o ferirlo, fargli pensare che suo fratello avesse qualcosa di sbagliato. Ma soprattutto, più profondamente, sentiva anche di non volergli aprire gli occhi sulla meschinità del mondo.
A lui piacevano così, i fratelli Elric. Convinti fino all’ottusità della bontà degli altri.
“E poi…” riprese “…credi che Alphonse vorrà darlo via?”
“Uh? Perché non dovrebbe, non è suo figlio.”
“No, è vero. E’ di tutti e due.”
Edward sembrava confuso. Lo guardò come aspettandosi una spiegazione, poi rispose: “…no, non lo è.”
“Forse non lo è per te, ma lo hai guardato bene? Non importa cosa dice il sangue, per lui quello che sta portando è tuo figlio.”
Rimasero a lungo in silenzio, abbastanza perché anche nella penombra Roy lo vedesse impallidire.
Dio, non se ne era accorto.
Questo che cosa lo rendeva, un insensibile? Un vigliacco?
Un ragazzino di diciannove anni, credo.
“Ti sei strappato un braccio, per lui. Chiediti se adesso vuoi strappargli il cuore.”

Anche quel mattino arrivò molto presto, a un’ora in cui solo il suo grado gli permetteva di entrare. I pazienti nelle altre stanze dormivano e i dottori parlavano tra loro a voce bassa, bevendo caffè.
Scoprì Alphonse già sveglio, che parlava da solo. Naturalmente non si era accorto di lui, e quando lo sentì bussare si mise a ridere: “Entri, entri. Non ci faccia caso, non sono impazzito.”
“Anche se fosse non ti biasimerei, sarai stanco di vedere solo la mia brutta faccia.”
“E anche quella di niisan” aggiunse divertito, tirandosi il lenzuolo sul petto mentre si incurvava. La gravidanza gli aveva cambiato la produzione di ormoni, e gli stava crescendo un accenno di seno che tentava di nascondere.
Roy si sedette sullo sgabello lì accanto e gli chiese di cosa stesse parlando. Al scosse la testa e gli andò la frangia davanti agli occhi. Qualcuno passava a lavarlo una volta al giorno perché non riusciva quasi più a muoversi, da solo, e al secondo mese gli si erano formate lievi piaghe da decubito sotto le cosce. Ne mancavano altri tre.
“Mh, niente. Una stupidata.”
“Dai, dimmelo. Sono pur sempre un conversatore migliore del muro, no?”
Alphonse rise di nuovo e poi ammise: “Pensavo a un nome per la bambina, e volevo vedere se reagiva a qualcuno.”
Roy non seppe che dire. Rimpianse la cosa del muro. Alphonse, imbarazzato, scosse la testa e cercò di avvicinare con fatica le gambe al petto, senza riuscirci.
“Comunque non sta a me scegliere un nome” terminò sorridendo, poi aggiunse: “Posso fare una bella bambina, però. Una bella bambina sana. Così tutti vedranno quant’è bravo niisan.”
Roy si sforzò di sorridere, ma non riuscì più a guardarlo negli occhi. Solo dopo un po’ si rese conto che il suo respiro era irregolare, strozzato. Alzò lo sguardo e lui stringeva le lenzuola in uno spasmo. Il suo viso stava cambiando colore.
“Al, che hai?”
Si rese conto dell’inutilità della domanda appena la fece. Stava soffocando, ecco che aveva. All’improvviso, senza motivo. Cominciò a schiacciare l’allarme con forza, tanto che pensò di averlo rotto, gli disse che sarebbe tornato subito, di non agitarsi, e cercò qualcuno in corridoio. L’unico dottore che vide era nella stanza di qualcun altro. Entrò e lo trascinò fuori di peso, poi tornò ancora una volta in quel maledetto sgabuzzino. Edward stava dormendo, ma scattò in piedi appena sentì la porta e corse via.
Roy guardò i libri buttati sul pavimento e li calpestò.

La sua diagnosi era stata alquanto ottimista.
Il bambino aveva raggiunto le dimensioni in cui muovendosi pesava sui polmoni di Alphonse, ma questo a sentire Knox era il minimo.
“La placenta non viene espulsa correttamente e c’è il rischio che invada gli organi accanto, causando un’emorragia interna. E’ la ragione per cui la gente normale le interrompe, le gravidanze extra-uterine, non se le va a cercare. Come hai potuto permettergli di fare una cosa simile?”
“Senti, li conosci quei due, ti pare che faccia differenza il mio permesso?”
“Avresti dovuto prenderli a cazzotti, ecco cosa. Sei troppo permissivo con loro, lo sei sempre stato.”
Roy si limitò a una specie di tsk infastidito, fingendo di guardare fuori dalla finestra. Aveva chiamato Knox perché era l’unico di cui si fidasse, ma soprattutto perché gli altri medici non sapevano niente dell’alchimia, al di fuori del fatto che esisteva.
“Da quel punto di vista è un lavoro impressionante. Ti confesso che mi fa paura.”
“Perché, pensi che Edward se ne andrà in giro a ingravidare tutti gli uomini che incontra? Attenzione, perché ormai hai una certa età.”
“Ah-ha, sono contento che la situazione ti diverta. Mi fa paura che un ragazzino possa fare tanto, ecco cosa. E poi non so se voglio vivere in un mondo in cui gli alchimisti invadono così il territorio di Dio.”
“E da quand’è che credi in Dio?”
“Da quando ho visto cose come questa, e ho capito che c’è un motivo per cui certe leggi non andrebbero violate. Vuoi che te la metta semplice? Alphonse Elric morirà. Il suo corpo non è fatto per una gravidanza, e suo fratello può metterci le mani quanto vuole, ma cadrà a pezzi.”
“…credi che Edward lo sappia?”
“Certo che lo sa. E’ arrogante e sconsiderato, ma non è stupido. La vera domanda è se gliene importa qualcosa.”
“Questo non puoi dirlo, Edward ama suo fratello. Non potrebbe vivere senza di lui.”
“Allora che cosa vuoi che ti dica, Roy? Si starà suicidando.” Finì di mettere le sue cose nella borsa, poi prese il cappotto. “Vado, prima che ricominci a piovere. C’è un tempo del diavolo, là fuori, sembra che voglia venire giù il cielo.”
“Lo so” rispose Roy, assorto.

Continuò per ore, senza sosta. Soltanto in guerra aveva sentito urla tanto atroci.
I medici parlavano di una contrattura dei muscoli anali, ma era anche possibile che il bambino si fosse appoggiato alla spina dorsale. Era troppo pericoloso muovere Alphonse senza esserne certi e avevano dovuto legarlo per contenere gli spasmi. Aveva urlato, e urlato, tanto che anche a Roy faceva male la gola, e aveva pianto così tanto che le lacrime gli avevano eroso le guance. Non capiva quello che gli si diceva, non comunicava, non riconosceva più neanche Edward. Alla fine era sprofondato in stato di shock e adesso era immobile, scosso solo dai tremiti. Continuava a piangere senza la forza di emettere un gemito.

Edward spostò il bambino due ore dopo. Alphonse rischiò di soffocare nel vomito perché era ancora legato, ma quando fu libero si aggrappò a suo fratello e gli rovesciò addosso quelli che sembravano litri di sangue. Rosso brillante, così liquido da sembrare irreale. Una reazione all’alchimia.
Edward non si spostò, non batté neanche ciglio. La prima parola di Alphonse -quasi un rantolo- fu: “Niisan…” Lui gli disse qualcosa, ma da dov’era Roy era impossibile sentire cosa. Probabilmente non lo sentì neanche Alphonse, che si addormentò tra le sue braccia. Edward lo tenne così per un po’, poi lo posò delicatamente a letto e uscì in fretta dalla stanza. Roy gli andò dietro pensando di urlare o di prenderlo a pugni davvero, sta volta, ma poi lo sentì piangere, chiuso nello sgabuzzino, e non riuscì a fare altro che rendersi inutile.

Non tornò a casa, quella notte, dormì sulle sedie in sala d’aspetto. Si svegliò a pezzi, ma pensando a cosa stava sopportando Alphonse si sentì idiota a lamentarsene, così quando un’infermiera gli chiese come si sentisse rispose che andava tutto bene.
Tutto bene, certo. Poche volte era stato così lontano dal termine bene.
Alphonse era già sveglio. Passava le prime ore del mattino da solo, a guardare fuori dalla finestra - chissà a cosa pensava. Il suo corpo era cambiato tante volte, e in modo così intimo, che quasi Roy non riusciva a immaginarlo. Come si sentiva? Non aveva mai l’impressione di poter perdere se stesso?
Scosse la testa, quasi sorridendo.
No, non loro. Confondono gli altri, ma sanno benissimo chi sono.
Alphonse era debole, ma allegro. Per la prima volta superò l’imbarazzo del seno e gli mostrò la pancia: “Guardi, niisan l’ha spostata!”
Ne parlava come di un atto di Dio, con lo stesso orgoglio e lo stesso prostrato entusiasmo. Doveva ammetterlo, a volte Roy trovava la sua fede disturbante. Avrebbe voluto scuoterlo e urlare fino a svegliarlo, ma sospettava che lui avrebbe continuato a sorridergli imbambolato, con gli occhi pieni della luce riflessa del suo niisan.
“Colonnello, lei è arrabbiato con noi…?”
Roy alzò lo sguardo. Alphonse stringeva incerto le lenzuola ruvide, ancora sporche di sangue. Si era addormentato così in fretta che non avevano fatto in tempo a cambiargliele.
“Ma no, Al, non…” si fermò. Poi sospirò e scosse la testa: “Non sono arrabbiato, solo triste.”
“Perché?”
“Perché soffrite e io avrei dovuto evitarlo.”
“…mi dispiace. Io e niisan facciamo sempre di testa nostra, poi ci vanno di mezzo gli altri…”
Roy rise bonario, annuendo: “Già, sembra proprio questo il problema. Dovrò esprimere il mio rammarico alla signora Izumi, quando la vedo, chissà che fatica addestrare due bestie come voi.”
Alphonse rise debolmente e cercò di sistemarsi i cuscini, ma non riuscì neanche a muovere il braccio. Roy lo fece al suo posto e gli chiese, sentendosi improvvisamente stanco: “Al, ma tu non hai paura?”
Lui lo guardò e si limitò a sorridere.

“Perché non hai lasciato che lo operassero?”
Edward sembrava sorpreso da quella domanda, come se non la capisse. C’era forse qualcosa di elementare che a Roy sfuggiva? Si spiegò meglio: “Quando stava male e i medici volevano farlo abortire, perché gliel’hai impedito?”
Allora lui fece una cosa inattesa; si mise a ridere.
“Sta scherzando? Al mi avrebbe ucciso se avessi preso una decisione simile da solo.”
Roy sorrise di nascosto, con sollievo. Certo, doveva immaginarlo. Li conosceva, no? Loro rispondevano soltanto a leggi che si stabilivano da soli, guardandosi negli occhi. Dio, doveva essere proprio stanco per aver pensato che…no, basta. Non voleva neanche tornarci. Anche se adesso guardava Edward e non vedeva più nemmeno le tracce del ragazzo che aveva sentito piangere nello sgabuzzino. Procedeva dritto per la sua strada, senza guardare indietro. Era vedendolo così che Roy si rendeva conto di quanto fosse stato stupido chiedere ad Al se non avesse paura, perché lui non poteva risponderli.
Edward l’aveva strappato alla morte, col suo sangue l’aveva legato alla vita, gli aveva ridato un corpo e adesso lo rendeva il mezzo di un miracolo simile a quello compiuto sulla Vergine Maria.
Non sussistevano domande, non era più solo un punto di vista. Era lecito pensare che, per Alphonse, la figura di suo fratello fosse del tutto sovrapponibile a quella di Dio.

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