Titolo: The shadow man
Serie: Supernatural Rps
Capitolo: 5/?
Character: Misha Collins, Jensen Ackles, Jared Padalecki
Pairing: Jensen/Misha {jensha},
Rating: Nc-17
Genre: Angst, Drama, Erotic, Death
Warning: Slash, Contenuti forti, Tematiche delicate, A/U
Words: 4.588
Note: Non solo c'è la scena porn (perchè in J ancora non sono riuscita ad arrivarci, dannazione?!), ma finalmente sono riuscita a mettere in campo Jared.
Disclaimers: Gli attori appartengono a loro stessi e qui non sono altro che un'idealizzazione personale, la fic non vuole in alcun modo riportare i loro gusti sessuali e gli avvenimenti qui descritti sono totalmente frutto della fantasia.
Capitoli:
01 -
02 -
03 -
04 -
05
#05. Devouring Fire
Mi ecciti.
La frase continuava a rimbombargli nelle orecchie, crescendo d'intensità, trasformandosi in un ringhio masticato dai gemiti di Misha e dai suoi denti che affondavano nella propria pelle.
Mi ecciti.
Due parole ed il cervello di Jensen era andato in tilt, rigettandogli addosso la peggior ondata di lascivia che avesse mai provato in vita sua, riempiendogli la testa di oscenità a luci rosse di cui l'uomo era l'unico protagonista e accendendo vampate di calore tra le gambe.
Si schiarì la voce con un paio di colpi di tosse, le dita avevano accartocciato l'angolo della pagina dell'album fotografico su cui erano fermi e la fotografia in cui Misha mostrava il dito medio e faceva la linguaccia a chi stava dietro l'obbiettivo era scivolata fuori dagli angoli che la tenevano prigioniera. Cercò di focalizzarsi su quella, sistemandola, osservandola e, per la miseria!, immediatamente l'unica cosa a cui riuscì a pensare era quanto diavolo fosse lunga la lingua di Misha e quanto gli sarebbe piaciuto averla sul proprio corpo, mentre lo leccava e...
«Ok, stop.»
Scattò in piedi, facendo rovesciare l'album a terra in uno svolazzare di fotografie sfilate via dalle pagine.
L'altro non aveva smesso di guardarlo, continuava a piantargli quei fari blu addosso, rendendogli la pelle più calda e il desiderio più acuto e, probabilmente, non aveva la più pallida idea di che potere esercitasse su di lui, semplicemente guardandolo.
«Non volevo metterti in imbarazzo.»
O forse ce l'aveva e voleva torturarlo...
«No? E cosa volevi?»
Si morse la lingua. Non aveva alcuna intenzione di fare domande del genere, non solo erano stupide, ma stava mettendo Misha nella posizione di fornirgli altre risposte, altro imbarazzo e dirgli che lo eccitava.
«Essere sincero. Credo.» rispose, continuando a rimanere seduto sul divano, con le mani che piano carezzavano la stoffa in pelle del cuscino sotto di sé «E volevo...»
Apparve indeciso tanto sul cosa dire, quanto sul cosa fare.
Non era sicuro che quanto volesse fosse una buona idea, doveva esserci un motivo importante se dopo tutto il tempo passato insieme a Jensen l'altro Collins (quello di cui non ricordava niente e che aveva cercato di annegare in un pozzo oscuro, per impedirgli di tornare a galla insieme ai suoi ricordi), non aveva mai provato a baciarlo, non l'aveva mai messo all'angolo bisbigliandogli all'orecchio le proprie fantasie, il modo in cui avrebbe voluto essere preso da lui e tutti i posti in cui avrebbero potuto farlo.
«Misha?» chiamò Jensen, cercando di rilassarsi. Poggiò un ginocchio al divano, abbassandosi di nuovo verso di lui, allungando titubante la mano verso il suo volto in cui lo sguardo, per un lungo attimo, si era fatto vacuo.
Aveva l'irrazionale paura di perderlo di nuovo.
«Dean.» era stata così inaspettata la luce riaccesa nei suoi occhi di nuovo puntati al texano, che non ebbe il tempo di rendersi conto del nome con cui era stato chiamato. E poi c'era stata la frase dopo: «Ho intenzione di baciarti. Di nuovo.» e ogni cellula del proprio corpo urlò "Oh cazzo, sì, ti prego!" e fu così forte il bisogno di quel bacio che rimase immobile, incapace di reagire quando la bocca di Misha trovò la sua.
Fu un bacio diverso da quello della sera prima.
La bocca dell'uomo si muoveva contro la propria, spalancata quasi a volerlo divorare, leccandolo avidamente fino a trovare la strada per il suo antro.
Dio, quella lingua! Riusciva quasi a sopraffarlo per il modo in cui la muoveva esplorandolo in ogni centimetro, battendo contro i denti, leccando il palato e spingendo poi contro la sua, intrecciandola, mischiando saliva e sapori e respirandogli contro in boccate pesanti e ansanti. Le mani di Jensen trovarono posto alle spalle dell'altro e, se all'inizio erano riluttanti a toccarlo, quasi avesse paura di vederlo crollare in pezzi davanti a sé, poco dopo abbandonarono ogni freno, premendogli addosso, carezzandogli la schiena in tocchi gentili, poi pesanti e poi di nuovo dolci, spingendoselo contro, finché non se lo ritrovò a cavalcioni su di sé, con le sue braccia aggrappate disperatamente al proprio collo ed il corpo più sottile che si muoveva e si strusciava al proprio. Lo sentì sollevare e riabbassare il bacino sulle proprie gambe, strofinandosi contro il cavallo dei propri pantaloni in frizioni quasi dolorose che lanciavano scosse elettriche al proprio cervello e rendevano più stretta la prigionia dei jeans.
Quello che prima era cominciato come un "No, no, che cazzo sto facendo? Fermati, coglione, non puoi scoparti un uomo che ha perso moglie, figlio e memoria!" si era presto trasformato in un "Oh Misha, Mishamishamishamisha, fuck, Misha!" e il suo cervello divenne gelatina nell'istante in cui ai timpani arrivò il rumore della lampo che veniva abbassata. Quella dei suoi jeans.
Era stato come il suono di una lacerazione e forse una parte di sé si lacerò davvero, quella razionale, che aveva combattuto per tutto quel tempo contro l'istinto e che, in quel momento, stava miseramente perdendo.
La mano di Misha era bollente.
Gemette, inarcando la schiena quando strinse la sua erezione, massaggiandola, sentendola gonfiarsi e pulsare tra le dita, mentre i polmoni di Jensen si riempivano e si svuotavano d'aria in fretta, insieme ai gemiti che rotolavano oltre la lingua. Aveva gli occhi lucidi, di un verde cristallino che sembrava acqua colorata, colata in un paio di biglie incastonate in un volto perfetto.
Misha sciolse il bacio, senza smettere di masturbarlo, un po' più veloce e un po' più forte, ammirandone il volto che si arrossava per il piacere ed il bacino che spingeva verso la sua mano a chiedere maggior soddisfazione.
«Mi ecciti.» mormorò, con voce roca, in un modo che da solo riusciva quasi a farlo venire.
«Chiudi quella bocca.» articolò a malapena.
«Io ho un'idea migliore.»
«What?»
Ci fu un mezzo sorriso in risposta e poi lo vide farsi scivolare verso il basso, per inginocchiarsi ai piedi del divano. Con una mano spinse contro il ginocchio di Jensen, sistemandosi tra le sue gambe divaricate, gli risalì le cosce con una carezza ruvida sui jeans e, quando la sua lingua carezzò la punta della sua erezione, bagnandola di saliva, Jensen scattò, teso come una molla, con la schiena incurvata e le sinapsi impazzite.
«Oh God...»
«Chiamami Castiel.»
Avrebbe preferito chiamarlo Misha, ma in quel momento avrebbe potuto usare qualsiasi nome l'altro avrebbe voluto, pur di sentire la sua lingua leccare avidamente la propria erezione e circondarla poi con la bocca.
Era bollente, umida e il modo in cui si muoveva su di lui, facendolo affondare un po' alla volta nel suo antro, lo stava portando alla pazzia.
Strinse con una mano i suoi capelli, trovando appena la lucidità di limitarsi a quella stretta senza spingerlo completamente contro di sé, gli lasciò seguire il ritmo che desiderava, trattenendo malamente i gemiti e i "Dio, Misha, dove cazzo hai imparato a succhiarlo così?" che avrebbe negato per tutta la vita di aver mai pronunciato.
Alle volte spingeva la schiena contro il materasso, gettando indietro anche la nuca, sollevando il bacino, in colpetti eccitati che andavano di pari passo con i propri gemiti trattenuti a stento dietro ai denti affondati al labbro inferiore, ma quando la mano dell'uomo superò le proprie gambe, per stringerlo ai fianchi, insinuandosi al di sotto della maglia, fu troppo da sopportare. Le carezze della pelle contro la pelle, le lappate della bocca al suo membro e gli occhi blu che alle volte si sollevavano a guardarlo e gli scivolavano addosso in altre carezze pesanti e invadenti.
Spalancò la bocca, riversando ossigeno liquido nell'aria, ringhiando ancora il nome di Misha e supplicandolo di continuare.
Di più, di più, Dio, ti prego. Continuava ad ansimare, sentendo il cervello sciogliersi in una colata di burro fuso e la propria eccitazione scottare tra le gambe e nella bocca dell'uomo, che non gli dava tregua e lo leccava, lo succhiava, strusciava sulla pelle sensibile con la punta dei denti.
Se l'intenzione di Misha era ucciderlo, ci stava riuscendo benissimo, anche se morire in quel modo non gli sarebbe dispiaciuto... certo, avrebbe preferito che il proprio cadavere non fosse trovato con i pantaloni calati, ma poteva lasciarlo come ultimo desiderio e pregare affinché avesse cura di renderlo presentabile per il funerale.
Strinse più forte i capelli di Misha, sentendo la propria erezione pulsare ed il corpo tendersi come una corda di violino sul punto di spezzarsi.
«Misha... please... non...»
Riusciva a malapena a respirare; cercò di spostarlo da sé, conscio di essere arrivato al limite, ma Misha affondò più forte le dita ai suoi fianchi, graffiandone la pelle e continuando a muoversi su di lui, riempiendolo di saliva, in un su e giù senza fine, finché in un verso quasi animale, Jensen non venne direttamente nella sua bocca, mentre il cuore gli esplodeva e la testa si svuotava completamente.
Era caldo il seme e aspro il suo sapore contro il palato, quando respirare divenne troppo difficile, Misha si allontanò dalle gambe del texano, concedendosi qualche colpo di tosse. Si passò il dorse della mano sulle labbra, per pulirsi alla bene-meglio, prima di sollevare gli occhi blu sul più giovane e regalargli uno sguardo languido che sembrava promettere altro piacere.
Jensen deglutì.
«'M... 'm sorry...» mormorò strascicato, senza sapere bene di cosa scusarsi o da dove partire «Non... volevo...»
Non aveva idea di come finire la frase, non voleva tante cose che, alla fine, aveva fatto, quindi si limitò a respirare grosse boccate d'aria, con il petto che si sollevava e si riabbassava.
L'altro non aveva detto niente, si era passato la lingua sulla bocca, raccogliendo le ultime tracce di seme e continuava a carezzargli le gambe, lentamente, come a dargli il tempo di calmarsi, rassicurandolo con quel semplice contatto che aveva in sé dolcezza e intimità.
Lo guardava ancora dal basso, ammirandone il volto arrossato, le labbra carnose ancora più gonfie e più rosse a causa dei denti che non avevano smesso di torturarle, i capelli scompigliati, la maglia sollevata in parte sul ventre dalla muscolatura perfetta e i jeans dalla lampo ancora aperta e i boxer in parte abbassati.
Era dannatamente sexy e l'idea di spogliarlo completamente del resto dei vestiti iniziava a fare il nido nella sua mente, ma c'era qualcosa che lo aveva tenuto ancorato a quel pavimento, fermandolo dal riprendere qualsiasi iniziativa e, prima che potesse rendersene conto, si ritrovò piegato in due.
Istintivamente, il proprio cervello aveva abbassato ogni barriera che lo separava da un dolore atroce che aveva preferito dimenticare; senza alcun preavviso, con la violenza di un uragano, i ricordi iniziarono ad urlargli contro, gettandosi su di lui e scavando nella sua testa con gli artigli, per aggrapparvisi ed impedirgli di dimenticare ancora.
Prima il volto di una donna. Poi la chiesa. Il matrimonio. Un nome. West?
Si gettò indietro con la schiena, incontrando la durezza del bordo del tavolo di cristallo, gemendo per il dolore e tenendosi la testa con entrambe le mani.
«Cazzo! Fatela finita!» urlò.
Ancora stordito per il piacere, Jensen abbassò lo sguardo su di lui, ritrovandolo accucciato come un animale ferito.
«Che cos'hai? Cos'è successo, Misha?»
Fece per risistemarsi i pantaloni e avvicinarsi a lui, ma l'altro scattò più velcoe, sollevandosi in piedi e guardandolo con occhi sbarrati nel terrore.
Che cos'aveva appena visto? Che cazzo c'entrava una casa in fiamme con lui?
«Devo... devo uscire di qui.»
«Cosa?»
Così, di colpo?
«Io...» traballò verso la porta d'ingresso, insicuro sulle gambe «Torno tra un po'.»
«Aspetta, ti accompagno.»
«No.» scosse il capo furiosamente, cercando di scacciar via ogni pensiero «Voglio stare da solo.»
Furono le sue ultime parole, prima di sbattersi la porta alle spalle e sparire oltre l'uscio.
Incredulo ed incapace di capire che cosa fosse appena accaduto, Jensen guardò la porta chiusa, con il respiro ancora irregolare e il cuore che gli esplodeva nel petto.
Che diavolo gli era preso?
Erano passate dodici ore.
Dodici fottute ore e di Misha nessuna traccia.
Era uscito a cercarlo, tornando al bar in cui l'aveva trovato giorni addietro e in cui il barista gli aveva rivolto una smorfia, blaterandogli di non aver visto nessuno solo dopo che gli aveva allungato una banconota da venti dollari. Stronzo, si era detto lui e aveva provato altrove, cercandolo nei pochi posti che sapeva frequentasse, ritrovandosi infine in un fottuto vicolo cieco.
Era dovuto tornare a casa con la coda tra le gambe, i sensi di colpa che si facevano sempre più pesanti e la speranza che Misha fosse già tornato e lo aspettasse lì davanti alla porta. Quando aveva affondato la mano nelle tasche del cappotto per prendere le chiavi e aveva sollevato gli occhi, si aspettava davvero di vedere Misha seduto in cima ai tre gradini davanti all'ingresso, con le braccia incrociate sulle ginocchia, il mento affondato tra queste e addosso l'aria di un bambino irritato.
Aveva sentito un dolore quasi fisico a vedere l'ingresso vuoto e scoprire che Misha non c'era, non era tornato.
Dannazione! Non avrebbe dovuto baciarlo (o farsi baciare, whatever!), non avrebbe dovuto permettergli di...
«Cazzo!»
E come se non bastasse, non aveva alcun modo per contattarlo, niente cellulare, niente numero di casa, niente di niente!
Era come cercare un fantasma, perfino contattare Castiel sarebbe stato più facile e, per qualche stupido minuto, Jensen si ritrovò davvero a pregare e supplicare un qualsiasi Dio di dargli un segno, un'illuminazione, un fottutissimo suggerimento.
Era stato allora che il cellulare aveva squillato.
Agitato e con il cuore a mille, lo aveva cercato addosso, prima di ritrovarlo nella tasca posteriore dei jeans, lo aveva guardato allucinato e intimorito, e dopo aversi dato mentalmente del coglione, aveva letto il nome sul display, rispondendo alla chiamata con tono sommesso.
«Jared?»
Dall'altra parte della linea sentì un sospiro di sollievo e si rese conto di aver notato, poco prima di rispondere, almeno una decina di messaggi che lampeggiavano sul display. Dovevano essere stati i tentativi di chiamata del ragazzo.
«Dude, si può sapere che fine avete fatto? Vi divertite a farmi preoccupare?»
Jensen scosse il capo, amareggiato e fu grato che l'amico non potesse vederlo in faccia o gli avrebbe letto negli occhi il modo in cui si sentiva in quel momento: sporco, stupido e inaffidabile.
«Scusa, ho avuto troppe cose a cui pensare e...» si vergognava ad ammetterlo e ci volle parecchio perché riuscisse a trovarne la forza. Si aggrappò al cellulare, stritolandolo tra le dita, chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e lo buttò fuori, manco fosse un dente appena estratto: «Misha se ne è andato.»
Per qualche istante ci fu solo silenzio, Jared non era sicuro di aver capito il senso della frase o il motivo del tono mesto di Jensen e che, di contro, rendeva più preoccupato lui, facendogli crescere un senso di ansia nel petto e il bisogno di vederlo di persona e assicurarsi che fosse ancora tutto intero e che ci fosse un modo per poterlo aiutare.
«Sta bene?» domandò, apprensivo.
«E' questo il punto, non lo so. E' da quando l'ho portato a casa mia che si comporta in modo strano e stamattina, non lo so, gli è scattato qualcosa e... l'ho perso.»
«Che vuol che ti sei perso Misha? Non è mica un gatto...»
«Jesus Christ! Jared, non ho la più pallida idea dove sia, ok? Fino a qualche ora fa era tranquillo qui da me e ora non c'è più!»
Un'altra pausa, più corta della precedente, per incassare il colpo e rispondere al fendente.
«D'accordo, ma non sono io che gli ho detto di andarsene.» mormorò.
«Fuck... scusa, non volevo prendermela con te, lo so che non è colpa tua.»
«Tu stai bene?»
Jensen annuì, anche se no, non stava bene, voleva solo trovare Misha, guardare ancora nei suoi occhi blu per vederci la propria immagine riflessa e un sacco di quelle fantasie romantiche che, sapeva, non avrebbe mai attuato realmente.
«Yeha, sure. Sono a casa, speravo sarebbe tornato da me ma non so neppure se si ricorda la strada.»
«Va bene, dammi una ventina di minuti, vengo da te e ci pensiamo insieme.»
«Ok, thanks.»
«E Jensen...»
«Sì?»
«Don't worry, vedrai che lo troveremo.»
Jensen sorrise contro il cellulare e, sarebbe stato difficile da spiegare, perché era una cosa che succedeva e basta, Jared lo sentì, sorrise a propria volta e istintivamente seppe che non c'era più bisogno di dire altro.
Jared aveva battuto ogni record personale, riuscendo a raggiungere l'abitazione dell'amico in venti minuti netti.
Non aveva perso tempo ad asciugarsi i capelli, bagnati dalla doccia che si era concesso prima di chiamare al telefono l'amico, e sbrigativamente li aveva legati in un codino da cui, ormai, la maggior parte era sfuggita ricadendogli disordinatamente sul volto o in onde leggere che gli solleticavano il collo.
La propria auto era rimasta parcheggiata nel vialetto di casa Ackles ed il viaggio in metro, per quanto non fosse la prima volta, non gli era mai sembrato così lungo come in quel momento. Non si era accorto neppure dei bisbigli di qualche ragazzina che lo aveva riconosciuto o della gente che lo fissava semplicemente per la sua altezza spropositata e, quando era arrivata la propria fermata, aveva rischiato di sbattere la testa contro la porta.
D'accordo, era un po' -parecchio- più alto della media, però chi costruiva sti dannati mezzi di trasporto poteva essere più carino nei suoi confronti e farli anche alla sua misura, no? E che diamine!
Gli ultimi metri che comprendevano il vialetto, li aveva fatto tutti di corsa, senza un reale motivo se non quello di arrivare il prima possibile da Jensen.
Era un pensiero stupido, considerato che non sarebbero stati quei due minuti in più a decidere della sorte di Misha Collins, ma i problemi dell'amico erano anche suoi problemi e Misha era una spina nel fianco che avevano accettato di buon grado entrambi, anche se, probabilmente, era più giusto dire che fosse stato Misha ad aver accettato loro due.
Quando bussò alla porta, gocce di sudore gli bagnavano la fronte, il giaccone era del tutto slacciato, il colletto della camicia a scacchi rossi e verdi era completamente aperto sul collo e i lembi della sciarpa penzolavano lungo il petto.
Jensen se lo ritrovò davanti ansimante.
«Non c'era bisogno di correre.» gli fece notare, portando la mano al volto.
Ci mancava solo che quel gigante gli svenisse davanti casa.
Jared scosse il capo, in una frase in codice che conoscevano solo loro e che voleva intendere di lasciar perdere. Prese qualche profonda boccata d'aria e, poggiando la mano allo stipite della porta, gli riversò addosso la propria voce, una parola dopo l'altra, senza quasi respirare.
«Stai bene? Che cos'è successo? Non vi siete picchiati, vero? Non ti ha fatto male? Non dirmi che ti ha rotto qualcosa... non dirmi che TU gli hai rotto qualcosa!»
Jensen annaspò, travolto da quel vortice di parole e sguardi preoccupati, con la bocca che si muoveva per dire qualcosa e poi si richiudeva all'arrivo di un'altra domanda e altre parole.
Alla fine non riuscì a trattenere un sorriso spontaneo, sentendo la tensione scivolargli via dalle spalle.
Gli diede una pacca contro il braccio, spostandosi di lato per lasciarlo entrare.
«Respira, buddy.» suggerì.
Jared sbuffò, storcendo il naso..
«Sto respirando.»
«A-ah, allora respira di più.»
«Allora tu inizia a raccontarmi cos'è successo.»
Non fu facile. C'erano state cose che aveva preferito tacere, altre che aveva raccontato a metà e poi c'era la storia della memoria di Misha andata a puttane, della sua personalità che giocava a nascondino con quella di Castiel, della sua proposta bocciata sulla psicologa, dell'album fotografico e, infine, il momento in cui l'uomo aveva preso e se n'era andato, senza spiegargli un cazzo, richiudendosi la porta alle spalle e addio.
Poggiato contro il bordo del tavolo della cucina, Jared lo aveva ascoltato in silenzio, annuendo di volta in volta, portandogli una mano alla spalla quando gli sembrava che si stesse per fermare e incitandolo ad andare avanti e saltare tutti i particolari che non desiderava fargli conoscere. Non voleva sforzarlo e voleva che fosse chiaro che, se mai avesse avuto bisogno di dirgli altro, avrebbe potuto farlo quando e come desiderava e lui, naturalmente, non l'avrebbe giudicato. Era difficile, in fondo, che ci fosse qualcosa in grado di cambiare l'opinione che Jared aveva di Jensen: era il suo esempio da seguire, l'uomo perfetto.
Quando aveva finito di parlare, con un peso che iniziava a frantumarsi facendogli tornare il respiro, Jensen lo guardò nella speranza che avesse la soluzione a tutto quel casino.
Non l'aveva.
Eppure gli occhi chiari di Jared splendevano di una strana calma, che era sicuro si fosse impegnato a mantenere per compensare la sua agitazione, e, poco dopo, le labbra sottili si piegarono in un sorriso malandrino.
«Ti rendi conto di aver dimenticato un particolare fondamentale in tutto questo?» domandò il più alto, stringendogli più forte la spalla, non troppo, ma abbastanza perché potesse sentirne la presa solida «Non siamo in una puntata di Supernatural.»
Jensen lo fissò stralunato, come se soltanto in quel momento riuscisse a vedere le cose come stavano effettivamente e avesse aperto solo ora gli occhi alla realtà.
«Misha è adulto e vaccinato e, a meno che non si faccia rapire dagli alieni o non finisca in qualche rissa per la sua linguaccia, vedrai che non gli succederà niente.»
C'erano volute dodici ore, dodici fottute ore di panico in cui aveva battuto la testa ovunque maledicendo se stesso e la propria inutilità per non essere stato in grado di ritrovare Misha e, in pochi minuti, Jared era riuscito a calmargli i nervi e rassicurarlo sul fatto che l'uomo non corresse alcun pericolo. Non dubitava che, con un po' più di tempo, sarebbe perfino riuscito a riportargli Misha su di un piatto d'argento, con tanto di nastrino rosso intorno al collo.
Strinse il pugno, poggiandolo contro la guancia del più alto, in un gesto che voleva essere affettuoso e di ringraziamento.
Il ragazzo gli sorrise.
«You know, I watch your back.» e fu come se gli avesse letto nel pensiero.
Parlare era stato facile, mettere in pratica il consiglio di Jared che, più o meno, si riduceva ad un "Sii paziente ed abbi fede", era risultato un po' meno facile, soprattutto se l'amico era il primo incapace di seguirlo.
«Jared, puoi smettere di camminarmi intorno, mi stai facendo venire il mal di testa!» sbottò Jensen, premendosi le tempie con le dita.
«Ma mi annoio ad aspettare...» mugugnò, picchiettando con la punta delle scarpe sportive una delle gambe del tavolo, prima di accorgersi dello sguardo esasperato con cui l'amico cercava di ridurlo ad un mucchietto di cenere «Scusa...»
Per la seconda volta nell'arco della serata, la suoneria invase la stanza con un tempismo perfetto.
I due si scambiarono uno sguardo d'intesa, prima che Jensen portasse il cellulare all'orecchio, aggrottando la fronte davanti al numero privato che compariva sul display, nascondendo il chiamante.
Dio, ti prego, fa che sia Misha. Pregò intimamente e, quando dall'altra parte della linea, la voce dell'uomo gli inondò i timpani, si lasciò cadere sulla sedia, con il cuore che aveva saltato un battito per l'emozione e tutto l'insano timore che l'aveva accompagnato fino a quel momento svanì in una bolla di sapone.
«Ehi, buddy, mi hai fatto venire un colpo quando te ne sei andato così all'improvviso.»
Era stata dolce la sua voce e con le note roche che pizzicavano le sue corde vocali, era apparsa più calda di quanto avesse voluto mostrare, come quella curva accennata che Jared gli sorprese sulle labbra. Conosceva tutti i sorrisi di Jensen e quello era un sorriso che gli aveva visto poche volte e non si stupì neppure così tanto che fosse rivolto a Misha, così come non si stupì della propria reazione, mentre si allontanava a passi silenziosi dalla cucina e li lasciava alla loro telefonata, aspettando che si concludesse per capire il da farsi.
Misha ci mise un po' per riprendere a parlare.
«Dean?» Lo chiamò. Sbagliando.
«Jensen.» lo corresse lui.
«Scusa.»
Il texano si obbligò ad ingoiare le grida di frustrazione che avevano ricominciato a risalirgli la gola.
«Dove ti sei cacciato?»
«Io...»
Misha temporeggiava, le dita strette al cellulare che lo stritolavano tanto forte da farsi male, cercando disperatamente di mantenere il contatto con la realtà, mentre lo sguardo si era fatto confuso e spaziava nel buio di una via che sapeva di dover conoscere, ma che non riconosceva affatto.
«Ehi, stai bene?»
Soltanto sentire la voce di Dean -Jensen, cazzo, Jensen...- lo rassicurava, per quanto avrebbe preferito averlo davanti, avere di nuovo il suo corpo sotto le proprie mani e le sue mani addosso, insieme alla sua bocca e al suo odore.
Inspirò a fondo, cercando di concentrarsi sul motivo per cui si era rifugiato in una cabina telefonica, tremando contro il vetro quando il mondo aveva cominciato a girargli intorno e gettando qualche moneta nel telefono, componendo il primo numero che gli era venuto in mente, sperando che fosse qualcuno di cui si ricordava.
Ed il primo numero era stato quello di Jensen. Non sapeva come, ma era sicuro di averlo imparato a memoria a furia di guardarlo sul proprio cellulare senza mai chiamarlo.
«Sì, sto benone, a parte la questione... sai, ricordi a parte. ti ho chiamato solo perché...» si fermò, imbarazzato. Spaventato, in realtà, schifosamente spaventato e non sapeva che diavolo fare, come far sparire quel terrore nero che continuava a portarsi dietro e quella sensazione d'ansia che non faceva altro che avvolgerlo tutto il giorno, fin da quando si era svegliato nel letto di una casa non sua.
C'era qualcosa che non andava nella propria testa, mancavano troppi pezzi ed aveva la sensazione di non doverli ritrovare o sarebbe stato peggio.
Prese un profondo respiro.
«Ce l'ho una casa, vero?»
La domanda fu così assurda che Jensen, inizialmente, credette di aver sentito male.
«Cosa intendi?» indagò, sperando che l'altro la cambiasse, che gli dicesse che non importava e che l'unica cosa che contava era tornare da lui.
«Una casa...» ripeté, invece, con la voce che si faceva tremante «Un appartamento, un cazzo di buco in cui tornare. Insomma... ce l'ho?»
Oh Misha...
«Dove sei?»
«...»
«Mish?»
«Io...» la pausa fu così lunga che l'altro temette di averlo perso «...non lo so.»
Jensen chiuse gli occhi, premendo con forza il telefono contro la bocca e, per un attimo, fu come se respirasse direttamente nella bocca di Misha e Misha nella sua.
«Mish...» lo chiamò di nuovo con quella ruvida dolcezza che poche volte gli aveva rivolto, quel genere di dolcezza che si usa tra amanti, che ti scalda il cuore e ti culla nelle fredde notti d'inverno «devi darmi qualche indizio o non posso raggiungerti.»
«Cazzo, Dean.»
Jensen si morse il labbro a sangue.
«Jensen...» si corresse quasi subito, dispiaciuto. Era tutto così complicato e lui si sentiva una specie di ritardato, non riusciva neppure a ricordare uno stramaledetto nome! «Non c'è bisogno che mi raggiungi, ok? Devi solo dirmi dove cazzo abito e me la cavo da solo. Non sono un coglione.»
«Lo so, man, non lo faccio perché ti reputo un coglione.»
«Allora dimmi solo...»
Jensen lo interruppe di nuovo.
«Voglio farlo perché siamo amici e tu hai bisogno d'aiuto.»
«...no, cazzo, non dire così. Mi sembra di sentir parlare di un malato mentale...»
«Mish, please.»
Fatti aiutare. Fatti aiutare. Ti prego, permettimi di aiutarti e non lasciarmi indietro a morire d'ansia per te. Non lo disse, lo pensò soltanto, lo desiderò così intensamente che il petto gli faceva male e poteva sentire il cuore sanguinare e, forse, Misha riuscì a percepirlo in qualche modo.
«Sono... vicino alla fermata di Long Beach... credo.»
«Arrivo.»