Capitolo 27. Il racconto

Oct 25, 2007 11:41

“Prima di tutto” disse Caderousse, “debbo pregarvi di promettermi una cosa.”

“E quale?” domandò l’abate.

“Che non si saprà mai che io vi ho dato questi particolari, in caso che aveste bisogno di farne qualche uso; perché quelli di cui sto per parlarvi sono ricchi e potenti, e se avessero a toccarmi colla sola punta di un dito mi stritolerebbero come vetro.”

“State tranquillo, mio buono amico, vi assicuro sul mio onore che le vostre parole moriranno nel mio cuore. Ricordatevi che non abbiamo altro scopo che di eseguire degnamente le ultime volontà del nostro amico. Parlate dunque senza riguardi e senza prevenzione; dite la verità tutta intera. Io non conosco, e forse non conoscerò mai le persone di cui state per parlarmi; d’altra parte sono italiano e non francese, e dopo compiute le ultime volontà di un moribondo, ritornerò dritto in patria.”

Questa positiva promessa parve rassicurare del tutto Caderousse.

“Ebbene, in questo caso” disse Caderousse, “voglio dirvi anche di più, io devo disingannarvi sulle amicizie che il povero Edmondo credeva sincere e affettuose.”

“Cominciamo da suo padre, se vi piace. Edmondo mi ha parlato molto di questo vecchio, per il quale nutriva un grandissimo amore.”

“La storia è triste” disse Caderousse, tentennando la testa. “Voi, probabilmente, ne conoscerete il principio.”

“Sì, Edmondo mi ha raccontato le cose fino al momento in cui fu arrestato, in una piccola osteria vicino a Marsiglia.”

“Alla Riserva… Oh, mio Dio, sì, vedo ancora la cosa come accadesse ora.”

“Non fu al pranzo del suo fidanzamento?”

“Sì, a quel pranzo che ebbe un allegro principio e una triste fine. Un commissario di polizia seguito da quattro fucilieri entrò e Dantès fu arrestato.”

“Ecco fin dove giunge quello che so” disse l’abate. “Dantès stesso non sapeva altro, poiché non ha più riveduto nessuna delle cinque persone che ho nominato, né ha più inteso parlare di loro.”

“Dopo che Dantès fu arrestato, il signor Morrel corse via per prendere informazioni; esse furono tristissime. Il vecchio Dantès ritornò solo a casa sua, piegò gli abiti di nozze piangendo, passò tutta la giornata camminando nella sua camera, e la sera non dormì. Io, che abitavo sotto di lui, lo sentii in moto tutta la notte. Io stesso, debbo dirlo, non dormii: il dolore di questo povero padre mi faceva molto male e ciascuno dei suoi passi mi si ripercuoteva nel cuore, come avessi i piedi sul petto. L’indomani Mercedes venne a Marsiglia per implorare la protezione del signor Villefort; ma non ottenne nulla; dopo andò subito a far visita al vecchio. Quando lo vide così triste ed abbattuto, vide che aveva passata tutta la notte senza riposare, e non aveva mangiato dal giorno innanzi, volle condurlo con sé per prenderne cura; ma il vecchio non ha mai voluto acconsentirvi. “No” diceva, “non lascerò mai questa casa, perché sono certo che il mio povero figlio mi ama sopra ogni altra cosa, e se esce di prigione correrà a visitare me per primo. Che direbbe se non fossi qui ad aspettarlo?” Io ascoltavo tutto dal pianerottolo, perché avrei desiderato che Mercedes avesse persuaso il vecchio a seguirla; quei passi ripetuti giorno e notte sulla mia testa, non mi lasciavano avere un momento di riposo.”

“E voi non salivate mai a consolarlo?”

“Ah, signor abate, non si giunge mai a consolare che coloro che vogliono esser consolati, ed egli non voleva esserlo. D’altra parte, non so perché, sembrava che avesse ripugnanza a vedermi. Una notte però, che intesi i suoi singhiozzi, non potei più resistere e salii: ma quando giunsi alla porta non singhiozzava più; pregava. Egli ritrovava parole eloquentissime, suppliche pietose che ora non saprei ripetere; era più che pietà, era più che dolore, ed io, che non sono bigotto dicevo a me stesso: “Sono ben felice d’esser solo e di non avere figli, perché se fossi padre e soffrissi un dolore come quello di questo povero vecchio, non potendo ritrovare nella mia memoria, né nel mio cuore tutto ciò che egli dice al buon Dio, me ne andrei dritto a precipitarmi in mare per non soffrire più.”

“Povero padre!” mormorò l’abate.

“Di giorno in giorno egli viveva più solo e più isolato. Spesso il signor Morrel o Mercedes venivano per vederlo, ma la sua porta era chiusa e quantunque fosse certamente in casa non rispondeva ad alcuno. Un giorno, contro il solito, ricevette Mercedes e la povera ragazza, quantunque disperata, cercò di confortarlo:

“Credimi, figlia mia” disse il vecchio, “Edmondo è morto, e invece di aspettar lui, egli aspetta noi… Io sono ben fortunato, perché essendo più vecchio, sarò il primo a rivederlo.” Per quanto uno sia buono, si stanca ben presto di vedere le persone che lo attristano: il vecchio Dantès finì per rimanere affatto solo. Io non vidi più salire da lui alcuno, se non ogni tanto certi sconosciuti che discendevano poi con degli involti mal nascosti. Seppi in seguito che cosa erano quegl’involti: egli vendeva a poco a poco tutto ciò che aveva, per vivere. Infine il buon uomo terminò i suoi poveri arredi… Era debitore di tre rate di pigione: fu minacciato di esser cacciato; domandò una dilazione di otto giorni che gli venne accordata. Io so questi particolari perché l’esattore entrò da me, uscendo da lui. Nei primi tre giorni lo intesi camminare come d’ordinario ma nel quarto non sentii più nulla. Mi arrischiai a salire, la porta era chiusa; guardai attraverso la serratura, e lo vidi tanto pallido ed estenuato, che, comprendendo quanto fosse malato, feci avvertire il signor Morrel e corsi da Mercedes. Tutti e due si affrettarono a venire. Morrel condusse un medico, che osservando in lui una gastroenterite ordinò la dieta. Io ero presente, signore, e non dimenticherò mai il sorriso del vecchio a questa raccomandazione. Da quel momento aveva una scusa per non mangiar più… Il medico aveva ordinato la dieta.”

L’abate mandò una specie di gemito.

“Questa storia desta in voi tanto interesse?” s’interruppe Caderousse.

“Sì” rispose l’abate, “è commovente.”

“Mercedes ritornò: lo trovò così cambiato che, come la prima volta, lo voleva far trasportare nella sua baracca. Questo era pure il parere di Morrel; ma il vecchio gridò tanto, che ebbero paura. Mercedes restò al capezzale del letto; Morrel si allontanò facendo segno alla catalana che lasciava una borsa sul caminetto. Ma, forte dell’ordine del medico, non volle prender nulla. Finalmente, dopo nove giorni di disperazione e di astinenza, il vecchio spirò, maledicendo quelli che erano stati causa della sua disgrazia, e dicendo a Mercedes. “Se un giorno vedrete il mio Edmondo, ditegli che io muoio benedicendolo.”

L’abate si alzò, fece due giri per la stanza portando la mano tremante all’arida gola.

“E voi credete che egli sia morto?…”

“Di fame, signore” disse Caderousse. “Ne rispondo, quanto è vero che siamo qui.”

L’abate prese con mano convulsa il bicchiere d’acqua ancor pieno a metà, lo vuotò d’un fiato, e si rimise a sedere con gli occhi rossi e le guance pallide.

“Certo fu una gran disgrazia…” disse con voce rauca. “E tanto più grande, perché causata da finta amicizia.”

“Passiamo dunque a questi uomini” disse l’abate. “Ma pensateci bene” continuò con un tono quasi minaccioso, “vi siete impegnato a dirmi tutto… Sentiamo dunque, chi son quelli che hanno fatto morire il figlio di disperazione, ed il padre di fame.”

“Fernando e Danglars, due uomini gelosi di Edmondo, uno per amore, l’altro per ambizione.”

“E in qual modo si manifestò questa loro gelosia?”

“Essi denunziarono Edmondo come messo bonapartista.”

“Ma chi dei due lo denunziò? Chi dei due fu il vero colpevole?”

“Tutti e due: l’uno scrisse la lettera, l’altro la portò alla posta.”

“Questa lettera dove fu scritta?”

“All’osteria stessa della Riserva, il giorno prima del fidanzamento.”

“Sta bene…” mormorò l’abate. “Oh, Faria, Faria, come conoscevi bene gli uomini e le cose!”

“Che dite, signore?” domandò Caderousse.

“Niente! Continuate…”

“Danglars scrisse la denuncia con la mano sinistra, perché non fosse riconosciuto il carattere, e Fernando l’inviò.”

“Ma” gridò d’improvviso l’abate, “voi eravate là?”

“Io?” disse Caderousse meravigliato. “E chi vi ha detto che c’ero?”

L’abate s’accorse che si era lasciato troppo trasportare.

“Nessuno” disse, “ma per essere così ben informato di tutti questi particolari, bisogna essere stato presente.”

“È vero…” disse Caderousse con voce soffocata, “io c’ero.”

“E non vi siete opposto a questa infamia?” disse l’abate. “Voi dunque siete loro complice.”

“Signore, essi mi avevano fatto tanto bere, che quasi avevo perduto la ragione: non vedevo che attraverso una nebbia. Dissi quanto poteva dire un uomo in quello stato, ma essi mi risposero essere stato uno scherzo che avevano voluto fare, e che non avrebbe avuto alcuna conseguenza.”

“Va bene” disse l’abate, “voi avete parlato con franchezza e l’accusarsi in tal modo è un meritare il perdono.”

“Disgraziatamente Edmondo è morto, e non mi ha perdonato.”

“Egli ignorava tutto ciò.”

“Ma ora forse lo saprà… Si dice che i morti sappiano tutto.”

Si fece un momento di silenzio: l’abate si era alzato e passeggiava pensieroso. Ritornò al suo posto e si sedette di nuovo.

“Mi avete nominato due o tre volte un certo signor Morrel” disse. “Chi era quest’uomo?”

“Era l’armatore del Faraone, il padrone e protettore di Dantès.”

“E qual parte ha sostenuta in tutta questa triste faccenda?”

“La parte dell’uomo onesto, coraggioso e affezionato. Venti volte fu ad intercedere per Edmondo. Quando ritornò l’Imperatore, scrisse, pregò, minacciò, e tanto fece che, nella seconda Restaurazione, fu grandemente perseguitato come bonapartista. Dieci volte, come vi ho detto, è venuto dal padre di Dantès per ricoverarlo in casa sua, e il giorno prima della sua morte aveva lasciato sul caminetto una borsa colla quale furono pagati i debiti del buon uomo e le spese dei funerali… Povero vecchio, poté almeno morire come aveva vissuto senza essere di peso a nessuno. Ho ancora quella borsa, una borsa di cordonetto rosso.”

“E questo signor Morrel vive ancora?”

“Sì…” disse Caderousse.

“E in questo caso dev’essere un uomo benedetto dal cielo, dev’essere ricco… felice…”

Caderousse sorrise amaramente.

“Sì, felice come lo sono io…” disse.

“Come! Morrel sarebbe rovinato?” gridò l’abate.

“È vicino alla miseria, e peggio ancora è vicino al disonore.”

“E come?”

“Sì” rispose Caderousse, “dopo vent’anni di fatiche, dopo essersi acquistato il posto più onorevole nel commercio di Marsiglia, Morrel è rovinato da cima a fondo. In due anni ha perduto cinque bastimenti, sofferto tre fallimenti terribili, ed ora non ha più altre speranze che quello stesso Faraone, che era comandato dal povero Dantès, e che deve ritornare dalle Indie con un carico di cocciniglia e di indaco. Se questo bastimento si perde come gli altri, è rovinato del tutto.”

“E il disgraziato ha moglie, figli?”

“Sì, ha una moglie che in tutte queste avversità si è condotta come una santa; ha una figlia che stava per sposare l’uomo da lei amato, e la famiglia del quale si è opposta ad un matrimonio colla figlia di un uomo fallito, ha un figlio sottotenente nell’esercito. Ma, voi lo capirete bene, tutto ciò non fa che raddoppiare il dolore del povero uomo. Se fosse stato solo, si sarebbe bruciate le cervella, e tutto sarebbe finito.”

“Ciò è spaventoso!” mormorò l’abate.

“Ecco come in questa vita viene ricompensata la virtù” disse Caderousse. “Osservate, io che non ho mai fatto una cattiva azione a nessuno, meno quella che vi ho raccontato, sono nella miseria; dopo che avrò veduto morire la povera mia moglie di febbre senza poter far nulla per lei, morirò di fame come è morto il padre di Dantès, mentre Fernando e Danglars nuotano nell’oro.”

“E come è possibile?”

“Perché ad essi ogni cosa gira bene, mentre ai galantuomini va tutto male.”

“Che è divenuto questo Danglars, il più colpevole, l’istigatore?”

“Che è divenuto? Abbandonò Marsiglia con una raccomandazione di Morrel, che ignorava il suo delitto, e poté entrare commesso presso un banchiere spagnolo. All’epoca della guerra di Spagna, s’incaricò di una parte delle forniture dell’esercito francese, e fece fortuna. Con questo primo denaro speculò sui fondi pubblici, e ha triplicato e quadruplicato i suoi capitali e, vedovo della figlia del suo banchiere, sposò una vedova, la signora di Nargonne, figlia di de Servieux ciambellano del Re attuale, e che gode dei più grandi favori a Corte. Divenuto milionario lo hanno creato Conte, ed ora è il conte Danglars che ha un palazzo in rue MontBlanc, dieci cavalli nelle scuderie, sei lacchè in anticamera, e non so quanti milioni in cassa.”

“Ah” disse l’abate con un’espressione singolare. “Ed è felice?”

“Felice? Chi può dir questo? La felicità e l’infelicità sono il segreto delle mura, le mura hanno orecchie ma non lingua; se uno è felice con una grande fortuna, Danglars è felice.”

“E Fernando?”

“Fernando è tutt’altra cosa.”

“Come mai un povero pescatore catalano senza risorse e senza educazione ha potuto far fortuna? Ciò mi sorprende, ve lo confesso.”

“E ciò sorprende tutti. Nella sua vita ci deve essere qualche strano segreto che nessuno sa.”

“Ma per quali gradini visibili ha potuto salire a quest’alta fortuna, o a quest’alta posizione?”

“Ad entrambe, signore, ad entrambe; egli ha, insieme, fortuna e posizione.”

“Ma è una favola che mi raccontate?”

“Ne ha tutte le sembianze, ma è una cosa reale. Ascoltate e giudicate voi stesso. Pochi giorni prima che ritornasse Dantès, Fernando era stato chiamato come coscritto. I Borboni lo lasciarono tranquillo ai Catalani, ma al ritorno di Napoleone fu ordinata una leva straordinaria, e Fernando fu costretto a partire. Io pure partii, ma essendo più vecchio di Fernando, ed avendo da poco sposata la mia povera moglie fui inviato soltanto sulle coste. Fernando, incorporato nelle schiere attive, venne mandato col suo reggimento al ponte, e in battaglia. Era di piantone alla porta di un generale che aveva segrete relazioni col nemico e che quella notte stessa doveva riunirsi agli inglesi. Il generale gli propose di accompagnarlo, Fernando accettò, abbandonò il posto e seguì il generale. Ciò che lo avrebbe potuto condurre davanti a un tribunale di guerra, gli servì da raccomandazione. Rientrò in Francia con la spallina di sottotenente, e siccome non gli mancava la protezione del suo generale, che allora godeva molto favore, divenne capitano nel 1823, all’epoca della prima guerra di Spagna, vale a dire al tempo in cui Danglars arrischiava le sue speculazioni. Siccome Fernando si poteva considerare quasi spagnolo, fu inviato a Madrid per esplorarvi le intenzioni dei suoi compatrioti. Là ritrovò Danglars, discorsero insieme, promise al suo generale l’appoggio dei regi della capitale, e delle province, e ricevette delle promesse, assunse sul suo conto degli impegni. Guidò il reggimento francese per sentieri solo a lui noti fra le gole guardate dai regi, e finalmente in questa breve campagna rese servigi tali, che dopo la presa del Trocadero venne nominato colonnello, e ricevette la croce di ufficiale della Legion d’Onore unitamente al titolo di barone.”

“Destino, destino!” mormorò l’abate.

“Sì, ma ascoltate, che non è ancor tutto. Finita la guerra di Spagna, la carriera di Fernando si trovava messa a rischio dalla lunga pace che doveva regnare in Europa: la Grecia soltanto era sollevata contro la Turchia, e cominciava la guerra della sua indipendenza; tutti gli occhi erano puntati su Atene; era di moda compiangere e sostenere i greci. Fernando domandò ed ottenne il permesso di andare al servizio della Grecia continuando però ad essere iscritto sui registri dell’esercito. Qualche tempo dopo si seppe che il barone di Morcerf, tale era il nome che portava, era entrato al servizio di Alì-Pascià, col grado di generale istruttore. Alì-Pascià fu ucciso come sapete; ma prima di morire ricompensò i servigi di Fernando, lasciandogli una somma considerevole, colla quale tornò in Francia, dove gli venne confermato il grado di luogotenente.”

“E oggi?” domandò l’abate.

“Oggi” proseguì Caderousse, “è barone e deputato, possiede un palazzo magnifico a Parigi, in rue Helder, 27.”

L’abate aprì la bocca, rimase un momento come un uomo che esita quindi facendo uno sforzo su se stesso: “E Mercedes?” disse. “Venni assicurato che scomparve.”

“Disparve” disse Caderousse, “come sparisce il sole per rialzarsi l’indomani più splendente.”

“Lei pure ha fatto fortuna?” domandò l’abate con un sorriso ironico.

“Mercedes a quest’ora è una delle più grandi dame di Parigi” riprese Caderousse.

“Continuate” disse l’abate, “mi sembra di ascoltare il racconto di un Sogno. Ma io stesso ho veduto cose sì straordinarie che mi sorprendono poco quelle che mi dite.”

“Mercedes dapprima fu disperata per il colpo che gli tolse il suo Edmondo. Vi ho detto le sue istanze verso il signor Villefort e la sua devozione per il padre di Dantès. In mezzo alla sua disperazione, un altro dolore venne a colpirla, e fu la partenza di Fernando di cui ignorava il delitto, e che considerava come fratello. Fernando partì, e Mercedes rimase sola. Tre mesi passarono in lacrime; nessuna notizia di Fernando: null’altro avanti agli occhi che un vecchio moribondo disperato. Una sera, dopo essere rimasta tutto il giorno, seduta come sua abitudine, presso l’angolo delle due strade che dai Catalani conducono a Marsiglia, ritornò nella baracca, triste più del consueto: né l’innamorato, né l’amico ritornavano da una di quelle due strade e non riceveva notizie né dell’uno, né dell’altro.

“D’improvviso le sembrò udire un passo conosciuto, si volse con ansietà, la porta si aprì, e vide comparire Fernando coll’uniforme di sottotenente. Non era la metà di ciò che piangeva, ma era una parte della sua vita passata che ritornava a lei. Mercedes strinse le mani di Fernando con trasporto tale, che questi credette fosse amore per lui, mentre non era che la gioia di non essere più sola al mondo, e di vedere un amico dopo quelle lunghe ore di triste solitudine. E poi, bisogna pur dirlo, Fernando non era mai stato odiato, egli non era amato, ecco tutto. Un altro occupava interamente il cuore di Mercedes, quest’altro era assente… era sparito… forse morto…

“A quest’ultima idea suggerita da Fernando, Mercedes scoppiò in singhiozzi, e si contorse le braccia per il dolore. Ma quest’idea, che aveva respinto tante volte, quando le veniva suggerita da altri, ora le veniva spontaneamente allo spirito. D’altra parte il vecchio Dantès non cessava di dirle: “Il nostro Edmondo è morto; se non fosse morto ritornerebbe”. Il vecchio morì, come vi dissi. Se fosse vissuto, Mercedes forse non sarebbe diventata mai la moglie di un altro, perché il buon vecchio sarebbe sempre stato là a rimproverarle la sua infedeltà. Fernando lo capì e non ritornò che quando seppe la morte del vecchio. Questa volta era tenente. Nel primo viaggio non aveva detto una parola d’amore a Mercedes; nel secondo le ricordò che l’amava sempre. Mercedes domandò sei mesi ancora per aspettare e piangere Edmondo.”

“Gran cosa!” disse l’abate con un sorriso amaro. “Non erano che diciotto mesi in tutto. Che può domandare di più l’amante più adorato?” Poi mormorò queste parole del poeta inglese: “Frailty, thy name is woman”, - Fragilità il tuo nome è donna!”.

“Sei mesi dopo” riprese Caderousse, “si effettuò il matrimonio nella chiesa degli Accoulès.”

“Era la medesima chiesa ove doveva sposare Edmondo” mormorò l’abate, “il marito solo era cambiato, ecco tutto.”

“Mercedes dunque si maritò” continuò Caderousse, “e quantunque agli occhi di tutti sembrasse tranquilla, però svenne passando davanti alla Riserva, ove diciotto mesi prima era stato celebrato il fidanzamento con colui che avrebbe capito di amare tuttora, se avesse osato guardare nel fondo del cuore. Fernando più felice, ma non più tranquillo, perché io l’ho allora veduto, temeva sempre il ritorno di Edmondo, Fernando si occupò subito di espatriare con sua moglie, di esiliarsi con lei. Vi erano molti pericoli da temere, e nello stesso tempo troppi ricordi da combattere, restando ai Catalani. Otto giorni dopo le nozze, partirono.”

“Rivedeste più Mercedes?” domandò l’abate.

“Sì, nel momento della guerra di Spagna a Perpignano, ove Fernando l’aveva lasciata; si occupava dell’educazione di suo figlio.”

L’abate rabbrividì.

“Di suo figlio?” disse

“Sì” rispose Caderousse, “del piccolo Alberto.”

“Ma per istruire questo figlio” continuò l’abate, “avrà ricevuto anch’essa un’educazione? Mi sembra di avere inteso dire da Edmondo che era figlia di un semplice pescatore, bella, ma non istruita.”

“Oh!” disse Caderousse. “Conosceva dunque così male la sua fidanzata! Mercedes avrebbe potuto divenire regina, se la corona dovesse essere posata soltanto sulle teste più belle, più intelligenti. La sua fortuna ingrandiva da sé, lei diveniva grande con la sua fortuna: imparava il disegno, la musica, tutto. D’altra parte io credo, sia detto fra noi, che non facesse tutto ciò che per distrarsi, per dimenticare, e che non mettesse tante cose in testa, che per combattere quelle che aveva in cuore. Ma, ora che tutto deve dirsi” continuò Caderousse, “la fortuna e gli onori l’hanno senza dubbio consolata. Ella è ricca, è baronessa, e tuttavia…”

Caderousse si fermò.

“Tuttavia, che cosa?” domandò l’abate.

“Tuttavia, sono sicuro che non è felice.”

“E che cosa ve lo fa credere?”

“Ebbene, quando io stesso mi sono ritrovato troppo disgraziato, ho pensato che i miei antichi amici mi avrebbero aiutato in qualche cosa. Mi sono presentato a Danglars, che non mi ha voluto neppure ricevere. Sono stato da Fernando, e mi ha fatto passare cento franchi per le mani del cameriere.”

“Così non li vedeste, né l’uno né l’altra.”

“No, ma mi vide la signora di Morcerf.”

“E come?”

“Quando sono uscito, una borsa cadde ai miei piedi, conteneva venticinque luigi. Alzai la testa e vidi Mercedes che chiudeva il balcone.”

“E Villefort?” domandò l’abate.

“Oh, egli non era mio amico, non lo conoscevo, non avevo nulla a domandargli.”

“Ma non sapete che ne sia accaduto, e qual parte abbia presa alla disgrazia di Edmondo?”

“No, so soltanto che qualche tempo dopo averlo fatto arrestare, sposò la signorina di Saint-Méran, e ben presto lasciò Marsiglia. Senza dubbio la fortuna gli avrà sorriso come agli altri, senza dubbio sarà ricco come Danglars, considerato come Fernando. Io solo, sono rimasto povero, miserabile, e dimenticato da tutti.”

“V’ingannate, amico mio” disse l’abate, “qualche volta può sembrare che Dio dimentichi qualcuno; ma viene il giorno della giustizia, viene il giorno in cui si ricorda, ed eccovene una prova.”

A queste parole l’abate cavò il diamante dalla tasca porgendolo a Caderousse: “Prendete” gli disse, “prendete questo diamante, poiché è tutto vostro.”

“Come, a me solo?” gridò Caderousse. “Ah! signore, vi burlate di me!”

“Questo diamante doveva essere diviso fra gli amici di Edmondo; ma lui non aveva che un solo amico, la divisione diventa dunque inutile. Prendete questo diamante, e vendetelo; vale cinquantamila franchi, ve lo ripeto, e spero che questa somma basterà per togliervi dalla miseria.”

“Oh, signore” disse Caderousse, avanzando timidamente una mano, mentre con l’altra si asciugava il sudore che gli stillava dalla fronte. “Oh, non vi fate gioco della felicità, o della disperazione di un uomo!”

“Io so ciò che è la felicità, e ciò che è la disperazione, e non mi prenderei mai gioco di questi sentimenti” riprese l’abate. “Prendete dunque, ma in cambio…”

Caderousse che già toccava il diamante, ritirò la mano.

L’abate sorrise.

“In cambio” continuò, “regalatemi quella borsa di seta rossa che il signor Morrel aveva lasciata sul caminetto del vecchio Dantès, e che mi avete detto essere nelle vostre mani.”

Caderousse, sempre meravigliato, aprì un grand’armadio di quercia, e dette all’abate una lunga borsa di seta di un rosso scolorato, e intorno alla quale scorrevano due anelli in altro tempo dorati.

L’abate la prese, e dette il diamante a Caderousse.

“Oh, voi siete un uomo di Dio!” gridò Caderousse. “Perché in verità nessuno sapeva che Edmondo vi avesse dato questo diamante, ed avreste potuto conservarlo per voi.”

“Bene” pensò l’abate fra sé, “tu l’avresti fatto, mi sembra.”

Quindi si alzò, prese il cappello ed i guanti e domandò:

“Soprattutto, quanto mi avete detto è del tutto vero? posso credervi su tutti i punti?”

“Vi giuro sul mio onore, e per quanto vi è di più sacro che non vi ho detto una parola che non sia vera.”

“Basta così” disse l’abate convinto, “sta bene; che questo danaro possa esservi di profitto. Addio, io ritorno lontano dagli uomini che fanno tanto male ai loro simili.”

E l’abate, liberandosi a gran fatica dalle entusiastiche dimostrazioni di Caderousse levò la sbarra della porta, uscì, risalì a cavallo, salutò un’ultima volta l’oste che si confondeva in addii clamorosi, e partì seguendo la stessa direzione che aveva tenuta nel venire.

Quando Caderousse si volse, vide dietro a sé la Carconta più pallida e più tremante che mai:

“È vero ciò che ho sentito?” disse.

“Che cosa? Che ci ha dato il diamante per noi soli?” disse Caderousse quasi pazzo dalla gioia.

“Sì.”

“Non vi è nulla di più vero, eccolo qua.”

La donna lo guardò un momento, poi riprese con voce rauca:

“E se fosse falso?”

Caderousse impallidì e si scosse:

“Falso” mormorò, “falso… E perché quest’uomo avrebbe dovuto regalarmi un diamante falso?”

“Per avere il tuo segreto senza pagarlo.”

Caderousse rimase un momento stordito sotto il peso di questa supposizione.

“Oh” disse, dopo breve silenzio, e prendendo il cappello che mise sul fazzoletto che teneva annodato intorno alla testa, “lo sapremo ben presto.”

“E in qual modo?”

“Oggi c’è la fiera a Beaucaire: vi sono dei gioiellieri di Parigi: vado a farlo vedere. Tu guarda la casa, fra due ore sarò di ritorno.”

E Caderousse si lanciò fuori di casa prendendo a tutta corsa la strada opposta a quella tenuta dallo sconosciuto.

“Cinquantamila franchi!” mormorò la Carconta rimasta sola. “È molto danaro sì…, ma non è una grande fortuna.”

alexandre dumas père, il conte di montecristo

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