Characters: Steve Rogers; Bucky Barnes;
Pairing: Steve/Bucky { stucky }; Steve/Bucky/Steve;
Words: 4.110
Warning: slash; what if; canon divergence; fix-it fic; threesome;
Note: Fuu e gli esperimenti. Non ho assolutamente idea di come ci sono arrivata a scrivere questa cosa, credo sia il mio solito bisogno di TFA e preTFA!Bucky unito ad una forte dose di whatthefuck?.
Nasceva come raccolta di drabble per la Christmas Run di Piume d'ottone, per concentrare in quattro o cinque drabble diversi momenti del passato, peccato poi che abbia preso una piega diversa e per la challenge non ho mai fatto in tempo. La divisione in frammenti è rimasta, perché più che una one shot è un insieme di scatti più o meno ravvicinati che raccontano una storia, senza davvero considerare tutti i possibili dettagli e risvolti. Questo perché la storia non è su Steve che sbaglia uscita nella tangenziale della linea temporale (?) e deve ritrovare il modo per riunirsi col resto degli Avengers, ma è la storia di come ritrova Bucky e, soprattutto, se stesso.
Credo che ad un certo punto sia chiaro, ma la fic si ambienta subito dopo la scena in cui 2023!Steve e 2023!Tony decidono di fare tappa nel 1970 per recuperare altre particelle Pym - un colpo a caso sparato da un chitauro a caso durante l'attivazione del salto temporale fa sballare il settaggio di Steve e voilà, eccoci nel 1936 con un Bucky 19enne e uno Stevie 18enne.
Visto che non è la prima fix-it fic di Endgame che ho scritto (e teoricamente nemmeno la seconda o la terza XD) ho deciso di inserirle in una serie ad esse dedicate. Oh e se c'è una cosa che è sicura come la morte è che, prima o poi, scriverò di nuovo su 2023!Steve (o IW!Steve, pure meglio) e young!Bucky, TFA o prima, who cares. E ci saranno palate di p0rn - perché sì.
I | L’uomo cacciato dal tempo
È l’inverno del ‘36 quando Bucky lo trova. Il freddo ha zanne aguzze quell’anno e la strada da percorrere è ancora lunga.
Lui è un cane abbandonato sul ciglio, sporco di neve e ubriaco di tempo.
«Che… anno è?»
L’ha visto alzarsi e traballare. Una torre storta, un pilastro di marmo e muscoli strizzato in una tuta ridicola, in grado appena di mettere una gamba avanti all’altra.
A colpirlo sono stati i capelli biondi, due fanali come occhi e ciglia lunghe su cui gli unici fiocchi bianchi di tutta New York s’adagiano danzando. All’improvviso non sembra più un povero bastardo rifiutato da Dio e scaricato in un vicolo, ma un dio affiorato dall’inverno.
Ha vinto la fisica, ricorda ancora come stare in piedi - più guarda Bucky, anzi, più le gambe si muovono con un proposito.
«Finalmente…»
Mani pesanti gli strizzano le spalle e Bucky non osa muoversi.
«Ti ho ritrovato.»
*
Gocce sciolte di neve imperlano la fronte ghiacciata dello sconosciuto.
Bucky credeva sarebbe stato investito da un tanfo che ben conosce - alcol, sudore e l’odore di suo padre quando rincasa tardi solo per far assaggiare la cintura ai suoi figli. Invece l’uomo odora di fresco e di buono e di…
No!
Grugnisce un insulto, solleva le braccia e spintona le spalle sconosciute, anche se è come prendersela con un muro: non c’è mattone che si smuova.
«Hai intenzione di levarti o…»
O.
L’uomo stringe (non fa male, ma c’è un intero treno carico di disperazione che deraglia addosso a Bucky e lui, semplicemente, non è preparato), lo guarda - bagnato di neve e ammantato di notte - e, rispondendo a un richiamo dipinto sulla bocca di un ragazzo appena incontrato, lo bacia.
L’incastro delle labbra è perfetto.
Il gancio sinistro che gli tira senza pensarci due volte, fa più male a Bucky.
*
«Scusa.»
«No.»
Bucky è davanti - passo spedito, dita strette nella gemella e fiato corto. Vorrebbe seminarlo, ma non ha gambe abbastanza lunghe.
L’altro gli è dietro, un cane fedele a protezione del padrone. Tende un braccio, gli sfiora il polso, ma Bucky strattona e prosegue - e strizza via l’imbarazzo come acqua da una spugna.
«Fa ancora male?»
«Tu cosa credi?» Bucky accelera il passo. Scappa.
Alle proprie spalle non s’aspetta il tonfo.
Si volta e spalanca uno sguardo d’apprensione - nasce naturale, come fosse abituato da sempre a preoccuparsi di quell’uomo.
( forse è così )
«Per l’amor di Dio, Steve, a che ti serve un corpo nuovo se poi lo maltratti peggio del vecchio?»
«Q-quindi mi credi?»
«Nessuno sano di mente inventerebbe una tale idiozia. E poi… potrei riconoscerti perfino se fossi nel corpo di un San Bernardo.»
«Allora perché sei scappato?»
Bucky china il capo, nuovo a certi imbarazzi.
Sulle labbra è rimasto il sapore di un bacio rubato.
*
«Ce la fai ad alzarti?»
Nella neve le impronte di Bucky si muovono in due direzioni: torna accanto a Steve, s’inginocchia e stringe il bavero della sua tuta.
A Nessuno dei due è stato permesso d’assistere all’Allunaggio[1], e ora eccomi qui: un astronauta sbarcato dal futuro che ha finalmente raggiunto la sua Luna. Cosa significhi Bucky non l’ha compreso ma, quando l’aiuta a mettersi in ginocchio, non ha nemmeno più importanza.
Contano solo le braccia di Steve che risalgono le sue spalle, conta il suo sguardo che si lucida di lacrime non piante e conta la sua fronte poggiata al petto del ragazzo.
«Dammi solo un attimo.»
«Prenditi il tempo che ti serve, buddy.» Bucky affonda dita tra i suoi capelli.
Dov’è lo Steve che conosce? Fragile nel corpo, ma testardo come un mulo.
Lo abbraccia e nasconde la vergogna, perch’è così che lo vorrebbe sempre: bisognoso di averlo accanto.
*
Bucky ricorda serate passate col peso di Steve sulle spalle, braccia ossute intorno al collo e un respiro rotto ansimato all’orecchio.
(Dimmelo se sei stanco Buck, posso camminare. Ce la faccio. Dimmelo.)
Non pesava niente il suo Steve.
Ora, invece, che lo sostiene accanto a sé, non arriva a stringergli il fianco opposto.
E pesa.
Lui e i suoi fottuti muscoli.
Lui e un fottuto secolo sulle spalle.
E i suoi capelli che gli sfiorano la fronte. E il suo bicipite contro la guancia. E l’altra mano che stritola il giaccone e preme il palmo al suo addome - il suo calore attraversa ogni strato di stoffa.
«Questo tuo amico…» si distrae.
«Tony.»
«È qui anche lui?»
«Non lo so, quando il raggio del Chitauro ci ha colpiti siamo stati separati. Forse lui è riuscito ad arrivare a destinazione.»
Tutto di quel racconto sembra finzione.
Eppure Bucky preme la mano al fianco di Steve e mai gli è parso così solido.
*
Steve si è fermato in mezzo alla via; a ingoiarli la notte e il silenzio. E la neve scende da un cielo che l’uomo non conosce più.
A capo sollevato e occhi socchiusi, i fiocchi si posano sul suo naso e quasi chiedono il permesso di sciogliersi sulla sua pelle.
Steve è un quadro. Anche se Bucky capisce poco d’arte, non serve un esperto per riconoscere un capolavoro; si morde il labbro e stringe così forte il fianco dell’uomo, da graffiarlo senza accorgersene.
«Eri perfetto anche prima.» La frase spinge per essere pronunciata.
Steve lo guarda e Bucky non può credere si sia stupito, non può credere che l’altro (un Bucky ch’è cenere spersa in un vento che verrà) non gliel’abbia mai detto. «Lo eri. Lo sei.»
Steve sorride, sulle labbra risplendono cristalli d’acqua.
Bucky, troppo giovane per temere i tamburi di battaglie future, è orgoglioso di sapere che un giorno, lontano da quell’inverno, sarà l’uomo che glieli leccherà via.
II | Il riflesso di uno specchio scheggiato
«Lascia parlare me.»
Ma la porta si apre s’un broncio infreddolito e una zazzera di capelli biondi spettinati e, di parole, Bucky non ne trova.
«E quello chi è?» Occhi azzurro pastello fissano uno sguardo identico (eppure così in alto).
«Sorpresa?»
«Buck, non fingere che sia un diavolo di randagio.» All’uomo, invece: «Si sente bene? Non ha una bella cera.»
L’uomo tace. L’ha già fatto, ha già incontrato se stesso, l’ha combattuto nemmeno un’ora fa. Eppure guardando il volto scavato di quel minuscolo ragazzino, non è più sicuro della propria identità, della propria unicità. Si sente la copia contraffatta dell’ometto malandato e malnutrito che era, un falso messo innanzi all’originale, che non ha speranza alcuna di superare la prova a carbonio.
Beccato.
«Mi sente?»
«Steve?»
«Come l’hai chiamato?»
Bucky entra, porta con sé Steve, la neve e un futuro ch’ancora brucia negli occhi dell’uomo.
«È meglio che ti sieda.» Sorride delicato (la guerra non l’ha ancora sfiorato). «Tutti e due.»
*
Bucky vede doppio e distorto e non ha nemmeno toccato un goccio della bottiglia di brandy rubata a suo padre c’ha portato dai Rogers, per tenersi al caldo insieme a Steve.
Anche se ora a riscaldare la cucinotta c’è una stufa e un uomo di troppo - Steve (il suo piccolo fagotto tutt’ossa) lo guarda, cerca in lui se stesso e non si trova.
Bucky siede di fronte a loro e sa dove guardare, segue l’ago di una bussola che punta all’amico e lo trova in entrambi.
Ad ogni occhiata. Sempre.
Il ragazzino biondo serra i denti. «Con che coraggio ti presenti a lui dopo averlo lasciato morire?»
«Per la miserie, Stevie!»
«No, ha ragione.» L’uomo - il Capitano - ha la stessa identica espressione rabbiosa, lo stesso angosciante senso di colpa che ha iniziato a consumare vene troppo sottili d’un ragazzino emaciato.
Bucky serra i pugni.
«Hey, cretini, io sono ancora qua.»
*
«Siediti, Stevie. Sembri un uccellaccio del malaugurio.»
Una smorfia, la voce appesa a un filo «Sto bene in piedi.»
Bucky lo raggiunge, strattona i lembi ruvidi della coperta che lo avvolge; in silenzio lo rimprovera. Sa che mente, che le ossa gli tremano sotto la pelle, che il suo corpo si ribella a una volontà che non è mai abbastanza.
E non è l’unico a saperlo.
«Avevo dimenticato che bel da fare ti davo a quell’età.»
Stevie gonfia il petto, è un galletto spennacchiato e impertinente - la statura sarà corta, ma la lingua è lunga (e lui, forse, un po’ troppo geloso): «Non provarci, hai già avuto la tua possibilità con Bucky. Questo è il mio migliore amico.»
Bucky lo guarda interdetto, finché non realizza. Non c’è al mondo ragazzo più generoso di Steve, ma con se stesso è un giudice spietato che ha già emesso la sua sentenza.
Colpevole.
*
Un colpo di tosse. Stevie storce il naso e potrebbe chiamarlo karma. Bucky, invece, vede il principio di una polmonite convocata dal freddo e, nervoso, raggiunge la stufa; attizza il fuoco e guarda malevolo una scorta di legna ormai ridotta all’osso.
Un altro colpo di tosse. Stevie incurva la schiena, puntella il mento al petto e sigilla labbra da cui non fa più uscire alcun suono. Bucky si spoglia della giacca, deve lottare per spingergliela sulle spalle (stupido caprone idiota che non sei altro!).
In disparte Steve assiste - spettatore muto in un cinema vivo, a guardare un film modificato col filtro seppia che si dà ai ricordi.
«Tra un po’ te lo riprendi» si sente borbottare.
«Va bene, ma ora infilatelo e stai al caldo, mentre scaldo il brodo.»
E quel bisogno di sentirsi utile (in qualcosa. Qualunque. Dannata. Cosa) sfonda la barriera della memoria, per mescolarsi alla realtà.
«Lo faccio io.»
A parlare due voci di uno stesso uomo.
*
Per Steve è tutta questione di memoria muscolare: si aggira nella minuscola cucina come l’avesse lasciata solo ieri e ogni suo movimento è elegante, è veloce, è un guizzo di muscoli e fascino maschile.
Stevie lo invidia guarda, per lui tutto è sforzo e fatica, perfino respirare. Perfino esistere.
«Credevo che il raggio di quell’affare ti avesse colpito.»
«Guarisco in fretta.»
«Poteva non essere altrimenti…»
Quando il brodo è pronto, Steve lo versa in due scodelle.
Con la coda dell’occhio, Bucky scorge il fondo della pentola. «Puoi prenderti la mia parte, tanto non ho fame.»
È strano come certe cose rimangano immutate.
«Non fa niente, mangiala lo stesso» La voce ferma, il timbro caldo, lo stampo di un ordine.
Bucky rimane impalato, un soldatino di Natale con le guance tinte di rosso che vibra d’un piacere appena rivelato.
Steve rammenta tardi sospiri caldi e occhiate languide (Dillo ancora, mi ecciti quando mi dai ordini).
Stevie, invece, lo impara soltanto ora.
*
Lontano dalla cena e da un amico che non ha mai visto crescere, Bucky tira un buffetto alla fronte pallida di Stevie. «Puoi dargli tregua?»
Stevie affonda il volto tra le pieghe della coperta e il colletto di una giacca che odora di Bucky, nasconde la bocca - una curva amareggiata che tortura con i denti. «Come puoi non essere arrabbiato con me?»
«Di cosa stai parlando?»
«Ti ho ucciso due volte.»
«La guerra mi ha ucciso.» Bucky scuote il capo, scaccia un destino non ancora avverato. Non è il loro. Non è il loro. Non è il loro. «E nemmeno c’entriamo noi in questa storia.»
«Ma…»
«Dio, Steve, non puoi essere così ostinato da prenderti anche le colpe di un altro universo!»
Invece sì, mormorano occhi velati di tristezza. A cosa servono arti più lunghi, se quando cadrai non ti raggiungeranno?
«Non puoi capire.»
Bucky sbuffa contrariato. Può invece, nessun altro può farlo meglio. «Promettimi che lo perdonerai. Se non lo farai tu, lui di certo non lo farà mai.»
III | Dopo la notte, un nuovo giorno
Stevie dorme nell’unico letto della casa. Bucky apre gli occhi al mattino e sorride felice - un'altra notte è passata e il suo migliore amico ancora respira. Ancora vive.
Si allontana da quel bozzo di lenzuola e maglioni infeltriti, dal suo volto addormentato e dalla carezza di capelli biondi che l’hanno solleticato per tutta notte, incoraggiando carezze e umide fantasie. Avrebbe voluto toccarli, accarezzarli, avrebbe voluto abbandonare la stretta al corpo di Stevie solo per spogliarlo di tutto - perfino del pudore - e poi rinsaldarla, annodarsi intorno a lui e alla sua pelle.
Steve, già sveglio, ha atteso davanti a una porta mezza aperta.
«Dove stai andando?»
«Non posso rimanere.»
«Perché no?»
«Perché non dovrei nemmeno trovarmi qui.»
«È un po’ tardi per quello.»
Steve sospira greve.
Ma, Bucky, occhi diciannovenni e morbidi tratti impudenti da ragazzo, è più battagliero di lui. «A meno che tu non voglia vincere un biglietto di sola andata per il Rockland[2], non puoi uscire conciato così.»
*
«Vuoi lasciarmi solo con lui?»
Un mezzo ghigno di Bucky e un tocco di gomito. «Lui pesa la metà di te e, se tanto, ti arriva al bacino.»
Eppure l’orgoglio per il timore che incute un cosettino come Stevie, si mescola a un groviglio di preoccupazioni. Ma cos’è, in fondo, il peggio che può accadere?
«Voglio che mi racconti tutto, dall’inizio alla fine. Tutto quello che è accaduto a Bucky e come posso fare per evitarlo.»
A parte questo.
Steve segue con lo sguardo la direzione della voce che ha parlato e incontra un’ombra che lo ha perseguitato dal siero di Erskine. Il buono diventa migliore - eppure, alle volte, è ancora convinto che la sua parte migliore sia caduta da un treno in corsa o dissolta con uno schiocco in Wakanda.
«Va bene.»
Non puoi cambiare il tuo passato. Ha spiegato Banner.
Ma Steve s’accontenta di sovvertire il loro futuro.
*
Rebecca è un tornado in azzurro e stivaletti bianco panna. Sgambetta tra la neve ingrigita delle strade di Brooklyn e con femminili urletti entusiasti s’appende al braccio del fratello.
«Non sei tornato ieri! Stavi facendo un bilancio delle doti delle ragazze in città direttamente dal loro letto?»
Bucky ridacchia e per dispetto scrolla il braccio. «Ero da Steve.»
«Oh, in questo caso era lui a contemplare la tua dote.»
«Non farti beccare da pà a dir certe battute, o schiaffeggerà te per la tua boccaccia e prenderà a cinghiate me per sodomia.»
Ma la sua vicinanza, benedetta ragazza, è un toccasana e Bucky se la tiene vicino, mentre accelera il passo.
«Dove stiamo andando?»
«A casa, devo prendere dei vestiti.»
Rebecca si stringe più forte al suo braccio e con la mano strofina il bicipite - non serve togliere i guanti per avvertire la pelle ghiacciata. «Anche una giacca, voglio sperare.»
Bucky sbuffa vapore acqueo. Quella è rimasta insieme a Steve.
*
Non ha dovuto alzare i pugni contro una versione agguerrita di Captain America, non si è ritrovato ad annaspare nella stretta del suo braccio o a rivelargli di Bucky (salvalo, salvalo, per l’amor di Dio salvalo e basta). Eppure Steve ne esce esausto.
Seduto al divano dalle molle arrugginite che quella notte ha ospitato la sua insonnia, tiene la testa tra le mani e non osa fare i conti con se stesso. Sa già che non tornerebbero, ch’è in difetto da troppo tempo.
Stevie trema, il freddo è qualcosa che cresce dentro. Non può combatterlo. Può solo lasciare che l’avvolga, che gli ghiacci le vene e apra cristalli salati agli angoli degli occhi.
Non piange.
L’ultima volta è successo alla morte di sua madre; anche allora ha aspettato che il dolore lo sfinisse, prima di lasciarsi andare alle lacrime.
Stringe i pugni, unghie a graffiare i palmi: «Cambierò tutto.»
Steve alza il capo, lo guarda. Inconsapevole, assiste alla nascita dell’Eroe.
*
Stevie si tortura le mani, consumato da una domanda - è così stupida, così frivola. Ma deve sapere.
«Gliel’hai… gliel’hai mai detto?»
Steve capisce al volo come l’avesse formulata lui per primo - non è forse così?
«Sì.»
Stevie deglutisce a vuoto. Piazza occhi azzurri su un volto che è suo, anche se l’innata attenzione ai dettagli coglie ogni differenza: le linee più marcate, i colori più vividi, lo sguardo di chi ha già vissuto l’equivalente di due vite.
Steve stira la schiena. «La stessa notte in cui l’ho trovato su quel tavolo operatorio. Mi sono dichiarato sotto il cielo di Azzano, addossato al suo sacco a pelo perché non ne avevamo abbastanza.»
«Cosa ti ha risposto Buck?»
Steve indugia. Prima di proseguire, c’è qualcosa di più importante che deve confessargli.
«Ehy, ho portato un cambio per Steve! Non vi siete scannati, vero?»
Bucky non poteva scegliere momento peggiore per fare ritorno.
*
Ho baciato Bucky.
«Tu cosa?» Stevie sibila e spinge un’occhiata malevola sull’adulto.
«È stato l’impeto del momento.» Non è una giustificazione, è a malapena una patetica verità. A meno di racchiudere in quel momento tutti e cinque gli anni passati a prendere a unghiate il fondo, col bisogno di riabbracciarlo che lo ha tormentato, scosso, preso a pugni ogni istante di ogni giorno. E ancora s’arrotola ai suoi piedi e risale, strattona, azzanna - riporta indietro Bucky. A qualunque fottuto costo!
Thanos ha cancellato metà universo.
Steve l’ha, però, perso tutto quanto.
«Fanculo all’impeto del momento!» Stevie bercia improperi più facilmente di come respiri (male e troppo velocemente).
«Calmati.» Bucky gli è addosso.
«Calmati un accidente! Non avrebbe dovuto» ansima, distoglie lo sguardo. Il volto paonazzo per l’apnea in cui sta cadendo e per altro. «…non avrebbe dovuto.»
Bucky indietreggia. «Ti disgusta così tanto?»
A battere due cuori all’unisono.
E l’urlo, questa volta, prende la voce di due linee temporali: «NO!»
*
Bucky gli raccoglie la mano - dita scheletriche che copre con un bacio al dorso, uno al palmo e uno al polso. Gli lascia sulla pelle promesse di un amore segreto, gliele incide nelle vene, nei tendini, nell’anima.
Un bacio perché t’ammiro. Un bacio perché ti voglio. Un bacio perché t’amo.
Stevie annaspa; per una volta l’asma non ha colpa alcuna. L’ha visto mille volte sedurre le ragazze di Brooklyn, ballare con loro e baciarle al chiaro di luna; conosce a memoria ogni piega del suo sorriso seduttore e ogni goccia di saliva posata sulle labbra, quando la lingua passa sbarazzina a leccarle.
E ora cerca quei dettagli e non li trova, perché Bucky non lo seduce, ma si confessa, si schiude a lui, fiero come un fiore sbocciato dal cemento e in silenzio gli chiede di coglierlo e amarlo.
«Non t’importa?» domanda Stevie.
«Cosa?»
«Che non sia un super soldato come lui.»
Bucky scuote il capo. «Sei Steve, questo m’importa.»
IV | Ultime impronte di passato
Per Steve è come ripercorrere un album di ricordi, come assistere alla recita della propria vita e poi vederla cambiare all’improvviso - in meglio - dal capriccio di attori che hanno cominciato a improvvisare.
Li coglie a bisbigliare dietro agli angoli di casa, come giovani colombi innamorati, dita intrecciate e labbra che non smettono di assaggiarsi. Si consumano di baci, di morsi, di desiderio, quasi avessero paura che il futuro da lui dipinto li raggiunga e si porti via quel poco tempo che hanno a disposizione.
Li ascolta darsi battaglia per dare all’altro l’ultimo boccone di cena e decidere alla fine di fare a metà (nonostante gli improperi di Stevie, che l’adolescenza rende scurrile).
«Se mi sentisse Tony…» mormora, quando pensa di non essere ascoltato.
Ma è Stevie a sentirlo e su di lui punta il dito, piccolo e feroce - come Davide contro Golia. «Chi sarebbe questo Tony? Guai a te se scopro che tradisci Buck con un altro! Mà non ti ha cresciuto così!»
Una risata divertita.
No, l’ha cresciuto meglio.
*
«Questo non sembra male.»
Un braccio s’allunga oltre la spalla di Steve, lo supera e punzecchia il quotidiano aperto tra le mani.
«Anche questo. È al molo, non è nemmeno tanto distante.»
Una testa bionda spunta vicino a quella dell’uomo, dita ossute spiegazzano l’angolo del giornale, all’altezza dell’annuncio.
Steve lo poggia al tavolo e guarda i due.
I ragazzi sorridono - fossette alle guance e una coppia di ghignetti malandrini.
«È solo un lavoro. Finché non avrò trovato una soluzione.» Nessuno è venuto a prenderlo e lui non può - ancora - tornare al tempo a cui appartiene. È finito troppo indietro, perfino Howard è un ragazzo imberbe che cerca il suo posto nel mondo. Mancano almeno altri tre anni perché lo trovi.
Stevie scrolla spalle storte e sottili. «È un motivo in più per restare.»
Bucky e il Capitano lo guardano stupiti: nella semplicità della frase si nasconde la sua imbarazzata accettazione.
*
Affacciato alla finestra, Bucky guarda un mondo incrostato di neve. Le luminarie di Natale tremolano su strade bloccate e alla radio gracchiano notizie di una tormenta in arrivo (state in casa se potete, sarà un rigido weekend).
Stevie si arma di sciarpa.
Bucky lo blocca prima che possa raggiungere la porta. «Che non ti venga in mente!»
«Perché no? È una mia responsabilità, spetta a me andarlo a cercare.»
«Scordatelo! Ti è appena passata la febbre, dovrai passare sul mio cadavere se vuoi uscire.»
A metterli a tacere è un battito sul legno e uno nei loro petti.
Incorniciato dalla porta, Steve li guarda con capelli bianchi di ghiaccio e un volto congelato dal freddo - sembra un fantasma d’inverno, uno spirito errante scappato dal buio.
«Ci hai fatto prendere un col -»
L’abbraccio zittisce Bucky.
Steve gli trattiene il capo contro il petto, lo stringe, lo sente, lo rimpiange.
Stevie tace, ma già sa.
Il Natale se lo porterà via.
*
Un tacchino flaccido, un vino scadente in tavola e loro; non serve altro a farlo sentire re del mondo. Bucky ha brindato e, ubriaco più di gioia che di vino, ha baciato Stevie sotto un ciuffetto di vischio rubato al mercato e ha lasciato sulle labbra di Steve un ricordo felice.
«Cos’è?» chiede Stevie, quando il Capitano lo trascina lontano, in un angolo della casa per confidargli un segreto. In mano un pacchettino argentato.
«È per lui.»
«Allora dallo a lui, gli farà piacere.»
«Non posso.»
«Perché no?»
Steve sorride distante - è già lontano col pensiero, sta già tornando al suo tempo, a una guerra che ancora non è cominciata, ma che nemmeno è mai finita.
Si china. Lascia un bacio alla fronte di un ragazzino che spera ancora di vedere un giorno, quando guarderà un riflesso allo specchio e cercherà se stesso.
«Perché il mio Bucky mi sta aspettando.»
*
«Ti sei portato dietro una spia, Cap?»
Si chiama Tony l’uomo venuto dal Futuro, ha un sorriso arrogante e uno sguardo di ferro -ma sotto le ciglia, dietro le palpebre, spinge un io ferito.
Consegna un casco tra le mani di Steve e attiva il proprio.
Bucky lo guarda a bocca spalancata, con un’ammirazione eccitata che lancia fitte nella coscienza di Stark - conosceva un tempo un altro ragazzo, occhi da cucciolo e sorriso infinito. Questo, però, vorrebbe non averlo mai incontrato. «Smamma ragazzino, non c’è niente da vedere.»
«Buck, torna dentro» implora Steve. È già difficile così.
Bucky, però, ha un favore da chiedere a Stark: «Si prenda cura di Steve.»
Una smorfia e l’uomo scansa impegni e promesse. «Non ci penso nemmeno. Sono un uomo sposato, io.»
Bucky imbarazzato cerca una scusa per spiegarsi. Non intendeva...
Ma Tony ghigna e segna il punto. «Mi assicurerò di passare il messaggio a Barnes.»
Ed è, in fondo, tutto quel che conta.
*
«Ti dispiace sia andato?»
Steve (è l’unica versione rimasta, una bozza a carboncino, un frutto ancora acerbo) gli guarda la schiena, teme voglia inseguirlo e lasciare lui indietro, insieme ai propri difetti.
Non lo biasimerebbe. Anche se vorrebbe dirgli che lo ama tanto quanto l’altro, forse di più, forse il doppio.
Eppure Bucky si volta, risoluto, e altrettanto innamorato. «Se i ruoli fossero invertiti, abbatterei anche io i muri del tempo per tornare da te.»
Steve passa una mano tra i capelli, cattura tra le dita l’imbarazzo e preme un pacchettino d’argento contro la fronte. Non l’ha aperto, ma sa già cosa ci troveranno dentro.
Tende il braccio - il palmo all’insù, il pacchettino al centro - e non esiste nessun regalo al mondo, nessun Natale, nessun uomo caduto fuori dal tempo, che possa eguagliare la bellezza del sorriso di Bucky.
E poi il suo sguardo incantato, quando il coperchio scatta.
All’interno una fede dorata e una promessa immortale.
«Buon Natale, Buck.»
- | Anno 2023, presente
«Avengers, assemble!»
È nell’ululato della battaglia che lo trova.
Un proiettile incamiciato, un colpo preciso, occhi di lupo e mira da cecchino. La creatura cade e Steve guarda oltre, alla canna di una mitragliatrice ancora fumante.
Sul grilletto un indice nero, sul bicipite inserti dorati incisi nel vibranio.
Bucky avanza, attraversa anni (cinque infiniti anni) in falcate ampie, veloci e leggere.
«Non ti si può lasciare un attimo da solo, pal, che ti trovo sempre a combattere gente grossa il doppio di te.»
(cinque fottuti anni)
«Potrei andare avanti per tutto il giorno.»
Il mitra cade appeso alla spalla e Bucky gli incornicia tra le mani guancie sporche di terra e di pugni. «Quanto?»
Il tempo che è passato, il vuoto c’ha lasciato, il dolore che l’ha spezzato.
Oh, così tanto, amico mio, mia metà, mia anima, mio tutto. Troppo, troppo, troppo.
Bucky posa labbra sulle sue, raccoglie tempo (e sangue e paura e morte) in punta di lingua e sana ferite che il siero non ha saputo guarire.
«Scusa per il ritardo, Stevie.»
Oh Buck, ben tornato a casa.
[1] Lo sbarco sulla luna avviene il 20 luglio 1969. Quindi con Steve sottoghiaccio e Bucky più o meno pure…
[2] Rockland State Hospital (oggi conosciuto come Rockland Psychiatric Center) è una struttura psichiatrica per adulti, a New York. Intorno agli anni della fic, in quella struttura si inizia ad impiegare la terapia con shock da insulina (usata per curare soprattutto la schizofrenia) e la terapia con elettroshock.