Characters: Jared Padalecki; Jensen Ackles;
Pairing: JensenxJared {j2};
Rating: NC-17
Genre: Sentimentale; Introspettivo; Erotico;
Prompt: fulmine | matrimonio | oceano | natura | saggezza | sole | luna | guerra | bellezza | forgia | messaggio | vino
Warning: slash; android!au;
Word: 7.112
Note: Jared, Jensen e robotica. Credo di avere appena scoperto il paradiso, lasciatemi pure qui, morirò felice.
Disclaimers: I personaggi appartengono a loro stessi, le loro famiglie non c'entrano ovviamente nulla con la realtà e con questa fanfic non si vuole discutere in alcun modo le loro scelte di vita, la loro sessualità o menate varie.
Scritta per la Terza Settimana: Trial of Earth di WRPG @
maridichallenge Il mondo di Jared crollò a dieci anni.
Non accadde un pezzo alla volta, per dargli il tempo di elaborare la notizia, rendersene conto, correre ai ripari - o nascondersi sotto al fortino di cuscini e lenzuola costruito in camera; accadde nel peggior modo che un bambino potesse sopportare.
Seduto alla poltrona del salotto, il volto stanco di suo padre puntava come al solito alla finestra - non aveva mai capito cosa ci fosse di tanto interessante, finché non era cresciuto e aveva realizzato che non era ciò che c'era fuori ad essere interessante, era ciò che si trovava in casa a non esserlo affatto.
Sua madre gli sorrise senza felicità, nascondendo la verità di un matrimonio finito da anni, dietro una curva tremolante.
Ma Jared lo aveva capito subito, lo aveva sentito nell'aria che qualcosa non andava.
«Tesoro, vedrai che quando saremo a Los Angeles si sistemerà tutto. La nuova casa ti piacerà e ti farai tanti nuovi amici.» lo rassicurò lei.
«E papà?»
Suo padre non si preoccupò di guardarlo, gli diede una di quelle risposte fatte per chiudere un discorso scomodo «Ascolta tua madre e non preoccuparti.» e si alzò, per raggiungere l'angolo bar.
Jared non ricordava un solo giorno in cui non avesse visto suo padre con in mano un bicchiere di scotch e l'alito che puzzava quanto quel liquido ambrato. Con gli occhi che bruciavano per le lacrime non piante, guardò le prime gocce di scotch rotolare oltre il collo della bottiglia e, quando una di esse si infranse sul parquet del salotto, prese la decisione più importante della sua vita: Scappare.
«Jared!»
L'urlo di sua madre si perse in più eco, rimbalzando sul pianerottolo davanti alla porta d'ingresso.
Non si era reso conto di essere riuscito a spalancare la porta, precipitandosi giù per le scale, finché non sentì i piedi saltare due gradini alla volta e il petto bruciargli per la paura di cadere, di essere catturato subito e quella, più infame, di perdere tutto. E, a dieci anni, tutto significa davvero tutto.
Quasi inciampò nello spingere con entrambe le mani il portone dell'atrio, ritrovandosi d'un tratto sotto la pioggia di San Antonio.
Non aveva un ombrello, aveva a malapena un paio di jeans e una maglietta di un rosso opaco e dalla stampa infantile di un alce seduta su una montagna di caramelle, ma non sarebbe tornato indietro. Mai più, giurò a se stesso, senza conoscere l'importanza di un mai. Sapeva solo che doveva valere tanto e doveva fare male, perché le volte che sua madre l'aveva usato contro suo padre (Non ci sei mai! Non ti interessi mai! Non pensi mai a come mi sento!) l'aveva anche sentita piangere di nascosta, chiusa nella sua stanza e l'unica volta che l'aveva sentito pronunciare a lui (Non avrei mai dovuto sposarti.) una crepa invisibile si era aperta nella sua famiglia.
Il potere di un mai faceva paura.
Qualche passante lo notò ciondolare sul marciapiedi, stretto nelle spalle, senza sapere dove andare; si avvicinò per chiedergli se si fosse perso e, allarmato, Jared temette di essere già stato trovato. Il suo Mai sarebbe durato troppo poco.
Scosse il capo con foga e riprese a correre, prendendo una direzione a caso, sempre dritto e senza una mèta, solo con la voglia di scappare.
Aveva creduto di correre per una vita intera, per anni, anche se i chilometri che aveva percorso erano stati solo una manciata e lo avevano portato nella periferia della città, dove la terra si faceva rossa e le case più colorate, perfino sotto la grigia pioggia battente.
Si era lasciato le abitazioni alle spalle, per cercare invece una stazione degli autobus, convinto che salendo su uno di quelli sarebbe riuscito ad arrivare ovunque - lontano, anche se, dentro di sé, non voleva andare da nessuna parte - ma tutto quello che trovò fu una banchina abbandonata, con il tettuccio in plastica duro sfondato e mezza panca caduta a terra.
Vi si era avvicinato a testa bassa, buttandosi seduto sulla panca e facendosi piccolo piccolo per poter stare sotto la parte di tetto ancora in piedi, rifuggendo la pioggia che già lo aveva bagnato in abbondanza. Non aveva notato l'ombra nera che troneggiava proprio sotto il punto sfondato e non ci avrebbe nemmeno fatto caso se non fosse stato per le gocce che, rimbalzandogli sopra, finivano per rotolare anche su lui.
Si voltò singhiozzando e tirando su col naso, per poi spalancare lo sguardo davanti all'imponenza di spalle larghe, muscoli duri e arti lunghi, no, lunghissimi di un uomo enorme.
«Ah!» esclamò Jared, scattando in piedi «Non l'avevo vista!» si scusò e si allontano in fretta dalla banchina.
Si azzardò a guardare indietro verso lo sconosciuto, solo dopo qualche passo; ma l'uomo non si era mosso, né gli aveva risposto, guardava fisso davanti a sé e anche a quella distanza il più piccolo riuscì a distinguere perfettamente i suoi occhi verdi. Un verde brillante e intenso, come il colore dei quadrifogli. Un oceano di quadrifogli.
Reclinò il capo, impensierito. Era strano che un adulto rimanesse sotto la pioggia senza battere ciglio, sua madre si sarebbe arrabbiata perfino se coperta da un ombrello e suo padre avrebbe imprecato a gran voce, seccato per tutta quella dannata acqua.
«Si sente bene?» domandò facendosi coraggio e muovendo un passetto in avanti. Riavvicinandosi.
L'uomo non rispose. Aveva le braccia distese, immobili contro i fianchi a cui una maglia a maniche lunghe di un beige spento e vecchio - strappata in qualche punto - si era appiccicata per la pioggia, facendo risaltare l'addome piatto.
Jared pensò che dovesse trattarsi di un atleta.
O un modello.
Non che se ne intendesse in qualche maniera o potesse importargliene abbastanza da conoscerne le differenze, ma gli occhi di quell'uomo erano riusciti a lasciare senza fiato perfino lui e, guardandolo meglio, lo trovò bello.
Mosse un altro passo, ascoltando con attenzione i rumori sotto la pioggia.
Ancora nulla.
«Finirà per prendersi un malanno a starsene lì così.» tentò allora, avanzando ancora e ancora, fino a ritrovarsi di fronte all'uomo «Ma mi senti?» era passato a dargli del "tu" senza pensarci, così come non aveva pensato a nulla quando, indispettito dal suo silenzio, lo aveva calciato ad uno stinco, ritirando il piede al dolore inaspettato che lo aveva colto.
«Ahia!»
Era stato come colpire un bidone di latta pieno di altra latta. O una gamba finta.
«Oh. Ma sei un manichino!» realizzarlo lo fece sentire, in qualche modo, fiero di sé ed ora che sapeva di non poter correre alcun pericolo - ne aveva visti di film dell'orrore in cui bambole e manichini prendevano vita, ma era abbastanza sveglio da sapere cosa fosse possibile e cosa no nel mondo reale - gli camminò intorno, osservando con attenzione ogni dettaglio. Erano straordinari i particolari, così reali che, se avesse avuto il dono della parola, nessuno avrebbe pensato fosse finto.
«Devi essere, tipo, un manichino fatto per qualche film, quelli sono fatti meglio di quelli che ho visto nei centri commerciali.» commentò ad alta voce, ben sapendo che l'altro non avrebbe potuto rispondergli, nonostante le orecchie presenti ai lati del capo, sfiorate appena da corti capelli biondicci che si facevano un po' più lunghi verso la fronte, dove un tempo i ciuffi dovevano essere stati spazzolati verso l'alto, in una frangia ribelle che ora, invece, rigava la pelle.
Chissà perché un manichino come quello se ne stava tutto solo sotto una banchina dal tettuccio sfondato.
Jared ci pensò su per un po', riempiendosi la testa di ipotesi infantili, ma con il silenzio si fece largo la solitudine e con la solitudine arrivò il volto di suo padre girato verso la finestra di casa e il sorriso falso di sua madre.
Si lasciò ricadere sulla panca, accanto al manichino, sollevando i piedi e spingendo le ginocchia al petto, raccogliendole tra le braccia per sentire meno freddo.
«La mamma e papà non vogliono più stare insieme, sai, per questo sono andato via. Papà dice che non la ama più, anche se prima l'amava. Penso. Perché altrimenti non si sarebbero sposati, no? E la mamma ha detto che ci dobbiamo trasferire a Los Angeles, anche se a me non piace Los Angeles. A me piace stare qui. Cioè, non qui alla fermata dell'autobus, dico qui a San Antonio.» aveva iniziato a parlare per trovare conforto nel suono della propria voce, senza prender fiato, buttandosi in un flusso di pensieri che, con l'accento texano, rendeva ogni sua frase un pot-pourri di parole macinate una dietro all'altra.
Prima che se ne accorgesse, gli aveva raccontato della scuola che avrebbe dovuto cambiare, degli amici che avrebbe dovuto lasciare, delle volte in cui sua madre era tornata a casa tardi la sera e di quelle in cui suo padre non tornava affatto e poi dell'odore fastidioso dello scotch nell'angolo bar del salotto, dei voti che aveva preso a scuola, quelli belli e quelli brutti che non aveva avuto il coraggio di far vedere ai genitori e di cui tanto loro non si ricordavano mai, di quanto volesse un cane, o un gatto, o un pappagallo o una tigre della Malesia - perché una volta a scuola avevano visto un documentario sulle tigri e da allora tutti ne avevano voluta una - e di quanto si sentisse solo. Soprattutto di quello. E, quando il solo parlare non gli era più bastato, aveva allungato la mano, cercando quella del manichino, trovandola enorme e morbida, quasi fosse fatta di pelle vera. La strinse, aggrappandovisi più forte che poteva ogni volta che sentiva le lacrime salire agli occhi, finché non ebbe più nulla da raccontare.
Si passò il dorso della manica sugli occhi e sul naso, asciugandoseli alla male peggio e lentamente, assicurandosi prima di non rischiare di mettersi a piangere davvero - anche se un manichino non avrebbe certo potuto prenderlo in giro -, sollevò lo sguardo su di lui.
Seduto così vicino al manichino, fu obbligato a tirare il capo completamente indietro per riuscire a guardarlo bene. Doveva essere alto almeno due metri, pensò. Forse anche di più.
Magari era per quello che l'avevano lasciato lì: era troppo grosso per poter stare altrove. Poverino.
«Se… se mamma e papà non litigavano e non mandavano a monte il matrimonio, magari potevo, tipo, chiedere se potevo tenerti. Ma così non posso proprio, mi dispiace.» non sapeva esattamente di cosa stesse parlando, di come si facesse a mandare a monte un matrimonio, ma dubitava che i suoi genitori avrebbero accettato di tenersi a casa quel manichino. Forse, nella casa nuova, non ci sarebbe stato nemmeno spazio sufficiente per sistemarlo, anche se avrebbe condiviso volentieri la sua camera con lui.
Sentì una morsa al cuore all'idea di doverlo lasciare da solo sotto la pioggia e al buio, che iniziava ad ammantare di nero le strade, con l'arrivo della sera. Sarebbe rimasto con lui, pensò, in fondo aveva promesso di non tornare più a casa. Mai più.
Un segno sul braccio del manichino attirò la sua attenzione.
Si alzò in piedi sulla panca, per poter raggiungere l'altezza della sua spalla e vedere meglio nello strappo della maglia che scopriva la palle di un rosa puntinato da macchioline più scure. Lentiggini. Le aveva anche sul volto, notò affascinato, prima di tornare allo strappo nella manica. C'era un tatuaggio al di sotto: un codice a barre proprio dove iniziava il braccio e, ancor più sotto, delle lettere; alcune erano sbiadite, altre cancellate o dalle sbarrette mancanti, che formavano le parole JOY ENTERPRISES - N#001.
Jared ne sfiorò qualcuna con un dito, soffermandosi sulla forma allungata della "J", sugli spigoli delle "E" o sulle rotondità della "S", cercando inutilmente di leggere le tre parole; ma prima che potessero acquistare un senso, una voce femminile e preoccupata si fece largo nel ritmico battito della pioggia.
Guardò verso la strada, scorgendo un ombrello. Al di sotto, una donna in un cappotto bianco panna che ricordava tanto quello di sua madre, continuava ad urlare il suo nome.
«Mamma?» si chiese, balzando giù dalla panca con il cuore in gola e le lacrime che avevano trovato una via di fuga, rigandogli le guance «Mamma!» urlò, quando sua madre lo chiamò di nuovo, agitando il braccio verso di lui, sollevata per aver ritrovato il figlio.
Jared fece per correre da lei. Si fermò, con la mano ancora stretta in quella del manichino e lo guardò indeciso.
«Scusa. Ora devo andare.» pigolò piano, in un dispiacere tangibile nella voce di bambino.
Le piccole dita scivolarono lontano dalla mano più grande del manichino.
«Ci vediamo…» tentò un'ultima volta di leggere il tatuaggio sul suo braccio, nella speranza di leggerci il suo nome, finché non lo trovò nelle lettere più visibili: «Jensen.»
Gli sorrise, con lo stesso affetto che avrebbe riserbato ad un amico e, infine, corse tra le braccia di sua madre.
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Ci fu un impulso. Un sospiro di vita artificiale. E le palpebre del manichino tremarono, calando con un lieve bzz sugli occhi, risollevandosi subito dopo.
Le labbra carnose, di un rosa vivo, si schiusero e, dalla gola, nacque un suono metallico, simile ad una voce.
«Ci vediamo- Padrone.»
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Diciotto anni, un diploma in cazzeggio (ed uno più serio al LA City College) e una patente falsa per poter ottenere tutte le birre che il suo corpo poteva sopportare. Non molte a dire il vero. Nonostante l'anno prima fosse cresciuto di una quindicina di centimetri, raggiungendo la soglia del metro e novanta, il suo organismo non ne voleva sapere di reggere più di un paio di birre al massimo.
Quella sera aveva superato la soglia di un bicchiere di tequila e una lunga sorsata dal cocktail superalcolico di Chad ed infilare la chiave nella toppa di casa si rivelò più difficile del previsto.
Non si era preoccupato di controllare l'ora, potevano essere le due, così come le tre del mattino o le quattro, non avrebbe comunque trovato nessuno in casa a dirgli che la notte non era fatta per starsene a zonzo come un vagabondo e che l'esame d'ingresso per l'università non si sarebbe studiato da solo.
Sorrise debolmente quando, con la porta spalancata sul salotto, ad accoglierlo fu solo il silenzio di una casa vuota ed il buio.
«Tipico.»
Non era cambiato nulla dal divorzio e dal loro trasferimento a Los Angeles; si era fatto nuovi amici, aveva trovato in Chad il fratello che non aveva mai avuto - anche se alle volte lo guardava con occhi curiosi, affamati -, suo padre si era sposato con un'altra donna, tagliandoli fuori dalla sua vita, e sua madre era rimasta una presenza vaga, una figura dai contorni fumosi di cui ricordava soltanto i biglietti dalla scrittura elegante, lasciati sul microonde con le istruzioni sulla temperatura e i minuti necessari per scaldare la cena.
Accese la luce, richiudendo la porta alle proprie spalle con un paio di mandate e annusò l'aria, infastidito; perfino con i sensi annebbiati dai fumi dell'alcol riuscì a distinguere l'odore intenso e nauseante che si era fatto largo nella stanza.
«God! Ma che cos'è sta puzza?!»
Aveva fatto in tempo a voltarsi e formulare appena il pensiero di dover aprire le finestre, quando lo sguardo si spalancò sull'intruso, in piedi nel mezzo del salotto.
«Oh cazzo!»
Indietreggiato contro la porta, cercò a tentoni il portaombrelli e la vecchia mazza da baseball lì infilata. La strinse tra le mani, sollevandola in un'aria che avrebbe voluto essere minacciosa, ma che lasciava trasparire ansia e paura. Era la prima volta che un ladro entrava in casa, la prima volta che si trovava a fronteggiare un uomo grande e grosso e «Jeez, dude, ma sei uscito da una fogna?»
L'uomo non si mosse, si limitò a fissarlo con occhi che, perfino sotto la polvere, il fumo, il sudore e il sudicio che gli anneriva il volto, si mostrarono in un verde luminoso. Come il colore dei quadrifogli.
Le dita si strinsero più forte alla mazza.
«Senti, tu te ne vai, io faccio finta di non averti visto ed entrambi evitiamo un viaggio assicurato all'ospedale o in galera, ok?» si era impegnato per mantenere un tono di voce deciso, cancellando quel tremito che l'altro, tuttavia, percepì senza problemi.
Lo vide sbattere le palpebre, fissare la mazza da baseball e starsene fermo, come un manichino in una boutique di abiti da uomo. Se non fosse stato così sporco, avrebbe fatto un'ottima figura come manichino: era alto, slanciato, le gambe erano toniche e strette nell'abbraccio di un paio di jeans che un tempo dovevano essere stati blu - mentre ora erano di un grigio spento e macchiato di fango ovunque, così come gli anfibi ai piedi dalle stringhe rotte e slacciate. Era riuscito a notare anche il fatto che fossero arcuate, ma ad accogliere maggiormente l'attenzione del ragazzo era stata la maglia di un colore indefinibile che forse era stato beige o forse nocciola; era strappata in più punti e, all'altezza del braccio sinistro, un buco più ampio si apriva nella stoffa a mostrare la pelle annerita del braccio.
Guardò meglio.
Non era annerita, era marchiata da un tatuaggio, un codice a barre e qualcosa al di sotto che non riusciva a vedere.
Potevano essere delle lettere. Lettere di un nome che Jared aveva inventato per lui.
«Nah…» mormorò, dandosi dello stupido. I manichini non camminano e non si introducono furtivamente in casa d'altri!
«Hai.»
Sussultò. Non si era aspettato di sentirlo parlare, ma oltre a quella prima parola non ne arrivarono altre e Jared pensò di esserselo immaginato.
«Seriamente, devi andartene, dude. Mio padre è un poliziotto.» mentì. Non aveva idea di che lavoro facesse suo padre, quando era piccolo pensava lavorasse per la CIA, che non fosse mai presente perché le missioni lo tenevano impegnato e che non parlasse mai con lui perché non voleva mentirgli, ma non poteva nemmeno raccontargli i segreti del suo lavoro.
«Hai.»
Questa volta si convinse di averla sentita davvero: una voce profonda e calda, con una strana sfumatura metallica che si era inserita come un punto, tranciando la frase sul nascere.
Attese.
«Hai detto.»
Di nuovo la voce profonda e calda del ladro, il suono metallico e una pausa lunga, come se stesse cercando le parole da qualche parte nella sua mente - o storate in un database.
«Hai detto. "Ci vediamo." Ho aspettato. Ma tu. Non sei tornato. Padrone.» aveva scandito pezzi di frase un po' alla volta, con la cadenza meccanica di un computer e la voce di un uomo dal vago - vaghissimo - accento texano.
Jared rise, una risata nervosa e senza allegria, stanca, brilla e spaventata.
«Mi stai prendendo per il culo?»
«Hai detto. "Ci vediamo."»
Si spinse completamente con la schiena contro la porta, quando il ladro scandì le ultime due parole con una voce diversa. Non era stato come se cercasse di imitarla, era stata a tutti gli effetti la voce di un bambino e, quando il ladro abbassò lo sguardo al proprio fianco, per poco Jared non urlò.
La mazza da baseball cadde in terra, rotolando sul pavimento fino ai piedi dell'uomo e di una panchina mezza rotta su cui un bambino era seduto con le gambe rannicchiate al petto e la mano stretta in quella del ladro. Piangeva e, mentre piangeva, parlava e raccontava di un matrimonio fallito, di una città che avrebbe dovuto abbandonare e di una casa fatta di silenzi rumorosi e spazi troppo ampi e troppo vuoti.
«What… the… fuck…»
Ricordava perfettamente di quel giorno. Aveva dieci anni, i suoi gli avevano detto che avrebbero divorziato, lui era scappato e aveva trovato un manichino. Un manichino che doveva essere solo un manichino.
«Non sei più. Tornato. Padrone.» ripeté il manichino, il ladro o qualunque cosa fosse, in una cantilena atona.
«Cosa… Chi… diavolo sei?»
La voce di Jared si era incrinata, le mani erano rimaste in alto a stringere l'aria e guardava con occhi spalancati quel se stesso bambino, che sparì in una scia di luce risucchiata dagli occhi del… coso.
«Jensen.» la pronuncia uscì in una parola vuota di significato, più che come il nome proprio di una persona.
«Che?»
«Jensen.»
«È il tuo nome?»
Il manichino sbatté le palpebre e accanto a sé tornò la proiezione del bambino. In piedi sulla panca tracciò con il dito le lettere tatuate sul suo braccio, per poi balzare giù, sorridendogli mentre la sua voce infantile pronunciava "Ci vediamo. Jensen".
E Jared crollò a terra, tenendosi una mano allo stomaco e vomitando tutto l'alcol che aveva bevuto.
Aveva dovuto ripulire il pavimento, trovando un minimo di sollievo nello spalancare le finestre del salotto e spingersi con la testa al di fuori, respirando aria fresca. Lo stesso non si poteva dire dell'aria che aleggiava all'interno, pregna del puzzo che si portava dietro il manichino. Jensen.
Non aveva avuto abbastanza lucidità da chiedergli cosa fosse - un paio di risposte se le era date: androide o alieno venuto da qualche futuro per distruggere la razza umana, ma sperava nella prima ipotesi - o perché insistesse nel chiamarlo Padrone; ora come ora l'unica cosa che desiderava era tornare a respirare.
«Non ho idea di come tu abbia vissuto finora, ma ti devi fare un bagno, amico. E uno bello lungo.»
Jensen mantenne lo sguardo fisso, senza batter ciglio.
«Ohi-ohi, bagno. Ora. Prima che io muoia soffocato.»
Qualcosa nelle parole di Jared ottenne una reazione: Jensen aggrottò la fronte, incupito. Anche se, la parola più calzante, pensò il ragazzo, fosse triste.
«Bagno. Ora.» ripeté.
«Già. E ti puoi muovere o devo trascinartici in bagno? Non sono sicuro di riuscirci, quant'è che pesi? Centosettantacinque? 'ottanta?»
Ci fu un ronzio leggero, appena udibile a precedere la risposta di Jensen.
«Trecento. Sessanta. Tre. Libbre. Virgola. Settanta. Sei.»
«Wha… whaaat?» Non era stata la precisione della risposta a sconcertarlo, quanto invece il peso in sé. 363,76 libbre. Più del doppio del proprio. «Che hai al posto delle ossa, adamantio?»
Non c'era modo per cui il manichino capisse la battuta e Jared lasciò perdere, gli indicò le scale e, assicurandosi che almeno lo seguisse, si diresse al piano superiore nel bagno a lui dedicato, dove bottiglie di shampoo e bagnoschiuma mezze vuote riempivano ogni superficie piana, la cesta dei panni sporchi straripava e, infilata in un mucchio di giornali poggiati al davanzale della finestra, accanto ai sanitari, era stata dimenticata una rivista pornografica. Gliel'aveva prestata Chad qualche anno prima, nell'invidia dei suoi amici maschi che, tra commenti stupidi, risolini e sguardi avidi avevano potuto guardare solo le prime pagine. Per lui invece non c'era stato questo grande trasporto, certo, vedere una donna nuda gli aveva fatto seccare la bocca e sgranare gli occhi, ma poi la sua mente aveva viaggiato altrove e aveva scoperto che il suo concetto di bellezza e di eccitante fosse diverso.
Aveva capito di essere gay a quindici anni, ma aveva custodito il segreto e ancora, davanti ai suoi compagni, fischiava insieme a loro quando vedeva passare una ragazza carina.
Nell'entrare in bagno e girare la manopola dell'acqua calda nel vano doccia, non si era accorto che Jensen si era fermato prima della porta, tornando immobile come un bambolotto a grandezza umana. Si voltò a guardarlo. Lo ricordava molto più grande, ricordava di aver pensato che fosse addirittura imponente, alto più di due metri; invece era lui quello alto.
«L'acqua è già alla giusta temperatura, ma se la vuoi più calda devi girare qui.» iniziò a spiegargli, indicando la manopola incassata nella parete di vetro del vano doccia, passando poi allo «Shampoo.» e al «Bagnoschiuma.» scegliendo tra le boccette meno vuote, per poggiarle sul ripiano al lato destro del box, accanto alla cornetta della doccia «Prenditi il tempo che ti serve, tanto mia madre non si farà viva prima di domani sera.»
Scrollò le spalle e uscì dal bagno, per lasciare posto al manichino. Avrebbe dovuto chiedersi se l'acqua avesse potuto danneggiarlo, causare cortocircuiti o rovinarlo, ma era fatto così bene, sembrava così vero che, anche dopo aver visto coi propri occhi la proiezione che Jensen era riuscito a far partire dal nulla, stentava a credere che non si trattasse di un ragazzo in carne ed ossa esattamente come lui - magari con qualche anno in più.
Quattro? Cinque? Forse perfino di più, se Jared sembrava un ragazzino imberbe dall'altezza spropositata, l'altro era, senza ombra di dubbio, un giovane uomo. Almeno all'apparenza.
Invece di entrare nella vasca, Jensen lo seguì, quando si diresse nella propria stanza.
«Che stai facendo?» gli chiese il ragazzo.
«Hai detto. Ci vediamo. E non sei. Tornato.»
Non avrebbe saputo spiegarsi meglio, non c'erano abbastanza informazioni nel suo programma per fornirgli le parole giuste e dargli la possibilità di far capire a Jared quanto avesse preso sul serio il suo saluto e quanto lo avesse aspettato. Anni interi in cui Jared non era tornato. Lo aveva lasciato da solo in una banchina dal tetto sfondato, allo stesso modo in cui, pochi istanti prima, lo aveva lasciato davanti alla porta di un bagno.
E se ne era andato.
«Hai… detto. Ci vediamo.» nella monotonia della sua voce ci fu un tremito, una nota stonata e una linea errata nella programmazione, che venne immediatamente corretta.
Jared sospirò.
«Dude, ne devi avere parecchi di problemi.»
Eppure tornò sui suoi passi, precedendolo sulla soglia del bagno ancora una volta, reprimendo con la forza l'istinto che per un attimo lo aveva quasi sopraffatto, spingendolo a voler abbracciare quel completo sconosciuto, nell'esatto istante in cui aveva sentito quel tremito nella voce di Jensen.
Volute di vapore si erano sollevate nel bagno, appannando lo specchio e il vetro del vano doccia. Il getto era caldo e si abbatteva sulla nuca di Jensen, appiattendone i capelli, mentre lo sporco che aveva addosso iniziava a colare via, aprendo chiazze più chiare nei ciuffi biondicci, sul volto, sulle spalle e sugli abiti zuppi che Jared stava cercando di togliergli.
«Ma una doccia nella tua vita te la sei mai fatta?» borbottò, nervosamente.
Non avrebbe mai pensato di trovarsi in una situazione così assurda e quando gettò in terra il mucchio di stracci che rivestiva il manichino, scoprì di non avere la più pallida idea di cosa fare.
C'era un ragazzo di qualche anno più grande di lui, vestito solo di un paio di boxer, che lo fissava immobile e bagnato, completamente esposto a lui, senza alcun timore di mostrarsi vulnerabile.
Per quanto potesse essere sudicio da fare schifo era la cosa più bella che Jared avesse mai visto.
E quando, sotto i colpi della spugna - insicuri per la sua presa debole -, iniziò a rivelarsi il colore della sua pelle, le lentiggini sul volto, le linee perfette dei pettorali e dell'addome, la curva dell'inguine si affossava in un paio di boxer lerci e la forma della sua virilità al di sotto della stoffa bagnata, Jared fu costretto a fermarsi.
Strizzò gli occhi, obbligandosi a mantenere il mento sollevato, con il caldo dell'acqua che era diventato insostenibile, nonostante i fremiti che cospargevano di brividi il suo corpo. Represse malamente un gemito, in un grugnito mezzo masticato, sentendo il calore pulsare anche tra le proprie gambe.
Quel manichino era bello. Dannatamente bello. Insopportabilmente bello.
«Ti dà. Ancora fastidio. Il mio odore?»
La sua voce lo colpì come un'ondata ghiacciata.
Spalancò gli occhi.
Non era più nemmeno ubriaco, era solo stordito dalla bellezza di Jensen e dal bisogno di chiudersi in camera, spogliarsi degli abiti bagnati che si era tenuto addosso entrando con lui nella doccia e toccarsi.
«E-eh?»
«Ti dà. Ancora-»
Scosse il capo, agitando le mani davanti al suo volto.
«Ho sentito, ho sentito, non ripeterlo!» si affrettò a fermarlo. Il tono che aveva usato Jensen era stato di nuovo monocorde, ma Jared era riuscito benissimo a sentire quell'unica scintilla di vita nella voce; era calda, era umana e quel vaghissimo accento texano lo avrebbe riconosciuto tra mille.
Non gli rispose, anche se no, non gli dava più fastidio il suo odore.
Gli dava alla testa.
Gli metteva voglia di leccare ogni centimetro della sua pelle e sentire il battito del suo cuore sulla lingua o il ronzio dei suoi circuiti o qualsiasi cosa si fosse trovata lì sotto.
«Ok, così non può funzionare.» sussurrò frustrato, cercando senza abbassare lo sguardo la mano del manichino, lasciandogli la spugna tra le dita «Hai visto come si fa, no? Ti passi la spugna, ti risciacqui e quando hai finito chiudi l'acqua. È facile.»
Non era mutato, gli occhi erano riusciti a farsi perfino più verdi - e, se non fosse stato attento, in quell'oceano di verde ci si sarebbe perso per sempre - ma lo sguardo di Jensen era rimasto lo stesso, anche se sul fondo Jared aveva creduto di leggerci confusione. E dubbi. E altri sentimenti umani.
Ancora una volta si convinse che dovesse esserci una spiegazione logica alla sua esistenza. Poteva essere un cyborg che soffriva di amnesia ed aveva dimenticato anche le cose basilari come lavarsi, parlare bene e non entrare nelle case altrui senza annunciarsi, travestito da senzatetto.
Scosse di nuovo il capo, con i capelli castani zuppi d'acqua che lanciarono gocce ovunque e uscì dallo sportello del box, recuperando uno degli asciugamano per buttarselo addosso, cominciando ad asciugarsi.
«Hai detto-» alla sua vista il manichino era già stato pronto a ripetere per l'ennesima volta la cantilena con cui si era presentato.
«Dude, don't!» lo fermò Jared «Non me ne sto andando in Malesia, ok? Mi trovi in camera, è la porta accanto. Ma non posso aiutarti più di così, capisci?»
Sperò lo capisse davvero, ma lasciò il bagno prima di avere una risposta.
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Jared aveva fatto un sogno, un sogno strano.
Aveva sognato di aprire la porta di casa e trovarsi davanti un dio; avrebbe detto angelo, ma non rendeva abbastanza l'idea di quello che aveva provato quando i raggi della luna avevano accarezzato la sua pelle nuda. Aveva sognato di guardare il suo braccio e scoprire il suo nome tatuato { Jensen } e da qui il sogno iniziava a diventare strano, perché la luna si era sciolta sulla loro testa in gocce argentate che erano piovute sul corpo del dio e lo sguardo di Jared ne aveva seguita una in particolare che era scivolata in basso, incastrandosi all'ombelico e poi rotolando più giù tra la bionda peluria pubica, fino a seguire la lunghezza della virilità e da lì infrangersi sul pavimento.
Si era svegliato in quel momento, urlando e tirandosi di scatto a sedere sul letto.
Strizzò gli occhi, feriti dalla luce del sole che aveva preso il posto della luna argentata del suo sogno, e si concesse qualche lungo respiro, mentre, nel petto, il cuore martellava con tanta forza che temeva potesse scoppiargli da un momento all'altro. Si portò una mano al petto, accorgendosi di essere bagnato e, come lui, lo era anche il materasso.
Allungò le braccia davanti a sé, sentendo le maniche della felpa leggera che indossava tirare, come fossero state incollate alla sua pelle e un'intensa ondata di freddo lo fece tremare. Un asciugamano scivolò giù dalle sue spalle.
«Merda!» imprecò nel ricordarsi di essersi addormentato la sera prima, senza spogliarsi degli abiti che si erano bagnati durante la-
«Non è possibile…»
Era stupida la sua paura - quella di voltarsi e scoprire che il dio del sogno non era un dio, ma un manichino e che quello che aveva fatto non era un sogno -, in fondo non gli aveva fatto del male quando lo aveva scoperto in casa, né aveva approfittato del suo sonno. Era stupida e forse quello di cui aveva paura era di non trovarlo più lì.
«Mi trovi. In. Camera. È la. Porta accanto.»
Incolore e con quel suo retrogusto metallico, Jensen sbrodolò quella nuova frase imparata e salvata nella memoria del suo database e Jared si trovò inconsapevolmente a sorridergli, divertito, prima che il cervello abbandonasse del tutto il torpore del sonno e si rendesse conto della pozza d'acqua aperta sotto ai piedi nudi del manichino. E i piedi non erano l'unica parte ad essere nuda.
Il sogno gli tornò alla mente con prepotenza e, a differenza di quella pallida della luna, la luce del sole riusciva ad illuminare ogni dettaglio del corpo del manichino, tatuandoglielo nella cornea degli occhi e dietro le palpebre, perché lì rimanessero anche quando li avesse chiusi.
Il freddo causato dagli abiti bagnati era stato un toccasana. Si sforzò di alzarsi e distolse lo sguardo da Jensen, per guardarsi invece intorno alla stanza, che aveva abbandonato l'aria spettrale che assumeva di notte, per mostrarsi per quello che era realmente. Il caos.
Avrebbe potuto farla passare per un campo di guerra. Libri di scuola, fumetti americani e qualche shounen giapponese erano stipati malamente nella libreria, insieme a vecchi modellini di mecha e ad uno Spider Man penzolante che sembrava appena uscito - perdente - da una battaglia; sulla scrivania, accanto al computer, erano state abbandonate un paio di lattine di red bull, un pacchetto vuoto di patatine, appunti per l'esame d'ammissione all'università, altri libri e penne probabilmente scariche; sulla poltrona girevole c'era una pila di panni lavati e stirati e, intorno, di tutto. A pensarci meglio, un campo di guerra sarebbe stato meno disastrato. E, in un campo di guerra, non avrebbe trovato Jensen che per tutta la notte era rimasto in piedi accanto al suo letto, in un'attesa silenziosa, forse aspettando nuovi ordini che non erano arrivati o accontentandosi anche solo di aver ritrovato il suo Padrone.
Jared si impegnò per non dar bado a quel leggero rumore meccanico che aveva sentito provenire da lui quando lo aveva aggirato ed era uscito, tenendo in mano una maglia e un paio di jeans asciutti. Aveva percepito il suo senso di panico e, dandosi dell'idiota, si era chiuso in bagno cambiandosi il più in fretta possibile per poi tornare con un ampio asciugamano morbido e bianco che aveva lanciato in faccia al manichino. Senza che lui muovesse un dito, l'asciugamano era poi caduto in terra.
«Mi prendi in giro?» borbottò, raccogliendolo «Avresti almeno potuto pensare ad asciugarti, genio.»
«Non c'era. Tra. I tuoi. Ordini.»
«Che?»
«Ti passi la. Spugna. Ti risciacqui. E. Quando hai. Finito. Chiudi l'acqua.» recitò Jensen «Non c'era. Nessun riferimento al. Asciugarmi. Padrone.»
«Sarai sexy da paura, ma, jeez!, se sei tardo.» commentò Jared, facendo ricadere l'asciugamano sulla sua testa e iniziando a frizionargli i capelli per asciugarli «E poi smettila di chiamarmi padrone, mi fa senso.»
«Perché.» Il tono interrogativo si perse nella voce di Jensen e nel suo sguardo verde - un oceano di quadrifogli contenuto tutto in due occhi soltanto, due biglie finte incastonate nel suo volto perfetto, sopra il mare di lentiggini sul naso e sulle guance.
Non guardarlo, non guardarlo, non guardarlo. Continuare a ripeterselo era inutile, Jared non riusciva a smettere di guardarlo, spiando i suoi tratti tra le pieghe dell'asciugamano e sentendo la presenza del suo corpo che sfiorava i propri abiti.
Gli sembrò troppo caldo per essere finto. O meglio, non freddo come ci si sarebbe aspettato da un pezzo di plastica. O di latta. O di qualsiasi materiale fosse fatto.
Per un attimo le dita si allungarono oltre l'asciugamano sfiorandogli il collo, curioso, percependone la pelle liscia - non c'era possibilità perché credesse realmente che fosse sintetica - e, subito dopo, allontanò la mano.
«Come sarebbe a dire perché?» si decise a chiedere.
«…perché.»
«Facciamo che me lo dici tu il perché continui a chiamarmi così.»
«Padrone.»
«Appunto.»
«È quello. Che. Sei.»
«Quindi se ti ordinassi di buttarti da un ponte, tu-»
Jared non fece in tempo a finire la frase, il manichino sembrò analizzare la frase e trovare un riscontro nelle azioni che avrebbe dovuto compiere per portarla a termine, quindi si voltò camminando a passi lenti verso la porta della stanza e il ragazzo non ebbe alcun dubbio che avrebbe cercato un ponte da cui buttarsi. Solo perché lui gliel'aveva chiesto.
«Oh shit!» d'istinto allungò le braccia a stringerle alla sua vita.
Jensen si fermò all'istante, la schiena dritta contro cui poggiava il petto di Jared, il mento alto e lo sguardo fisso davanti a sé che era stato attraversato da una scossa elettrica, un impulso al contatto improvviso con il ragazzo.
In mezza frazione di secondo il suo programma aveva scansionato e analizzato ogni sua funzione, fino a dare un unico responso che era stato tradotto, dal codice binario, in tre parole: Ancora. Di più.
«Stavo solo scherzando. Non farlo, ok? Era solo una battuta idiota.»
Jensen chinò il capo, percependo il fiato di Jared sul collo e il suo volto piegato sulla propria spalla.
Ancora. Di più.
Nonostante il ragazzo lo sovrastasse in altezza, le sue braccia erano più sottili delle proprie e il suo corpo più snello. Più piccolo. Ma era caldo, caldissimo rispetto a sé e il suono del suo cuore era piacevole, così come sentirlo spingere nella sua gabbia toracica direttamente sotto le proprie scapole.
Ancora. Di più.
Per la terza volta, la linea di codice venne riscritta nel suo programma.
Ancora. Di più.
Quarta volta.
Ancora. Di più.
Quinta. Finché Jensen non la pronunciò anche a voce: «Ancora. Di più.»
Jared si staccò da lui, come se scottasse, con le guance arrossate e il timore che l'altro gli avesse appena letto nel pensiero.
Deluso, Jensen registrò il dato, collocandolo in una cella della propria memoria, aggiungendo una regola nel proprio programma: Non fare più quella richiesta.
₪
Jared aveva avuto il bisogno di parlare di quello che gli era successo - del manichino che gli era capitato tra capo e collo, della propria voglia di saltargli addosso o buttarsi sul letto a gambe aperte e supplicarlo di prenderlo lì e subito - con qualcuno, ma quando si trattava di parlare di problemi, problemi veri, la scelta era sempre difficile.
Chad era simpatico, era divertente, era perfino sexy e Jared adorava passare il tempo in sua compagnia, insultarsi a vicenda, sfidarsi in gare idiote che finivano sempre con uno dei due piegato ai lati della strada a vomitare l'anima o con qualche ramanzina di qualche professore. Chad era ok, ma non era quel genere di ragazzo fatto per ascoltare i problemi degli altri, non se non implicavano un tentativo di entrare nelle mutandine di una ragazza.
Davanti ad una lattina di birra e a una canna, si era deciso ad accennargli dell'esistenza di Jensen. C'erano stati commenti, tanti "Ah sì?" che non volevano dire nulla, qualche cenno del capo per dirgli di continuare, ma non si era mostrato realmente interessato finché Jared non gli aveva spiegato che non si trattava di un essere umano.
«Mi stai prendendo per il culo?»
Gli occhi grigi di Chad si assottigliarono, somigliando a due lame minacciose e, seccato, strappò la canna dalle dita di Jared, ancor prima che il ragazzo potesse portarla alla bocca.
Lui grugnì qualche insulto a mezza bocca, recuperando la lattina di birra lasciata sul tavolo della cucina. Avevano passato il pomeriggio in giro, ma il freddo della città li aveva spinti a trovarsi un posto caldo in cui rifugiarsi e l'appartamento di Jared, al solito, era vuoto e silenzioso. Il posto ideale in cui starsene per poter fumare e bere in pace; avrebbero finito e sistemato prima del ritorno di sua madre, sempre che non avesse deciso di rimanere fuori anche per quella sera.
«È esattamente quello che gli ho chiesto io, man! Ma lo devi vedere, quello è un manichino parlante. O cyborg. O un androide. Comunque il punto è che ora non vuole schiodare da qui e non posso nemmeno allontanarmi di qualche passo che mi sta col fiato sul collo, you know?»
«E ora dov'è questo tuo amico invisibile?»
Jared sollevò gli occhi al soffitto, irritato dalla leggerezza di Chad anche se, al suo posto, avrebbe reagito allo stesso modo.
«Non è mio amico e non è invisibile.» sbuffò.
«Still.»
Si alzò, facendogli strada verso il piano superiore, fino alla porta della stanza rimasta chiusa per tutto il tempo e, quando la aprì, lasciando che l'amico entrasse per primo, Chad si ritrovò immerso in un disordine familiare, senza cyborg o androidi.
«Bè?» chiese, con una smorfia, convinto di essere stato preso in giro.
«Prima giura di non fare commenti idioti se lo sentirai dire cose… strane.»
«Tipo?»
«Tu giuralo.»
«Ok, ok, lo giuro. Dio, che due coglioni che mi stai facendo venire con tutto 'sto mistero. Muovi 'sto culo e basta, no?»
Jared sospirò, avanzando per la stanza e prendendosi tempo nel raggiungere l'armadio a muro, pentito in parte di avergli parlato di Jensen. Ora non sarebbe più stato l'unico a conoscere la sua esistenza e forse il manichino avrebbe potuto preferire la compagnia di Chad e sceglierlo come nuovo padrone, in fondo aveva scelto lui solo perché da piccolo aveva letto male il suo tatuaggio e lo aveva salutato. Solo per quello.
«Scusa se ci ho messo tanto.» disse contro l'anta dell'armadio.
Dall'interno non provenne nessun suono e Chad lo guardò allucinato.
«Ho portato un amico, si chiama Chad.»
«J-rod, se è uno scherzo fa schif-» Tacque quando le dita lunghe di Jared fecero scorrere l'anta a scomparsa, rivelando il corpo di un ragazzo biondo che doveva aver avuto venticinque o ventisei anni e, come se fosse stato nulla più che un accessorio messo lì per bellezza, non aveva aperto bocca, né si era mosso.
Aspettava.
E Chad ebbe la netta sensazione che stesse aspettando qualcosa da Jared.
«Hai convinto il tuo nuovo amico dell'università che frequenterai?» gli chiese scettico, faticando a credere che quel tale fosse un robot «Spero che ti abbia pagato tanto per farti rimanere lì dentro tutto 'sto tempo.»
«Non starlo ad ascoltare, è solo geloso perché io ho il mio androide personale e lui no.»
«Oh, prima ti lamentavi che quello non si toglieva dalle palle e ora è diventato tuo.»
«Chiudi un po' quella bocca!» borbottò, spostandosi di lato per permettere a Jensen di uscire dall'armadio in cui lo aveva nascosto, nel timore che sua madre tornasse prima del previsto e, andando in camera sua, si trovasse davanti uno sconosciuto.
Chad si avvicinò ai due, studiando con sospetto il volto di Jensen, irritato dalla sua perfetta simmetria, dal colore intenso dei suoi occhi verdi, dalle sue labbra carnose e rosate e dalla sua bellezza in generale. Dove diavolo lo aveva trovato, Jared?
«Chad, Jensen. Jensen, Chad.» li presentò il ragazzo, poggiando il palmo della mano al petto del manichino prima e sulla spalla dell'amico poi.
E Jensen parlò.
«Chad.» fu un suono che entrambi i ragazzi trovarono stridente. Era durato un attimo, perfino meno, ma entrambi avevano sentito lo stridore della vocale, stritolata tra le consonanti e tra i suoi denti.
«Esatto. E ora digli cosa sei.» fece Jared, lasciando perdere la strana sensazione che lo aveva attraversato. «E già che ci sei dillo anche a me, che ieri notte dovevo essere troppo ubriaco per averlo capito.»
«Jensen.» rispose lui, di nuovo perfettamente atono.
«Wow.» commentò Chad.
«Quello lo avevamo già appurato, dude. Qualcosa di nuovo?» insistette Jared.
Jensen fece una lunga pausa e il ragazzo aveva ormai imparato che accadeva quando elaborava le sue domande, cercando di capirne il significato. Di solito ci volevano pochi secondi e se si concentrava riusciva a sentire il lieve brusio dei meccanismi interni del manichino, questa volta invece fu come se fosse restio a dargli una risposta.
«Jensen?» lo chiamò piano, sfiorando la semplice maglia bianca dallo scollo a V che indossava, una delle più larghe di Jared e che gli calzava perfettamente.
«Jensen.» riprese il manichino, ripetendo il nome come se cercasse incoraggiamento in quello «Creazione numero. Zero. Zero. Uno. Della JOY. ENTERPRISE. Primo prototipo di. Androide. Primo test di compatibilità. Con la specie. Umana. Negativo. Ripetere test. Secondo Test di. Compatibilità. Negativo. Terzo test di. Compatibilità. Negativo. Soggetto difettoso. Esperimento Fallito. Eliminare. Eliminare. Eliminare. Eliminare.»
Jensen aveva gli occhi sbarrati, bloccato in una cantilena continua che ripeteva quell'ultimo concetto e, nonostante la sua voce non si fosse mai alzato, era come se mano a mano diventasse più assordante.
Jared gli scrollò la spalla, cercando di fermarlo.
«Dude?»
«Eliminare. Eliminare. Eliminare. Eliminare.»
«Ok Jared, questo scherzo non mi fa ridere per niente.» bisbigliò Chad, sentendo una sensazione di inquietudine attraversargli le vene. Strattonò la maglia di Jared, in un tentativo incosciente di allontanarlo dal pericolo, ma l'altro continuava a scrollare la spalla di Jensen, stringendola tra le dita e sentendo sotto ai polpastrelli la stoffa ruvida della maglietta e il sottilissimo crepitare di un meccanismo artificiale che si era inceppato.
«Eliminare. Eliminare. Eliminare. Eli-»
«Jensen!» urlò Jared e, finalmente, il manichino - l'androide - tacque. Chinò il capo, chiuse gli occhi e, nel suono che fa un televisore quando viene tolta a forza la corrente - come un sole che si estingue e perde ogni utilità, ogni bellezza e ogni calore -, Jensen si spense.