[Sherlock Holmes] Errori

Aug 31, 2010 18:08

Titolo: Errori
Pairing: Nessuno
Beta Reader: Nessuno
Rating: PG per tematiche cupe
Personaggi: Sherlock Holmes, John H. Watson
Genere: Introspettivo, Melanconico
Avvertimenti: One-Shot, Missing Moments
Info: Scritta per la August Challenge di holmes_ita. MM di REIG.
Note: Le prime due frasi in corsivo sono tratte direttamente dal testo.
Trama: Riflessioni sui margini d'errore che ciascuno si può permettere e che ciascuno deve accettare.


Errori

Il treno scorreva rapidamente sui binari; il fruscìo metallico dei freni sulla rotaia umida giungeva di tanto in tanto a spezzare la monotonia dei continui, seppur leggeri, sobbalzi. La nebbia mattutina avvolgeva la campagna che circondava Londra, come a separare dolcemente la periferia - i suoi campi, le ville, le distese di terra coltivata - dalla City, un agglomerato di palazzine e di stradicciole lastricate che si intrecciavano nel reticolato dell'operoso centro urbano.

Sherlock Holmes, un giorno, mi aveva rivelato come quegli incantevoli paesaggi rurali dalle case rade, isolate e solitarie non stimolassero affatto il suo (molto ben nascosto) spirito sentimentale, ma anzi, risvegliassero i suoi istinti di acuto osservatore più di quanto qualsiasi ambiente cittadino avrebbe potuto fare, manifestandosi come lo scenario ideale per un delitto. La nostra visita a Reigate, indubbiamente, gli aveva dato ragione.

Per quando il celebre detective avesse definito la nostra permanenza nella campagna un autentico successo, non mi sentivo di fare altrettanto. Holmes non l'avrebbe mai ammesso, ma la mia esperienza medica, unita ad una certa conoscenza della sua persona, mi permetteva di notare come le sue energie, già sfibrate dalla precedente frenetica attività sul Continente, fossero ora al limite dell'esaurimento. Il caso che si era accidentalmente presentato ad interrompere il suo riposo poteva aver rinvigorito la sua mente, ma ne aveva senza dubbio indebolito il corpo.

Prova di ciò era il fatto che il mio amico avesse quasi sùbito ceduto alla stanchezza; la sua figura magra era adagiata sullo schienale rivestito in pelle, ad occhi chiusi e col capo rilassato sul poggiatesta. Scrutai attentamente il suo contegno e l'espressione del suo volto, cercandone qualsiasi minimo segno di disagio. Holmes aveva saputo fingere, con l'abilità di un vero attore, una ricaduta della sua malattia - ma non gli avrei permesso di nasconderne i sintomi; in cuor mio, ancora confidavo di saperli riconoscere anche al di sotto della sua fredda maschera di autocontrollo.

"Mi ero accorto che mi commiserava per la mia debolezza. Mi doleva darle il dispiacere che sapevo lei provava."

Parole dette con noncuranza ed una punta di divertimento, quelle. Anche io avevo riso bonariamente della comicità di quella situazione - tanto più che il mio comportamento nei confronti dell'investigatore, ero pronto ad ammetterlo, era stato esageratamente prudente ed accorato. La mia coscienza - quella professionale e quella di amico - aveva avuto i suoi ottimi motivi per mantenere quella apparentemente eccessiva cautela...
Un'ondata di gelo mi investì. Era il freddo pungolo di un ricordo amaro e del sollievo genuino del poter contemplare le distese ghiacciate al di sotto di un cielo riscaldato da un tiepido Sole. Qualcosa dentro di me si rifiutava di ignorare che quel malefico inverno era durato parecchie settimane.

"Mi dispiace, dottore."

Era solo un sussurro, in quella stanza d'albergo permeata da un'aria resa più gravosa dalle cortine tirate sulle finestre inondate di luce.

Sollevai le sopracciglia, rivolgendo all'infermo uno sguardo interrogativo.

"Sono dolente di averla trascinata via dalla sua dimora. L'ho sottratta ai suoi pazienti. Il tutto per infliggerle la compagnia di un uomo la cui vita si immerge nel nulla più completo."

"Mio caro Holmes, non dica così." esclamai, con una punta di severità nel tono colmo di preoccupazione, "Mi sorprende che proprio lei si rifiuti di accettare ciò che è ovvio agli occhi di tanti." indicai le molte missive che sommergevano completamente la scrivania: lettere da tutta Europa, fogli vergati da complimenti, ringraziamenti, lodi. Lo spirito del nostro tempo acclamava l'abilità di Sherlock Holmes: ed egli pareva essere l'unico a respingere la realtà, tragicamente sordo a quel plauso.

"La mia mente non si sofferma su ciò che è evidente, Watson." mormorò lui, in un tono lamentoso che mi fece rabbrividire, "Non perde tempo a riconoscere la banalità, non viene distratta dalla superficie di uno specchio d'acqua, che riflette il sottobosco, gli alberi, l'azzurro terso e le poche nubi dell'aria soprastante. Essa scava in profondità. Si immerge in quei flutti e, dimentica dell'ossigeno, del riposo, del sonno, delle forze... giunge dove essi sono più torbidi e fangosi."

Non potei dir nulla, e mi limitai ad ascoltare, seguendo con lo sguardo la sua forma, avvolta in una veste da camera, che si avvicinava lentamente allo scrittoio; una mano affilata raccolse alcune buste, ne scorse il mittente, le gettò nuovamente sulla disordinata pila.

"Quale pregio possono avere le lodi di costoro, che non hanno saputo che fissare il proprio volto riflesso per mesi... sono stato lento, troppo lento... ed essi non sono stati in grado neppur di seguire le mie orme. Ah, Watson! Ed io dovrei credere a queste voci, dovrei ripetere nel mio animo una falsità, sperando che diventi cosa vera... quando tutto intorno a me ora è ombra, e non spero più di poter impiegare le mie facoltà in una impresa egualmente utile e fruttuosa?"

"Amico mio," lo interruppi, alzandomi e raggiungendolo. "Lei ha bisogno innanzitutto di riposare."

Si lasciò cadere a fatica su una seggiola, ed io rimasi al suo fianco, cercando invano di alleggerire l'amara pesantezza che mi gravava sul cuore, suggerendomi che parte della responsabilità dello stato di cupa depressione che attanagliava il mio amico era in effetti mia.
Durante il suo periodo di duro lavoro, ero rimasto in Inghilterra ad occuparmi del mio studio e della rinnovata pratica che ero riuscito finalmente ad avviare. Mi ero recato a Lione solo dopo aver ricevuto notizia di quella subitanea malattia.

Non avevo fatto nulla per prestargli ausilio durante le sue complesse e pericolose investigazioni. Ero stato cieco, almeno quanto coloro che il mio amico così apertamente disprezzava. La mia colpa non consisteva solamente nel non aver agito: tuttora ero effettivamente incapace di comprendere i moti d'animo del mio più caro amico, e di conseguenza mi era impossibile porre un adeguato rimedio, od agire per alleviare quel dolore così radicato.
Mi ero dimostrato inutile, la mia presenza ed il mio aiuto nè richiesti nè offerti...

Mi destai da un irrequieto sonno, ed i miei occhi corsero immediatamente a ritrovare la persona ancora addormentata e placida di Sherlock Holmes, seduto di fronte a me sulle comode poltroncine del vagone.

Liberandomi dagli ultimi strasichi di immagini, sensazioni e pensieri che il ricordo aveva lasciato dietro di sè, mi raddrizzai sul sedile; scorsi il capotreno al di fuori delle tende tirate sugli sportelli del compartimento, e mi affrettai a precederlo, consegnandogli i biglietti al di fuori della cabina, per non disturbare il sonno del mio esausto commilitone.

Rientrai, scrollandomi dalle spalle una brina che nulla aveva a che vedere con l'alba od il risveglio di prati e colline, determinato a tener nascosto il mio malumore e le mie rimostranze interiori, che non avrebbero giovato a nessuno. Aggrappandomi con la destra ad una delle maniglie di sostegno, rimasi a fissare distrattamente le prime case ed i fili del telegrafo che correvano lungo il profilo tutto pendii ed erte che si delineava di fronte a me.

Avrei dovuto chiedere perdono? Oppure esternare a Holmes il mio rammarico, nella speranza che capisse che io avevo quanto meno compreso il motivo per il quale egli non mi metteva a parte dei suoi piani e dei suoi proponimenti? Una strategia che, per quanto necessaria, temevo si potesse rivelare, prima o poi, fatale. L'aggressione dei Cunningham l'aveva scosso - per evitare gli eufemismi, quei due criminali l'avevano quasi ucciso. E rimanevo non del tutto convinto che la crisi nervosa - che egli aveva così provvidenzialmente finto per riuscire a distogliere l'attenzione dei malviventi dalle inopportune parole dell'ispettore - fosse stata una completa farsa.

Il rimorso mi afferrò il petto in una morsa dolorosa ed incandescente. Se il mio amico non fosse riuscito a chiamare aiuto, in quel fatale momento, probabilmente sarebbe morto. Nessuno sarebbe giunto in suo soccorso, o certamente nessuno avrebbe potuto trovarlo in tempo per evitare che incontrasse una coraggiosa quanto terribile fine.

Urgeva una soluzione, e capii all'improvviso che non mi sarei permesso di evitare la verità.
Non sarei fuggito di fronte ai fatti: per quanto penoso potesse rivelarsi accettare la mia inettitudine e la mia inadeguatezza agli intricati e complessi enigmi che il mestiere di Sherlock Holmes poneva di fronte al mio cammino, non avrei consentito che esse gli fossero d'intralcio o mettessero a repentaglio la sua così preziosa vita.

Stabilii con irremovibile fermezza che, quando si fosse destato, gli avrei esposto e rivelato il risultato delle mie riflessioni...

"Watson, Watson." una voce distaccata e venata di gentile rimprovero cantilenò, dietro di me, "Ragazzo mio, lei ha commesso un errore di valutazione."

Sobbalzai e mi voltai, di scatto. Le iridi attente di Sherlock Holmes mi squadravano tranquillamente, il grigio in quelle orbite chiare che sembrava ammorbidirsi, come se quell'acciaio fosse scaldato dal fuoco di una inarrestabile meditazione.

"Se la considerassi alla stregua di coloro la cui incoscienza ha fatto sì che un tenace falsario prosperasse in più di quattro Paesi europei, le assicuro che non mi intratterrei a conversare con lei, nè la definirei mio amico e collega."

Impietrito e sbalordito, rimasi a ricambiare con intimo sconvolgimento il suo sguardo di ovvietà. Avrei potuto reagire in qualche modo, o chiedergli quale fosse stata la straordinaria catena di deduzioni che aveva portato all'identificazione così precisa della mia linea di pensiero. Avrei potuto rallegrarmi del fatto che quella suprema lucidità lasciava ben presagire su un completo recupero del suo stato di salute, sia fisica che psicologica.

Qualcosa nel suo atteggiamento, tuttavia, mi spinse a soffermarmi a riconsiderare la serie di ponderazioni che erano affiorate alla mia coscienza nel tumulto di quei rapidi pensieri. L'ombra di pacatezza che potevo veder permanere nel fondo di quegli occhi tanto penetranti sembrava invitarmi alla calma, al raccoglimento interiore.

D'un tratto sentii nascere dentro di me una piena realizzazione, come se avessi subitaneamente compreso ciò che in realtà avevo sempre saputo.

"La segretezza e la solitudine sono spesso una necessità, nella mia professione, Watson..."

Scossi il capo, intervenendo, "Lei sapeva perfettamente che la reazione dei due Cunningham sarebbe stata ben più veemente e pericolosa, se si fossero trovati di fronte ad un'offensiva più massiccia. Sapeva che sarebbero stati pronti a tutto."

Le sopracciglia del mio amico si aggrottarono in una altera espressione di fredda sincerità, "Ancora non avevo la certezza che le mie teorie fossero corrette."

"Ma lo sono state."

"Watson, esiste sempre il margine per una svista, e solo uno stolto non ne terrebbe conto." rimarcò lui, sollevando un indice sottile e nervoso. Le labbra sottili si incurvarono in un leggero sorriso, e l'uomo annuì, leggendo l'illuminazione nei miei occhi. "Non ho alcuna intenzione di lasciare che mie possibili mancanze la coinvolgano, o che lei possa subire un qualsiasi danno a causa di decisioni la cui responsabilità sia di mia esclusiva competenza."

Quella franchezza mi lasciò ancor più colpito di quanto già non lo fossi. Deglutii, mentre il pieno impatto del concetto così limpidamente espresso veniva assorbito dalla mia coscienza.
Infine risollevai lo sguardo su di lui, quasi provando vergogna di quei momenti di pura oscurità che era discesa sul mio intelletto, ottenebrandolo col fumo di inutili turbamenti.

"Nemmeno io, Holmes." ribattei, quietamente.

Chinò il capo con pacata lentezza, "Lo so, mio buon amico."

Sedetti di fronte a lui, mentre il treno si addentrava nella stazione di Waterloo, immerso nei miei pensieri. Il mio collega, con gli occhi un po' lontani ma rivolti a me, mi osservava, pensoso. Io promettevo a me stesso di non incorrere più in simili madornali errori di logica; ma ero intimamente lieto che quel turbinìo di cogitazioni si fosse risolto in un semplice abbaglio.

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