Characters: Steve Rogers; Tony Stark; Sam Wilson; James Buchanan Barnes; Peggy Carter { nominated };
Pairing: Steve/Bucky { stucky }; si farà menzione della steggy (oneside), eventuali altre coppie saranno segnalate di capitolo in capitolo.
Words: 5.344
Note: xx
Steve si è svegliato con un fischio nelle orecchie, un suono ovattato accovacciato sul ciglio dell’udito, come il ronzio in sottofondo a una radio: alle volte perde la frequenza del canale, ma per la maggior parte del tempo la musica continua a suonare senza intoppi.
Non ci ha dato bado più di tanto, perché quando qualcosa di brutto accade, non ci sono cartelli esposti, messaggi d’allerta in televisione o nuvole gonfie di pioggia all’orizzonte. Ci sono mattine iniziate come tutte le altre, in cui il massimo dell’avvisaglia è un fischio all’orecchio - devi avere il cuore cinico e l’animo superstizioso, per vederci il sibilo della vita che cerca di aprirti gli occhi al futuro.
Steve l’ha messo a tacere con una passata di cotton fioc dopo la doccia.
E ora, davanti allo specchio del bagno comune, con un asciugamano legato alla vita, tiene d’occhio Brock Rumlow e i suoi amici, fingendo un attacco di narcisismo che lo costringe a continuare a passare le dita tra i capelli umidi.
Il quarterback ha il fianco premuto alla ceramica bianca di uno dei lavandini. Sorride e non è mai un buon segno - ha sorrisi bugiardi, che profumano di miele ma al primo assaggio sanno di fiele. Non è il non saper mentire il suo problema, è il menefreghismo che ha negli occhi, quello da raccomandato con le spalle coperte qualsiasi cosa faccia.
È lui a dare inizio al dialogo: «Ehy, Rogers, ti ho visto tra gli spalti del campo, ieri.»
«Sì. Ho dato un’occhiata al vostro allenamento; niente male, se continuate così non avrete problemi a vincere l’FCS[1].»
Uno dei ragazzi ride, come se quella di Steve fosse una battuta.
«E hai anche parlato con Stark?» taglia corto Rumlow.
Steve abbandona le braccia lungo ai fianchi, si volta a fronteggiare lo sguardo del ragazzo e dei suoi compagni. Riconosce una delle riserve della squadra di football, gli altri due invece ignora chi siano, anche se è quasi sicuro facciano parte della confraternita degli Strike Squad[1] - pessima fama e orribili elementi, a respirare la loro stessa aria c’è il rischio di marcire dentro. «Se conosci Tony, sai che di solito è lui a parlare e il resto del discorso lo passa a riascoltare l’eco di quello che ha detto.»
«Che ci si può fare, il nostro capitano ha la bocca larga, ma ce ne sono pochi come lui e ci piace così, vero?»
Steve è sicuro di sentire una nota acida sulla parola “capitano”; fa finta di niente e lo guarda scambiarsi occhiate divertite con i ragazzi, che ridono e annuiscono.
«Rumlow, se hai qualcosa da chiedere fallo e basta, vorrei vestirmi.»
«Sempre così pudico.»
«Non è pudore, è che conosco la tua reputazione e quella dei tuoi compagni di merenda; se devo finire in una rissa, preferisco farlo indossando un paio di pantaloni.»
Rumlow butta fuori una risata roca, dal suono seghettato, e allarga le braccia. «Non fare il permaloso, Rogers, si sta solo parlando. Inoltre non dovresti dare retta a tutte le brutte storie che girano per il campus o c’è da pisciarsi sotto. Sai quante ce ne sono che dicono che sarei pronto a spezzarti le ginocchia, se mai dovessi entrare in squadra a fotterti il mio posto?»
Una fredda goccia solitaria percorre il collo di Steve, scivola dietro la schiena e mima la presenza di brividi che invece non ha. Stark riesce a fargli saltare i nervi, Peggy Carter riesce a fargli sudare le mani, Winter riesce a farlo fremere… per Rumlow non c’è altro se non uno sbuffo vagamente scocciato e una forte dose di pena. «Risparmia le minacce. Se fossi interessato a entrare in squadra, a quest’ora mi troveresti al campo, in allenamento e con già indosso la tua divisa.»
Rumlow stacca il fianco dal lavandino e serra la mano al bordo. Ha le nocche sbiancate e sul dorso il reticolo di vene si gonfia rigando di blu la pelle chiara.
Steve controlla il nodo dell’asciugamano. Non reggerà e se dovessero attaccarlo tutti insieme, si ritroverà solo contro tre. Ruota il capo, sciogliendo i muscoli delle spalle. Dalla sua sinistra, vicino alle docce, arriva il grugnito di uno dei ragazzi e un passo pesante, ma quando il quarterback scoppia a ridere, quello si ferma e nel bagno esplodono risa sguaiate a denti scoperti. Non c’è alcuna allegria, è il suono di squali a corto d’ossigeno che azzannano l’aria e rimpiangono il mare.
«Vedi, Rogers? È per questo che ti rispetto, perché dietro a quella faccia d’angelo c’è uno stronzo belligerante.»
Steve affila l’occhiata; faccia d’angelo o meno, non è un idiota e quello di Rumlow non è rispetto. È codardia e del peggior tipo.
«Come ti pare. Ora se mi lasciaste vestire…» pronuncia e fa cenno col mento, un’indicazione secca, non una minaccia, ma la gentile concessione di sapere che la sua pazienza si sta sfilacciando.
Rumlow sostiene lo sguardo per un po’, ma è il primo a distoglierlo - già lo sapeva, i bulli hanno vita breve con Rogers. «Massì, ce ne andiamo, non vogliamo mica che tu faccia tardi alle tue lezioni.»
«Grazie per il pensiero.»
«Grazie a te per la chiacchierata, Rogers. Dovremmo farlo più spesso.»
«Se è proprio necessario.» Lo sguardo di sfida trapassa le teste dei tre ragazzi. «Solo un consiglio: che mi affronti da solo o con l’intera squadra degli Strike, le mie risposte non cambieranno. E la prossima volta potrei non reagire bene, se messo all’angolo.»
Rumlow sforza la risata, ma è l’unico a farlo tra i ragazzi; gli altri grugniscono un mezzo insulto, e visibilmente irritati, escono calciando la porta con troppa forza.
Steve li segue con lo sguardo finché non spariscono tutti sul corridoio. Quando la porta si richiude sbattendo, inizia a vestirsi.
- - -
L’incontro con Rumlow gli ha fatto perdere tempo. Sperava di averne abbastanza per scaldare l’acqua nel bollitore e buttare in tazza un caffè solubile, ma una volta in stanza, scopre che è più tardi di quanto non pensasse.
Ha tempo per un messaggio a sua madre - ora che è tornato di nuovo padrone del proprio cellulare - e per addentare al volo una fetta biscottata spalmata di marmellata d’albicocche, mentre infila entrambe le spalline dello zaino e si accerta che la lunghezza sia adeguata. Tony ci ha provato a renderlo più figo (“Vuoi dire che devo spiegarti perfino le basi dell’evoluzione, Rogers? Homo erectus, Neandertal, Homo sapiens, Homo sfigato, Homo con lo zaino su una spalla!”), non ha attecchito - e ad essere pignoli, non c’è scritto da nessuna parte che per essere figo devi farti a pezzi la colonna vertebrale.
Ha lezione nel pomeriggio; ma ha preso appuntamento con il suo gruppo studio, e dato che l’ala del dormitorio in cui alloggia è la più vicina al dipartimento di Lettere e Filosofia, tocca a lui arrivare presto e prenotare la tavolata migliore della sala studi.
I corridoi sono ancora silenziosi a quell’ora del mattino. I professori vagano come spettri sonnambuli in giacca e cravatta, trascinando cartelle di pelle sotto il braccio, gazzette sportive, quotidiani e immense tazze di caffè. Il chiacchiericcio dei ragazzi si ferma fuori, facendo tappa in cortile, davanti a un pacchetto di sigarette condivise.
Steve conosce a menadito l’edificio e il percorso che porta alla sala studi; non ha bisogno di guardare dove mette i piedi quando lo starTac vibra annunciando l’arrivo di un messaggio.
Non si tratta di sua madre - conoscendola leggerà il suo buongiorno più tardi in ospedale; non importa quanto lui, medici e infermieri le abbiano detto di rallentare, sua madre ha una volontà diamantina, la forza di un panzer e la testardaggine… beh, quella è di famiglia.
Accanto alla scritta mittente legge il nome “Shuri”. Di solito è Sam a fargli compagnia durante lo studio, ma visto l’esame di Informatica alle porte, hanno chiesto aiuto alla ragazzina prodigio arrivata col programma di scambio interculturale tra la Columbia e la Wakanda University di Città del Capo.
Non hanno nemmeno preso in considerazione l’eventualità di chiedere a Tony.
Visualizza il messaggio, qualcosa sul non lasciarsi sfuggire il tavolo centrale, unico punto della sala studi in cui il wifi funzioni senza essere costretti a rimanere in piedi, su una gamba sola, col pc sollevato in segno d’offerta al cielo e un braccio puntato verso la Mecca.
Difendilo con la tua vita, soldato! È l’ordine finale.
Steve annuisce, addenta con un altro morso la fetta biscottata che pare non aver fine - perché è lento a messaggiare e Shuri lo ha tenuto occupato per tutto il percorso - e digita un sintetico “Sissignora!”.
Prima di far scivolare il cellulare in tasca, si assicura per l’ultima volta che sia impostato in vibrazione. Non ci metterebbe la mano sul fuoco, ma teme che Tony lo abbia manomesso nelle ore in cui l’ha avuto in ostaggio; conoscendolo potrebbe essersene uscito con qualche pittoresca trovata, tipo sintonizzare la sveglia al canale Radio Maria per far partire la messa nel bel mezzo di una delle sue lezioni.
Rabbrividisce al solo pensiero. Se mai dovesse accadere, giura che lo prenderà a calci talmente forte che gli insegnerà a volare.
Un altro morso alla fetta biscottata e con la mano libera raggiunge la porta della sala studi.
Dall’altra parte qualcuno lo precede: abbassano la maniglia, sbottano qualcosa a cui l’accento inglese regala un tono sofisticato e la porta finisce quasi a sbattere contro il suo naso. I riflessi intervengono prima, tira indietro la testa e incurva la schiena; la porta colpisce solo la mano, ma il disastro è inevitabile: tra libri e quaderni caduti dalle braccia della giovane all’ingresso della sala, prende il volo anche quel che rimaneva della già carente colazione di Steve.
«Maledizione!» sibila lei.
A Steve basta un istante per riconoscerla.
Peggy Carter ha piccole spalle dritte, sfiorate da morbide onde castane e infilate nella giacca di un tailler blu; ha il portamento severo e l’aura sensuale della donna inaccessibile che domanda impegno e devozione per essere scoperta. Ma sono gli occhi nocciola ed intensi, la venatura di silenziosa sensibilità che irradia la pupilla, a dire che Dio!, se ne vale la pena!
Steve sbatte le palpebre. Maschera il contatto visivo per un secondo, uno solo, per riuscire a ricordare la pronuncia dell’alfabeto inglese e mettere insieme due parole: «Miss Carter.»
Fin qui, tutto bene.
Peggy annuisce, gli occhi ancora bassi al pavimento, ma il tono le esce spiccio. «Scusami, andavo di fretta.»
Steve scuote il capo e ricorda quanto gli ha detto Winter. Sorride quando la voce del centralinista si affaccia alla propria mente e con una sicurezza seduttrice lo rassicura che parlare con una donna è semplice.
E allora parla: «No, figurati, non c’è nessun problema. Anzi, scusami tu per…»
E avrebbe fatto meglio a tacere.
Peggy solleva il capo lentamente - l’ombra di un sorriso a fare capolino dagli angoli della bocca, come spiragli di sole in un cielo fosco che subito vengono coperti dalle nuvole. «Per cosa? Per aver ricevuto una porta in faccia? O per aver perso quella che spero non fosse la tua colazione?»
Steve solleva le braccia, ma le riabbassa subito, impacciato. «È troppo tardi per rimangiarmi le mie scuse e fingere che io non abbia detto niente, vero?»
Lei annuisce. «Assolutamente, sembreresti un cafone e i cafoni non piacciono a nessuno, di certo non a noi inglesi.»
«Quindi meglio sembrare stupido?»
«Puoi sempre puntare sulla tenerezza dell’imbranato.»
Steve arriccia il naso e sa di aver appena perso tutti i punti possibili sulla scala “uomini dei miei sogni” della Carter. Da qualche parte tra il petto e lo stomaco, però, si fa strada la soddisfazione di essere riuscito a scambiare con lei ben più del solito sfuggente Buongiorno.
E poi, ora che ha toccato il fondo, può solo risalire.
Si china, notando come lei stia per fare lo stesso per raccogliere i libri caduti in terra. «Lascia, li raccolgo io; la spunta sulla casella ragazzo cortese, almeno, puoi ancora metterla.»
Peggy schiude le labbra e rilascia un suono soffice, uno sbuffo leggero che, per un inglese è praticamente l’equivalente di una grassa risata.
Lo lascia fare e lui recupera un libro di Sociologia Avanzata, un quaderno degli appunti dalla copertina sobria e monocolore e una vecchia edizione di 1984 dalle pagine ingiallite. È quest’ultimo libro a farlo sorridere. A casa, infilato da qualche parte nella libreria del salotto, possiede un’edizione altrettanto vecchia, che ha letto e riletto fin quasi a consumarlo - ricorda pagine ruvide tra le dita di un se stesso ragazzino, note a margine sui passi di cui ha chiesto spiegazioni a sua madre perché ancora troppo piccolo per capire certi concetti e la copertina rivestita di carta decorata. [3]
Si rialza, consegnandole libri e quaderni. «Ecco qui.»
«Grazie. Allora è vero che la cavalleria non è morta.»
«Ci crederesti se ti dicessi che faccio parte di un esperimento segreto per riportarla in auge?»
Peggy porta una mano davanti alla bocca, nasconde la risata - la grazia del gesto a smussare la severità del portamento. «E un nome ce l’hai o devo chiamarti Sir Lancelot?»
Steve sorride. «Mi chiamo Ste -»
Note energiche e violini che si rincorrono, La Serenissima[4] si anima sulla voce di Steve. Dalla tasca, il cellulare grida richiamandone l’attenzione e le orecchie tornano a fischiare.
Porta la mano alla tasca, lo estrae.
Ha impostato due soli numeri con la suoneria, ma quando apre lo starTac per accettare la chiamata, non guarda di quale dei due si tratta.
«Steve Rogers?»
Il fischio all’orecchio si fa più acuto, riesce a malapena a riconoscere il proprio nome.
«Sì, chi parla?»
«La chiamo per conto del Brooklyn Hospital Center, sua madre ha avuto una ricaduta.»
Il fischio esplode, è l’ululato assordante di una sirena accesa nel cervello.
Merda.
Merda.
Merda.
«Arrivo subito.»
- - -
Steve ha l’impressione di aver passato l’intera giornata sulle montagne russe di Coney Island, a fare su e giù in un carrello sgangherato che gli ha dato il voltastomaco.
Le ore sono trascorse senza che lui riuscisse a tenere il conto.
Non ricorda l’ultima volta che ha mangiato; a un certo punto una delle infermiere gli ha piazzato sotto al naso un vassoio e del cibo e lui si è ritrovato automaticamente a infilare forchettate di carne e purè freddo in bocca.
Sono tornati nel loro appartamento di Brooklyn in taxi. Per tutto il viaggio ha tenuto il braccio intorno alle spalle di sua madre e ha cercato con tutto se stesso di non dare peso al pallore del suo volto o a quanto piccola e sottile sembrasse. Ci ha provato e ha fallito. Perfino quando lei, per la centesima volta da che si è precipitato in ospedale, gli ripete che ora sta bene e non deve preoccuparsi.
«Certo che mi preoccupo, ma’.» le dice una volta a casa, nella sua stanza da letto, mentre le rimbocca le coperte e insegue la punta delle sue dita. Le stringe piano; gli sembrano così fragili che ha paura di spezzarle. «Avresti dovuto dirmelo che avevi anticipato la visita, ti avrei accompagnato.»
Sua madre scuote lentamente il capo, i capelli biondi sparpagliati sul cuscino. Nonostante la stanchezza si rivolge ha la stessa voce decisa di quando gli ha detto che sarebbe andato all’università e che non c’era nulla da discutere. La stessa voce decisa di quando, dieci anni prima, gli ha detto che suo padre non sarebbe più tornato, ma che tutto sarebbe andato bene, perché lei non sarebbe andata da nessuna parte. «Sciocchezze. Sei all’università adesso e devi pensare alla tua vita, questa doveva essere solo una visita di routine.»
Ma così non è stato. Steve non trova la forza di dirglielo, ma a sua madre basta guardarlo negli occhi per sapere cosa pensa.
«Oh bambino, non volevo farti preoccupare, vorrei solo che fossi felice e che pensassi al tuo futuro, lo sai.»
Steve indurisce lo sguardo e ignora il bruciore agli occhi. «Non sono più un bambino. Se qualcosa non va, ho il diritto di saperlo. Se vuoi farmi felice, devi permettermi di prendermi cura di te.»
La donna appoggia a fatica la mano alla sua guancia - la carezza debole e fredda come il tocco di un fantasma. «Cosa ho fatto per meritarmi un figlio così?»
Steve le sorride. «Lo hai cresciuto come si deve, ecco cos’hai fatto. E ora riposa un po’, è stata una giornata lunga. Se hai bisogno basta che mi chiami, sono nella camera accanto. Domani mattina passerà anche l’infermiera Jones a controllare come stai.»
«Bene, ma non voglio che tu perda altri giorni di scuola.»
«Non preoccuparti di questo, ora.»
«Non smetterò mai di preoccuparmi per te, Steve.»
Steve la bacia in fronte. Indietreggia senza voltarsi, fermandosi a lungo sulla porta prima di uscire, come se perderla di vista potesse farla ammalare più di così.
- - -
Il resto è confuso.
Ci sono SMS di Sam e Shuri. C’è lui che risponde di aver avuto un’emergenza. C’è Sam che si propone di prendere appunti anche per lui. Ed è come se il corpo in cui se ne sta seduto sul letto della stanza non gli appartenesse più. È come se avessero aperto uno sportello dietro la schiena, lo avessero scaraventato lì dentro e si fossero dimenticati di dargli l’accesso ai comandi, lasciando invece il pilota automatico.
Finché non guarda l’orologio appeso al muro e una scintilla risveglia ogni sua funzione.
Oh no.
Non ci ha pensato finora, ha parlato con tante di quelle persone tra medici, infermieri e farmacisti, che l’ha dimenticato.
Winter.
Doveva essere l’ultima serata - “stessa ora domani?”, ma ormai è tardi.
Non può credere di essersene davvero dimenticato.
Scava nello zaino con una frenesia che non saprebbe dire da dove nasca, tira fuori il cellulare di Stark e fissa stupidamente il display vuoto, come se una linea erotica si preoccupassi di inviare SMS per chiedergli che fine abbia fatto.
Il turno di Winter deve essere ormai terminato da un pezzo, quando avvia la chiamata, ma non ha nulla da perdere.
Riconosce il jingle d’attesa e la voce registrata che con noncuranza lo avvisa di aver raggiunto la linea erotica Hail Hydra, avvertendolo che a breve verrà messo in contatto con uno dei loro operatori.
È la prima volta che Steve si sofferma a pensare a quanto lunga sia l’introduzione e alla freddezza apatica della voce quando gli illustra la tariffa - se la prima volta fosse riuscito ad ascoltarla, avrebbe riattaccato all’istante.
Ora, invece, prega che il centralinista gli risponda.
«Ciao, sono Cupcake, come posso darti piacere, bellezza?»
«Cosa? Cioè… ciao. Cercavo… cercavo Winter.» Vorrebbe avere un nome vero da pronunciare, uno che gli suoni solido, reale, non come il nome inventato di una voce al telefono. O di un amico immaginario…
«Winter non c’è, tesoro, ma se vuoi posso farti compagnia io. Raccontami le tue fantasie e ti farò volare. Ti piace fartelo succhiare?»
…cazzo.
- - -
È notte fonda e Steve dovrebbe dormire.
Ha addosso una maglia blu come pigiama, stampata sul petto una bandiera americana e a fasciare le gambe lunghe una vecchia tuta dall’elastico in vita talmente allentato, che è un bene sia sdraiato a letto, o li avrebbe già persi.
La maggior parte dei suoi abiti sono in dormitorio.
A occhi chiusi cerca di convincere il sonno ad accoglierlo tra le sue braccia, ma il silenzio sul corridoio gli dà il tormento e si ritrova continuamente a tendere le orecchie per riuscire a riconoscere il respiro di sua madre a una porta di distanza.
È lento. Regolare.
Il peggio è passato, gli hanno detto i dottori, eppure non riesce a darsi pace.
«Dormi, dannazione…» bisbiglia. È a un passo dal cominciare a contare le fottute pecore, quando da dietro le palpebre riesce a vedere accendersi il riquadro di una luce azzurrina. Indovina che si tratti del cellulare di Stark - ma non ha mai ricevuto una chiamata, e come al solito, ha sottovalutato l’imbecillità dell’amico.
In piena notte, in una stanza che ha pareti di cartapesta, le Spice Girl schiamazzano in concerto.
Yo, I'll tell you what I want, what I really, really want
So tell me what you want, what you really, really want
I wanna, I wanna, I wanna really really, really wanna zigazig ha[5]
Steve non ha nemmeno la forza di arrabbiarsi.
Afferra il cellulare dal comodino, occhieggia il numero sconosciuto sul display e lo porta all’orecchio.
«Chi è?» chiede freddamente. Lo hanno chiamato di notte, e anche se tecnicamente non dormiva, non ha alcuna intenzione di essere gentile o mostrare la fottuta altra guancia. Quello che mostrerà, al massimo, sarà un po’ di educazione a chiunque abbia-
«Sono Vivian.»
Oh.
L’ha sentita, l’ha sentita eccome: una mano enorme e gentile si è posata su di lui, lo ha sollevato a sedere, gli ha accarezzato una guancia e si è posata al suo petto, affondando tra la carne e le ossa, per strappargli via ogni stilla d’ansia.
«Winter…» è un saluto, un sospiro, un singulto.
Il fischio acuto, che ha spezzato le orecchie di Steve fino a quel momento, sparisce, ingoiato dal sorriso di Winter. Glielo sente nascere addosso, sente il rumore di ogni piega della bocca, della lingua che la umetta, delle fossette alle guance che si fanno più pronunciate.
«Non stavi esagerando, sai davvero riconoscere la mia voce.»
Scuote si stringe nelle spalle. «Non è difficile se ti presenti con quel nome.»
«Ti disturbo?»
«No, ma credevo… ti ho chiamato, ma era tardi e pensavo fosse ormai finito il tuo turno.»
«Infatti, questo è il numero del mio cellulare privato. Ti sto chiamando da casa.»
«Da casa?»
Ora che ci pensa, ci sono rumori di una strada in sottofondo: grida lontane, la canzone di un ubriaco e il clacson insistente di un’auto. Rabbrividisce quando riconosce la sirena di un’ambulanza fuggire via, ingoiata dalla notte.
«Già…» Winter ha una voce strana, colpevole. «Ipoteticamente: se un centralinista bello, diciamo, quasi come Bon Jovi, avesse dovuto cambiare turno all’ultimo minuto e sapendo di essersi perso una chiamata importante, avesse chiesto a uno dei ragazzi dell’IT di ritrovare un certo numero tra le chiamate entranti. E sempre questo affascinante centralinista avesse ignorato la privacy del suo cliente preferito, per poterlo chiamare da casa e chiedergli umilmente perdono… tu cosa faresti?»
«Ipoteticamente?»
«Ipoteticamente.»
«Gli direi che dovrebbe scegliere tra Russel Crowe o Bon Jovi, non è umanamente possibile somigliare ad entrambi.»
Winter ride e il carrello delle montagne russe che ha tenuto ostaggio lo stomaco di Steve fino a questo momento, finalmente si ferma e lo lascia libero di scendere.
«Piuttosto, devo preoccuparmi?» gli chiede il centralinista «Non ti ci vedo a far tardi a un appuntamento, per quanto telefonico sia. È successo qualcosa?»
Steve non sa cosa rispondere. Le labbra rimangono sigillate e lo sguardo punta nel buio davanti a sé. Dovrebbe esserci un comodino, una libreria, una copia alla parete della serigrafia delle Marilyn di Andy Warrhol; invece ci trova solo un buco nero che risucchia qualsiasi cosa.
Si costringe a mettere a fuoco lo spiraglio socchiuso della porta e tutto torna come prima.
«Ho parlato con Peggy oggi.»
Dal tempo che ci vuole a Winter per capire la frase, Steve deduce che non è quello che si aspettava.
Per un attimo i rumori dall’altra parte della linea vengono soffocati, come se il ragazzo avesse messo la mano davanti al microfono. Nel momento in cui la toglie, Steve riesce a distinguere il rumore di passi lenti e, crede, vagamente strascicati.
Infine, con uno sbuffo, Winter si lascia cadere seduto da qualche parte, e riprende a parlare.
«La tirocinante bella e intelligente, che potrebbe fermare la rotazione terrestre con il solo sorriso?»
«Come fai a sapere del suo sorriso?»
«Non te l’ho detto? Per arrotondare nei giorni dispari faccio il sensitivo e leggo i tarocchi alle coppiette innamorate.»
Normalmente Steve avrebbe riso, ma oggi è grato che la conversazione sia al telefono e Winter non possa vedere la linea piatta delle sue labbra o il suo sguardo vacuo. Gli fa male la testa e tutto gli arriva a rallentatore.
«Le hai chiesto di uscire insieme?»
Steve esita. «Non devi staccare?»
«No, te l’ho detto, ti sto chiamando da casa, posso rimanere quanto mi pare. Sempre se ti va di stare al telefono a quest’ora improbabile. Scusa.»
«Certo che mi va, pensavo solo che forse dovrei chiamarti io…»
«Tranquillo, questa chiamata la offre la casa. Tu pensa a parlarmi della Carter. O di altro, se preferisci.»
«Sei sicuro, non vorrei-»
«Stevie, ho infranto la legge per te! Ormai sono diventato un criminale agli occhi dello stato, dammi un po’ di credito.»
Steve si spinge con la schiena contro la testiera del letto e si aggrappa al cellulare con entrambe le mani. Anche se minuscolo, c’è un sorriso che gli spiegazza malapena le labbra, gli tira la pelle come se i muscoli del volto fossero rimasti inutilizzati per secoli.
Appoggia la nuca al muro, guardando un soffitto nero come tutto il resto e gli racconta di Peggy, del loro incontro e del libro che ha raccolto per lei.
«È quello distopico, vero? Con le tre potenze totalitarie e il Grande Fratello. L’ho letto anche io. Non certo tra le letture più allegre che mi siano capitate. Al posto di quel tale… Winston, probabilmente avrei ceduto molto prima.»
Il cuore di Steve fa una capriola nel petto, prima di tornare a riposo. Per un attimo lo sguardo lucido di sonno si rianima, solo perché con Winter condivide una lettura di chissà quanti anni fa e perché, in qualche modo, lo fa sentire più vicino a lui.
«Se fosse accaduto ti avrei riportato indietro.» è poco più di un pensiero il suo; Winter non può sentirlo.
Lasciano entrambi passare qualche lungo secondo di silenzio.
Steve contempla lo spiraglio della porta.
Il respiro di Winter si trasforma in un sospiro lungo che svuota i polmoni d’ossigeno.
«Ora puoi dirmi cos’è successo?» domanda piano il centralinista, il tono dolciastro e preoccupato e Steve capisce che la regola del “bene, grazie” non vale nemmeno lui. Non l’ha chiesto tanto per dire.
«Mia madre è malata.»
«Cazzo... È grave?»
«È cancro.» quindi no, non è grave, è peggio.
«Oh Steve, mi dispiace, sul serio. Quando l’avete scoperto?»
«Un paio d’anni fa, ma pensavamo che il peggio fosse passato. Stava entrando in remissione… invece stamattina… per ora sta… sta bene, per quanto possibile, penso si sia sentita sopraffatta dalla notizia ed è svenuta in ospedale.»
«È comprensibile, non dev’essere stato facile. E tu, come stai?»
«Io non c’ero.»
Steve ansima senza fiato. Gli sembra che la stanza si stia riempiendo d’acqua.
O forse è che ha finalmente chiamato per nome lo spauracchio che lo tormenta da quando si è trasferito in università.
«L’avrei dovuta accompagnare tra due settimane, ne sono sicuro perché ci teneva che fosse dopo l’esame di Informatica.»
Deglutisce, anche se ha la bocca secca e gli sembra di mandar giù sabbia. È la prima volta che ne parla con qualcuno che non sia un dottore o una collega di sua madre e anche allora, preferisce ascoltare e annuire, sapere come può essere utile, cosa può fare, come può combattere il senso di impotenza e la paura atavica di non aver fatto nulla per lei, di averla lasciata morire…
È la prima volta, e anche se vorrebbe tacere e tornare ad affossare ogni preoccupazione, non riesce a smettere di aprirsi con Winter e pregare che lui capisca.
Non ha bisogno d’altro: solo che capisca.
«Quando le è stato diagnosticato la prima volta, andavo ancora alle superiori. Dopo il diploma pensavo di mollare gli studi e trovarmi un lavoro, ma… beh, mia madre sa essere caparbia e terrificante al tempo stesso. Mi ha minacciato di diseredarmi se non mi fossi iscritto all’università.» Tenta una risata, ma esce un suono irriconoscibile, che s’infrange quasi subito. «Ma quando ho ottenuto la borsa di studio alla Columbia… mi sono sentito perso. Era tutto quello che avevo sempre voluto, nel momento peggiore possibile. E così ogni volta che sono in uni non faccio altro che pensare che non ho tempo da perdere, che non posso permettermi di mandare a puttane quest’occasione. Devo studiare. Devo passare gli esami. Devo mettere da parte i soldi per le cure di ma’. Devo laurearmi il prima possibile. Devo…»
«Steve…»
No. No. Non c’è tempo.
Steve scuote il capo, lo ignora e continua a parlare, mentre il muro dietro la testa gli graffia la cute.
Deve…
«Fermati. Fermati e basta.» Winter ha abbassato la voce, eppure il suo sussurro è ciò che di più intenso riesce a percepire ora Steve; c’è una dolcezza infinita mentre gli parla e gli chiede di fermarsi. Di fermarsi e basta. «Cosa credi accadrà se ti prendi una pausa e ti fermi un attimo?»
«Lo… lo sai.»
«No, invece.»
Winter sospira e Steve è sicuro abbia reclinato il capo. Gli arriva come una sensazione calda, come se riuscisse a percepire la sua fronte premuta alla propria e il suo sguardo puntare non lui, ma la propria anima, per tendere le braccia e tirarla fuori da quel pantano di sensi di colpa e doveri in cui l’ha gettata.
«Ti prometto, Steve, che non succederà nulla di male.»
Non dovrebbe essere possibile, eppure è la cosa più bella che gli abbiano mai detto in diciannove anni.
«Ti fidi di me?»
«Sì.»
«Allora chiudi gli occhi e ascolta la mia voce.»
Ed è vero che si fida. Anche se non conosce il suo vero nome, il suo volto, il suo passato, i suoi interessi… non sa niente di Winter, se non che non può fare a meno di fidarsi.
Quindi chiude gli occhi e ascolta la sua voce.
«Bene. Ora: respira.»
È tutto qui, così ridicolmente semplice.
Steve si sdraia tra le lenzuola, bloccando il cellulare all’orecchio col peso della mano.
Inspira e l’ossigeno scende in gola, gli gonfia il petto e i polmoni.
Espira e l’acqua nella stanza si ritira.
Inspira e il buio si attenua, i mobili si contornano bagnati di flebile luce lunare.
Espira e il mondo intorno a lui non è crollato.
«Bravo, così.»
Sdraiato sul fianco, Steve ha l’impressione di sentire il fiato di Winter che dall’orecchio scivola sul collo, sente le sue braccia circondarlo da dietro e il suo petto farsi spazio contro la schiena.
Winter respira e Steve con lui[6].
«Va meglio?»
«Un po’. Grazie.»
«Di niente.» c’è un fruscio, forse è la testa di Winter che si muove sul cuscino e a Steve piace pensare che siano davvero nella stessa posizione. «Puoi chiamarmi a questo numero, ok? Ogni volta che avrai bisogno di qualcuno che ti insegni di nuovo a respirare. O che ti faccia commuovere per la bellezza ultraterrena della sua voce.»
«Cretino.» Steve ride piano e questa volta si riconosce nella risata.
«O perché vuoi parlare e basta, di qualsiasi cosa, anche della Carter se ti pare.»
È la stanchezza a fargli leggere male il tono di Winter quando nomina la Carter come se gli costasse fatica, è l’ingenuità a fargli pensare che forse non voglia che gli parli di lei perché la sente come un’intrusa nel loro rapporto, è la gratitudine a fargli pensare che quando è al telefono con Winter, il resto si annulla, perfino il sorriso dipinto di rosso di Peggy Carter.
«Vale anche il contrario.» Stringe le dita intorno al cellulare di Stark e ricorda che non è esatto. «O varrà domani, quando ti avrò mandato un messaggio col numero del mio cellulare.»
Eppure non si salutano, non ancora.
Winter riprende a parlare sottovoce; gli racconta i passaggi del libro che gli sono piaciuti di più e quelli che lo hanno fatto rabbrividire; gli racconta di come sia diventato un fuorilegge (ridacchiano entrambi) molto prima di questa telefonata, quando la biblioteca comunale lo ha bandito per essersi dimenticato di restituire dei libri. Non smette di parlare nemmeno quando gli sbadigli di Steve divengono troppo forti per essere ignorati; continua, come se sapesse di essere la cura a ogni suo male, finché la sua voce non è che uno scampanellio argentato oltre la coltre del sonno.
E forse, poco prima di addormentarsi, Steve se l’è solo immaginata la sua ultima frase.
Buonanotte, Steve. Ci incontreremo là, dove non c'è tenebra.[7]
[1] NCAA Division I Football Championship Subdivision, campionato di football in cui competono le squadre universitarie.
[2] Non so bene chi decida il nome delle confraternite e a dire la verità fino all’altro ieri ero convinta si chiamassero tutte Alpha, Theta, Beta e lettere greche a caso. Ma visto che ho scoperto non essere così, diamo tutti il benvenuto all’ennesima reference a CA:TWS!
[3] Forse solo i più vecchietti lo sapranno. È una cosa che andava di moda probabilmente prima degli anni ’90, per allungare la vita dei libri ed evitare che le copertine si rovinassero.
[4] Rondò Veneziano - La serenissima [
https://www.youtube.com/watch?v=-RQLaW5IlcU ]
[5] Spice Girls - Wannabe [
https://www.youtube.com/watch?v=fw-QRyQcFH8 ]
[6] Lo so, perfino con post-siero!Steve trovo la scusa per infilarci Buck che respira insieme a lui. Ormai lo infilo in una fic sì e nell’altra pure XD
[7] Citazione dal libro 1984 di George Orwell. Il titolo del capitolo è la stessa citazione, solo nella lingua originale.